Si apprestava a uscire, il Duca. La sua epoca volgeva all'occaso, la storia gli girava le spalle.
Il suo tempo ormai era concluso.
Aveva cominciato la giornata con la vestizione, anche se immaginava che all’uscita non ci sarebbe stato nessuno ad attenderlo, sperava solo di non assistere ai lanci di frutta e al “codardo oltraggio” lungo la via dell’esilio, che temeva facesse seguito al “servo encomio” che molti gli avevano tributato da quando era asceso al trono, e che molti tributavano ai regnanti spazzati dall’onda di “mar commosso” che li colpiva.
E più l’encomio era stato servo, maggiore era, poi, l’oltraggio.
Un’insolita calma “regnava”, si può ben dire, nel Palazzo Ducale, nessuno si faceva vedere, e questo gli metteva una certa ansia, unita al fatto che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe percorso i corridoi e le stanze che costituivano la reggia.
Sapeva che si era comportato bene, specie in quell’ultimo atto, non aveva voluto che nessuno si facesse male. La sorte era segnata e dunque era inutile sacrificare il suo piccolo esercito in una difesa che sarebbe stata vana di fronte ad un esercito tanto più numeroso e armato del suo.
“Sono più belle le nostre uniformi, che efficaci e numerose le armi” – aveva detto al suo consigliere.
Tutta la rabbia, l’aveva riposta in una lettera che fatta recapitare all’ambasciatore di chi stava per impossessarsi del suo Ducato.
“Noi dobbiamo dunque a nostro malgrado volgere lagnanze verso il governo nostro vicino che intese a soppiantarci e, senza giusti motivi, considerarci come nemici…”
“Touchez…” almeno pensava lui, toccava con la penna, perché non aveva potuto farlo con la spada.
Percorrendo l’ultima parte dei corridoi, e avvicinandosi alla porta, cominciò a sentire il rumore che fanno le persone in silenzio, dentro il palazzo e fuori dal grande portone che si apriva sul cortile interno dove lo aspettava la carrozza che lo avrebbe portato verso l’esilio. Che poi tanto esilio non era, visto che tornava nella sua città di origine, che aveva in grande i fasti che lui aveva cercato di riprodurre nel suo ducato.
Avrebbe rivisto le colossali scenografie dei colonnati e delle ampie vie della capitale imperiale che l’aveva visto bambino.
Perché gli prendeva allora quell’assurda nostalgia per ciò che lasciava?
Dalla luce ovattata del palazzo e dalla frescura fu sorpreso dalla grande luce e dal caldo di giugno che irradiava il cortile, ma, subito dopo ancora di più dalla presenza di tutto il suo piccolo esercito che aveva messo in libertà il giorno prima, accordandosi perché tutti potessero, se volevano, entrare nell’esercito “vincitore”.
“Mi daranno l’ultimo saluto” - pensò e avanzò solenne e impettito, orgoglioso del tributo che riceveva.
Diede un ultimo sguardo ai portici del cortile e salì sulla carrozza, che allora si mosse.
Di lì a poco anche tutto il suo piccolo esercito lo seguì.
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