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Raccolta di testi in prosa di Arturo Lattuneddu
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Controcorrente

CONTROCORRENTE

(1° classificato Premio Letterario "Riviera Adriatica"  sezione racconti - Ancona 2014)

 

Il passaggio all’adolescenza fu una faccenda piuttosto complicata.

Non capivo cosa stava succedendo fuori e dentro di me, avevo l’ansia di vivere e, inconsciamente, rifiutavo di crescere; mai vissuto niente di simile. C’era stato sì l’asilo con il lupo “che mi spaventi, fatto di pelo fatto di denti” e, una volta cresciuto, la paura del buio della cantina di casa che il babbo si ostinava a farmi esorcizzare mandandomi a prendere il vino, ma qui si era quasi sul paranoico.

Il lupo era diventato poco credibile nel giro di un paio d’anni assieme a Babbo Natale, la Befana e la Fatina dei denti, mentre il fischiettare dell’inno di Mameli scendendo le scale e soprattutto una illuminazione nuova di zecca avevano debellato i mostri delle tenebre.

Mi dicevano che era un momento transitorio, che c’erano passati tutti e nessuno era morto per questo, che nella vita mi aspettava ben altro, ma erano solo parole vuote e il mio pessimismo cosmico era ormai a livelli di guardia.

Questa volta non c’era solo un segno tracciato a matita sul muro da raggiungere e superare; se era una prova, non vedevo la prova! Ci avevo pensato e bene ed ero più confuso di prima.

Era difficile identificarmi nel giovane Lakota con i cavalli dei Crow da rubare, o nel ragazzo Hamer alle prese con i tori da saltare, o nel bambino spartano che inizia il durissimo agoghè. Mi sentivo impreparato a tutto.

Quell’insieme di situazioni della crescita che gli psicologi definiscono “nodi vitali” era un groviglio inestricabile che mi strangolava e se è vero che c’è un disegno del futuro di ciascuno di noi percepivo il mio come uno scarabocchio.

Vivevo una tranquilla normalità in una bella famiglia e contemporaneamente, forse ingiustamente, mi sentivo soffocare senza riuscire a chiedere aiuto. Stavo avendo una crisi di vocazione in generale, che neanche il prete più spretato …, e c’era dentro invischiato, colmo dei colmi, anche il mio passatempo preferito, la pesca.

Avevo un qualcosa che mi agitava dall’interno, mi toglieva la sicurezza del presente e i riferimenti per il futuro.

Le mie reazioni erano spesso isteriche, sproporzionate e incomprensibili ai più, eccetto che allo zio. Lui si limitava a squadrarmi da lontano, aspettando il momento buono per intervenire senza tanti preamboli dialettici.

Come sempre si inserì con tempismo perfetto: mi prese con sé e partimmo per il Friuli, subito e al netto di improbabili spiegazioni, in barba alla scuola e alle deboli resistenze dei miei genitori, molto preoccupati della piega che avevano preso le cose.

Ufficialmente andavamo a trovare mio cugino Paolo, da quattro mesi sotto la naja. Ci eravamo riservati per così dire una settimana sabbatica di cui però mi sfuggiva il senso.

Nonostante la miopia, la scoliosi, una lieve insufficienza toracica, qualche parolina discreta sussurrata dal parroco all’orecchio del comandante del distretto, Paolino era partito militare.

Paolino, non Paolo o Paolone.

Il soprannome glielo avevano appiccicato alle elementari e sembrava calzante perché era il più basso e magro della classe, occhiali con montatura di metallo, calzoni corti indossati fino alla scadenza e quasi all’età adulta, ginocchia ossute prominenti e un sorriso eternamente stampato sulla faccia, indifferente al ciclopico apparecchio ortodontico e ai suoi elastici tesi a balestra.

Divideva il suo tempo fra la chiesa, dove era il chierichetto preferito per matrimoni e funerali con relative mance, e il calcio che gli consentiva di caraccolare per il campo senza lenti, libero di divertirsi senza vedere.

Diversamente da altri che vivevano la chiamata del militare come una punizione da dramma esistenziale, lui sperava di essere scelto a dispetto delle evidenti carenze fisiche.

Infine era giunta la famosa cartolina di colore pastello e tutti avevano pensato, per motivi diversi, a un errore: invece era abile e arruolato, 11° bersaglieri di stanza a Orcenico, Friuli.

Non un soldato di fanteria qualsiasi, ma uno con le penne!

Le foto di quel periodo sembrano un dejà vu: lo ritraggono in divisa, il più piccolo nonostante sia l’unico a indossare il mitico cappello, lo sguardo marziale dietro le lenti spesse e il solito sorriso da lobo a lobo. La vita militare l’aveva irrobustito e lui si era calato completamente nello spirito di corpo, portando un entusiasmo contagioso. Stava bene in gruppo ed era tanto socievole e ciarliero che i compagni affermavano avrebbe fatto amicizia con chiunque, anche con una scatola di cartone!

La nostra visita lo rallegrò, come doveva essere, però ben presto tornò alla routine del bersagliere, non prima di averci suggerito qualche posticino giusto per pescare.

La Carnia in quella zona era piena di corsi d’acqua: fiumi, torrenti, canali, anche solo rogge o gorghi di mulini, popolati di trote e temoli.

C’era solo l’imbarazzo della scelta che, nel giro di un paio di giorni di esplorazioni e cicchetti offerti in osteria, si restrinse al fiume Fiume, un’omonimia fortunata.

Ci accolse la locanda ”Il pettirosso”, il nostro alloggio a una stella col bagno in comune nel corridoio, di cui serbo ricordi indelebili, legati al letto immenso, per una volta tutto per me piacevolmente immobilizzato da una coperta pesante e calda, e alla polenta, mai mangiata così buona prima di allora.

Grazie a queste nuove esperienze sensoriali cominciavo a uscire dal guscio e lo zio diceva pensieroso: “Ogni tanto prendi un respiro profondo e assaporalo. Sembra strano, ma ti fa sentire vivo”.

Anche il letto del fiume era largo e a più piazze, con certi sassoni che ne indirizzavano il corso, in modo gentile senza turbarne il fluire regolare. Uno di questi era come una grossa lama che tagliava un gorgo profondo, piatto e appena sollevato sull’acqua. Lo zio attento l’aveva subito adocchiato, osservandolo in diversi momenti della giornata e da varie angolazioni, quando il mulinello della corrente disegnava strani riflessi e trasparenze.

Camminava sul sasso, si fermava a fumare un sigaro, si sporgeva appena e buttava in acqua qualche sassolino e frammenti d’erba. Era sicuro che il fiume l’avesse scavato ben bene trasformandolo in una cassa di risonanza per i rumori, anche i più lievi. Doveva ospitare un pesce di esperienza, quindi grosso, abituato a mangiare nel silenzio, ma non avevamo visto nessuno pescare da lì sopra.

I racconti dei vecchi perditempo stanziali nell’unico “Caccia & Pesca” del paese si animavamo solo parlando della trota marmorata e di alcuni esemplari notevoli pescati tempo addietro proprio da quelle parti.

Le segnalazioni però erano un po’ datate e s’interrompevano bruscamente nel marzo di due anni prima, all’epoca dell’ultima, memorabile cattura.

Lo zio era intenzionato a riallacciare quel filo e mi confessò di mirare decisamente alla regina, senza distrazioni e senza considerare le trotelle che si vedevano ogni tanto salire in superficie per assaggiare un’effimera.

Un giorno ci alzammo che scendeva una pioggerellina fine, fitta e costante e capimmo che era giunto il momento. Il cielo era chiuso e percorso da nuvolaglie agitate che non promettevano nulla di buono, un tempo perfetto per i nostri scopi. L’acqua del fiume era già macchiata con qualche detrito galleggiante portato dalla corrente. Nessuno in giro a bagnarsi, eccetto noi.

Puntatina veloce nell’orto dietro al Sale & Tabacchi, quello con lo stallatico maturo, per cavarne qualche grasso lombrico e subito sul sasso. Silenzio e immobilità, la canna già pronta. Una fumatina e uno sguardo intorno, giusto il tempo di tranquillizzare il pesce che immaginavamo allertato dai nostri passi.

Un sospiro e la lenza appoggiata ai margini del gorgo, un piombino e un lombrico. L’esca che turbina un po’ prima di scivolare sotto il sasso e sparire. Qualche istante e un colpo deciso, di polso, portato verso l’alto. Movimenti precisi, fluidi, di trazione controllata e la canna come un elastico che trattiene il pesce, grosso e combattivo, poco propenso a lasciare il riparo di pietra. In ultimo il tentativo nella corrente, con fughe lunghe, il tempo che passa, qualcuno che si è accorto del trambusto e osserva da lontano, discreto.

La resa, passiva, reclinata, a ondeggiare nell’acqua bassa.

Una trota marmorata con una livrea bellissima, vecchia e furba, ma non abbastanza per lo zio, ora al centro di un capannello di gente e di commenti ammirati. E giri di ombre e tocchetti di polenta fritta, comparsi miracolosamente dal nulla, a raccontare fino allo sfinimento particolari veri o inventati per stupire, anch’io protagonista mio malgrado.

Le facemmo il funerale in osteria, con la tovaglia di lino e i piatti buoni della festa, con Paolino e l’adolescenza seduta accanto a me, non più un’estranea.

 


Id: 2586 Data: 27/01/2015 19:01:46

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Il famoso Lanzeta

IL FAMOSO LANZETA

(3° classificato del Premio Letterario Internazionale Città di Arona "Gian Vincenzo Omodei Zorini" XV edizione - anno 2013; sezione medici scrittori nel mondo).

 

Credo che mio zio sia stato l’uomo più buono del mondo e questo non ha niente a che vedere con i suoi trascorsi giovanili in seminario, dettati più dalle esigenze familiari di avere una bocca in meno da sfamare che da una vocazione genuina.

Non era caritatevole, né particolarmente pio, ma possedeva una naturale propensione verso il prossimo, fatta di gestualità e silenzi partecipi. L’intesa non era mai ricercata, era più un’affinità confermata da poche parole e rare frasi e l’amicizia che ne nasceva valeva per sempre.

Il primo vivido ricordo che ho di lui sono le sue grandi mani, dalle dita lunghe e forti, protese a sollevarmi da terra per mostrarmi l’orizzonte.

“Guarda sempre lontano per capire…”.

E io lo facevo per fargli piacere e per me.

Viveva nella nostra stessa casa, in poche stanze indipendenti che odoravano di tabacco da pipa, di libri e di ricordi.

Quando andavo a trovarlo mi sedevo di solito a un vecchio banco di scuola elementare, completo di penne e calamaio, usato come scrittoio e sistemato in un angolo della stanza da letto, mancava solo il suono della campanella.

Di lato una mensola con sopra i pochi libri “che vale la pena di leggere” mi diceva con uno scappellotto, fra i quali i miei preferiti, da sfogliare anche solo per le figure, colorate e protette da carta velina: “I tre moschettieri”, “Il richiamo della foresta”, “Dalla terra alla luna” e “Capitani Coraggiosi”.

Era il rifugio dove mi appartavo per stare un po’ per conto mio, a fantasticare. Da lì, girando appena la testa, riuscivo a sbirciare attraverso la porta-finestra che dava sul cortile interno, molto piccolo in verità, con al centro, inutile, un vecchio ciliegio solo tronco e gomme traslucide che lo zio si ostinava a non voler abbattere perché piantato da suo padre, mio nonno.

Il soggiorno era per le visite importanti e mi piaceva per le fotografie appese, in bianco e nero, tante, di paesaggi e persone d’Africa dove aveva combattuto e trascorso qualche anno di prigionia. Ogni tanto mi soffermavo a guardare quelle immagini, alcune più a lungo e intensamente, figurandomi come doveva essere stata la vita laggiù, prima e dopo l’attimo fissato dal fotografo.

Ne parlava senza acrimonia, legando quel periodo della sua esistenza a scelte forse discutibili, ma vere. Era un fatalista disilluso che aveva fortemente creduto in un sogno più grande di lui e del suo Duce e non per questo l’aveva rinnegato alle prime avversità.

Io chiedevo di safari, leoni e giungla - erano gli anni delle letture “salgariane” e della sete di avventura - lui mi narrava di reticolati, fame, sete e tifo petecchiale.  Il Sudafrica non era ancora “il mondo in un paese” dei depliant di carta patinata.

Ne tornò provato nel fisico per una serie di malanni dai nomi impronunciabili, così come nello spirito per riflessioni solitarie e ponderate sull’idealismo fascista. Ma era giovane e vivo, solo più attento e disincantato.

Ci mise un po’ a recuperare i ritmi della normalità e dovette ricredersi su alcune questioni di fondo, nonostante fosse di mente aperta e sapesse che il vento politico è mutevole e capriccioso.

Parlava un discreto inglese e, soprattutto, sapeva pescare a mosca. Dell’inglese se ne fece poco perché nel primo dopoguerra il dialetto era ancora la lingua madre e la Romagna, la sua Riviera e persino l’italiano erano sconosciuti ai più, mentre l’insolito, per molti eccentrico, modo di acchiappare pesci lo rese subito famoso e gli fruttò il soprannome di “Lanzeta”. Lanzeta sapeva come muoversi nel fiume e nell’acqua in generale, e soprattutto pescava per divertimento, non per mangiare, chiamando sport questo strano esercizio.

La gente lo guardava come si potrebbe osservare un marziano, con un interesse misto a soggezione e scuoteva la testa rapita, ma poco convinta. Era fuori dalla realtà e dal senso comune stare per ore coi piedi a bagno e frustare la corrente inseguendo la perfezione del gesto.

Il suo punto di vista era radicale e anche questa volta si trovava a percorrere una strada in salita, molto poco affollata. Non se ne curava, concentrato com’era sul non trascurabile fastidio di guadagnarsi il pane per poi potersi svagare liberamente.

Il lavoro scarseggiava, ma lui era abile in tutto e ricercato perché puntuale, preciso e disponibile al baratto. Aveva infatti uno strano concetto del denaro , inteso come un mezzo e non un fine. “Guarda che i soldi non me li porto nella tomba” amava ripetere.

Era un antico Homo abilis con tratti del cacciatore anzi del pescatore raccoglitore del Paleolitico: alto, asciutto, le braccia lunghe a bilanciare un’andatura dinoccolata, a larghe falcate, sostenuta da gambe sottili e nervose. Da fermo, i piedi ben piantati, sembrava pendere appena in avanti ed emanava energia positiva che si trasmetteva alle persone intorno. Prendeva dalla natura quello che gli serviva evitando di accumulare il superfluo.

L’attrezzatura da pesca però era di prima scelta, costata una fortuna e fatta venire appositamente dall’Inghilterra. Gliel’avevano pagata un pò tutti, senza accorgersene, perdendo regolarmente qualche lira al gioco delle piastre del quale era un interprete abilissimo. Curava personalmente la scelta dei sassi girando per il greto del fiume alla ricerca dei ciottoli più piatti, simmetrici e bilanciati. Li scheggiava ai bordi rendendoli affilati quel tanto da poterli insinuare sotto quelli dell’avversario senza rischiare di arenarli nel terreno di gioco.

Poi servivano occhio, braccio e fortuna, proprio come a pesca.

Ci aveva messo un bel po’ di domeniche e di sfide nelle aie di terra battuta di mezza Romagna, ma alla fine le vincite avevano raggiunto una cifra ragguardevole che, aggiunta a qualche risparmio, aveva consentito l’acquisto personale più costoso dai tempi dell’armistizio.

Gli amici intimi, quelli che potevano permettersi di prenderlo in giro, gli dicevano che con quei soldi avrebbe potuto comprare il piede destro, quello sbagliato, del calciatore della Juventus Omar Sivori e l’investimento sarebbe stato sicuramente più proficuo.

Del vestire invece non se ne curava più di tanto indossando panni militari sformati ma pratici, che gli conferivano una certa autorevolezza oltre a dotarlo di una miriade di tasche che tendeva a riempire di tutto. Da qui l’altro appellativo di “Eta beta”, come il bizzarro amico di Topolino.

Non smetteva la divisa neanche la sera quando incontrava gli amici all’Osteria della Rosina, dove si tirava tardi a giocare a “marafone” e a bere il sangiovese della casa, prima di essere gentilmente sospinti fuori nel cortile, sotto il pergolato di vite. Lì al buio si continuava a parlare di questo e di quello, di partiti  “rossi” e di donne “more”, di soldi e di mangiare - celebre l’elegia del pollo alla cacciatora scritta su un tovagliolo dal “Pino” all’anagrafe Giuseppe, il letterato della compagnia -.

Spesso mi intrufolavo fra loro e poi, dopo aver rubato un po’ di marsala all’uovo da dietro il bancone della mescita, mi accoccolavo per terra fra i gatti ad ascoltare e nutrirmi di storie. Ero tollerato per un po’, ma quando si facevano discorsi “da grandi” venivo spedito a dormire. Immancabilmente lo zio si alzava per accompagnarmi, lo intravedevo solo dal movimento della brace della sigaretta e mi prometteva di portarmi con sé a pescare, una volta o l’altra, diceva.

Dovevo crescere, almeno fino a un tratto prestabilito segnato a  matita sul muro e imparare a nuotare.

Vivevo di sogni e lui ne era l’artefice e l’artista.

Era diretto, rigoroso verso se stesso e gli altri, con un codice morale intransigente, permeato di un certo misticismo religioso, ma poco propenso al perdono senza punizione e a porgere l’altra guancia. Soprattutto odiava perdere tempo dietro la futilità delle cose e la stupidità delle persone, spesso due facce della stessa medaglia.

Per qualche oscuro motivo, fra tanti nipoti, aveva scelto me come depositario dei suoi trucchi, dei suoi segreti, delle sue aspettative per il futuro che sempre, ostinatamente, rifiutava di considerare “a termine”.

A proposito di questo e dei temi pregnanti della vita e quindi della morte parlava di stagioni, di percorsi imperscrutabili e di selezione naturale; mai menzionati medico e medicine, mai accennato a malattie e alla morte come decadimento. Piuttosto paragonava il tutto a una giostra dalla quale alla fine si scendeva cercando di non ruzzolare giù.

Di volta in volta allievo, scolaro, discepolo, feci di tutto per imparare, ma soprattutto per meritare la sua considerazione e acquisire la sua leggerezza d’animo. Ci riuscii, e gradualmente “venni al vento”, in grado di scivolare nella vita e sul fiume, come lo zio.

Alla fine, quando l’Alzheimer lo allontanò per sempre da noi, feci quello che lui aveva fatto per me tante volte quando ero bambino: stare insieme, solo e semplicemente stare insieme. Facevamo lunghi giri a braccetto senza meta e senza parole, con lui a tirare come un cavallo bolso e io con la testarda speranza di un risveglio.

Talvolta i suoi passetti rapidi si arrestavano per un attimo, una ruga di concentrazione compariva sulla fronte, gli occhi si accendevano su una visione che squarciava il velo della mente e il braccio destro aveva un movimento convulso al modo di lanciare qualcosa. Sembrava il gesto rituale del pescatore a mosca. Era come si aprisse una finestra temporale che fugacemente lo avvicinava alla realtà di un mondo parallelo ormai irraggiungibile e lo liberava dalla prigione dove la malattia l’aveva rinchiuso irrimediabilmente.

Questo era mio zio e le sue storie hanno chiamato le mie.


Id: 2585 Data: 26/01/2015 16:12:40