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Equinozio di Primavera - il rito della Pasqua 3

Argomento: Religione

Saggio di Giorgio Mancinelli (Biografia)

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Pubblicato il 01/04/2017 18:35:32

Pasqua di Resurrezione / 2
(ricerca etnologica e musicale nella tradizione italiana)

Dal ‘Codice Musicale Panciatichi 26’, folio 65 recto (Sec. XV) della Biblioteca Nazionale di Firenze. Su musica di Jacopo da Bologna, incluso nel ‘Instrumental-Variation’ del Codex Faenza Biblioteca Comunale Ms 117 (Sec. XV).

«O ciecho mondo di lusinghe
pieno
Mortal veleno in ciascun
tuo dilecto
Fallace pien d’inganni e
con sospetto
Però giàmai dite colui non
curi
Che’l frutto vuol gustar di
dolci fiori
Foll’è colui c’ha te diriga’l
freno
Quando a per men che
nulla quel ben perde
che sopra ogni altre amor
luç’è sta verde
Però … »

La scelta di ‘O ciecho mondo..’ non è casuale, la cui rilettura in tempi come quelli attuali, vuole riferire del ricorrere nella storia di momenti eguali ad altri di passata memoria che dovrebbero far riflettere sulla caducità dell’esistenza umana, sulla transitorietà della breve vita che ci accomuna tutti in un’unica ‘realtà’ possibile che non va sprecata. Troppe sono le contrarietà cui soccombiamo ogni giorno: violenza, fame, incidenti, mortalità infantile, stupri, diffamazioni, che stravolgono la troppa fragilità dei sentimenti per i quali stiamo al mondo come la pace, la fratellanza, l’amore. Quell’amore che si vuole un giorno ‘salverà il mondo’ ma del quale non si vede che qualche misera traccia subito cancellata dai turbinosi venti di guerra e dagli attentati terroristici che spazzano via la speranza, che non va mai taciuta, per un mondo migliore.
Da il ‘Primo Libro delle Laudi Spirituali a tre voci’ – Roma 1585

«Però … chi vuol seguir la guerra
per far del Ciel’acquisto
su levisi da terra
e venga à farsi cavallier di
Christo.
Tu dolce mio Signore
perch’io non fussi vinto
soffristi ogni dolore
e’in campo aperto rimanesti
estinto.
Et io per te ne foco
sopporto ne flagello
ma tempo un picciol gioco
de fanciulli che dican’vello
vello.
Or che grave cordoglio
lo scudo che gittai
hoggi ripigliar voglio
ripigliar voglio e non
lasciarlo mai.»

Da ‘Tutti li otto toni a falso bordone’ di Vincenzo Ruffo – Vineggia 1578

«Giorno orrendo ch’in faville
disfarà campagne e ville
scrive’l Re con le Sibille.
Alme che gran terrore
darà’l Giudice’n furore
giudicando con rigore.
Raccorrà l’orribile Tromba
tutti i morti d’ogni tomba
al Giudizio con gran romba.
Stupirà Morte e Natura
nel resurger Creatura
dall’antica sepoltura.
O tremenda Maestade
che l’uom salvi per bontade
salva me per tua pietade…
Tribunal di punizione
dona à me remissione
nanzi al dì, di far ragione.
Maddalena tu assolvestii
al Ladron pietate avesti
et à me speranza desti.
Condennate i maladetti
et al fuoco eterno strette
chiama me fra’ Benedetti.
Ch’io non sia all’eterno danno
condennat’in tanto affanno
quandoi morti surgeranno.
Et in quel giorno angoscioso
o Giesù giusto e pietoso
dona a lor pace e riposo.»

* Il ‘Codex Faenza’ è un codice musicale manoscritto del XV secolo contenente una della più antiche collezioni di musica per tastiera al mondo è attualmente conservato alla Biblioteca comunale di Faenza; contiene 52 intavolature a due voci. La maggior parte delle composizioni sono adattamenti di pezzi vocali italiani e francesi della fine del secolo XIV di compositori celebri come Francesco Landini, Guillaume de Machaut e Jacopo da Bologna, oltreché alcuni brani di anonimi. Di alcuni pezzi si è persa la parte vocale, resta quindi la sola parte per tastiera. La maggiore parte dei pezzi trattano temi profani, ma figurano anche tematiche religiose, come un adattamento della ‘Missa Cunctipontens genitor Deus’.

Il ‘Manoscritto Panciatichi 26’ della Biblioteca Nazionale di Firenze tra le testimonianze del Trecento musicale italiano giuntici maggiormente integri, noto da sempre e da subito riconosciuto come uno dei più antichi – come qui di seguito illustra lo studioso Stefano Campagnolo – si allarga progressivamente in senso retrospettivo a comprendere i principali autori toscani del XIV secolo, per concludersi con una collezione di cacce e madrigali canonici. Pur facendo fede a un ordinamento per generi e autori, ma non cronologico di quella che inizialmente sembra essere una collezione delle musiche di Landini. Più esattamente, si succedono, con studiata disposizione, dapprima le ballate di Landini a due voci (I e II fascicolo) e quelle a tre (III e IV), seguite da suoi madrigali e quelli di Giovanni da Cascia (V), con i quali si apre una sezione miscellanea dove troviamo mescolate insieme una lunga e omogenea sequenza di opere di Jacopo da Bologna e pezzi dei fiorentini Lorenzo Masini, Donato, Gherardello e ancora un madrigale di Landini. Inframmezzate anche da singoli componimenti di Ser Feo e Nicolò del Preposto; due composizioni anonime su testo francese e due su testo italiano e, inoltre, un fascicolo nel quale sono riuniti in maggioranza cacce e madrigali a canone; fascicolo che costituisce la più ricca selezione esistente del genere.

* «La letteratura delle laude contiene musica per una o più voci e i testi sono in lingua volgare. Le laude sono state cantate dal Duecento in poi, nelle riunioni dei cosidetti ìlaudesi’, i ‘Disciplinati di Gesù Cristo’. Queste vonfraternite furono fondate a Perugia da Ranieri Fasani nel 1258 ed erano formate da semplici artigiani, la struttura sociale dei laudesi assomigliava alle ‘gilde’ tedesche. Erano molto popolari nell’Italia del Quattrocento e Cinquecento. La sola Perugia, all’inizio del quindicesimo secolo, contava più di 40 laudesi. A Firenze, alla fine del ‘500, c’erano 137 confraternite. Nel Seicento e Settecento la tradizione dei laudesi continuò nella ‘Congregazione dell’Oratorio’ , fondata da Filippo Neri (!515-1595), nel corso della controriforma quale ordine di sacerdoti secolari.» - scrive Paul van Nevel nell’introduzione al libretto di “Die Italienische Lauda C.1400-1700”.

Al centro delle riunioni dei laudesi stavano la parola e la musica, i testi delle laudi, in lingua volgare figurativa decisamente suggestiva; queste trattano della morte, del giudizio universale, della fugacità della vita terrena ed altri temi. Oltre alle laudi su testi estratti dal Nuovo Testamento si trovano anche inni a Maria e canti processionali. La musica delle laude commuove con la sua semplicità ed è chiaramente strutturata nello stile sillabico e omofono, specialmente nel repertorio comprensivo dei secoli XV e XVI. Le laude d’appartenenza al Trecento invece sono composti nello stile del secolo, con ricche linee melismatiche che ne sottolineano la complessità. I laudesi usavano anche il cosidetto ‘travestimento spirituale’, nella cui composizione figurano canti popolari laici giocosi. Le prime raccolte di laude riferite tra il 1480 e il 1512, non presentano alcuna notazione. Su ogni laude infatti, è presente l’indicazione: ‘Cantarsi come..’ sull’aria di una più erudita lauda latina, o di una ben nota melodia; o anche, di una canzone-ballata in voga. Quelle raccolte, stranamente contengono accanto al testo semplice, reminescenze di arie oratoriane, marcate da una lirica spontanea e sincera che ha le sue radici nella colorita tradizione polifonica a più voci, più spesso desunta dall’accompagnamento strumentale popolare tipicamente italiano. Difatti alle riunioni dei laudesi facevano spesso la loro apparizione talcuni strumenti a corda e tamburelli, i quali, pur rappresentati sulle pagine miniate dei codici, in realtà erano proibiti negli ambienti ecclesiastici di allora.

Dopo l’avvio poetico-musicale al quale ho affidato questo inizio colloquiale, entriamo più addentro ai significati che la festa liturgica richiede di approfondire.
La Pasqua, ‘Pesach per gli Ebrei’, significa «passare oltre», istituita da Mosé in ricordo dell’Esoso che, per ordine diretto di Dio e con il suo aiuto, questi dovettero affrontare in quanto figli di Abramo per uscire dall’Egitto, a quei tempi terra di dolore e schiavitù. È una festa mobile collegata al plenilunio di primavera, che può cadere tanto in Marzo quanto in Aprile. Nel rispetto del calendario ebraico infatti la ‘Pesach’ ha inizio la sera del 14 Nissan, detto giorno di vigilia, e termina la sera del 22 Nissan; peridodo di otto giorni in cui gli ebrei celebrano la festa della liberazione dalla schiavitù, che, per estensione, oggigiorno festeggia ‘tutti gli uomini liberi’. In osservanza a questa tradizione, entrata successivamente anche nel nostro calendario cristiano con l’ausilio di un rituale antichissimo, la Pasqua ha assunto nel tempo, il significato strettamente cristiano di ‘resurrezione alla vita’, in ottemperanza a quella stessa che Christo ha riscattato per noi con la sua morte.

Per la ragione storica suddetta la nostra Pasqua non viene celebrata il sabato, giorno di vigilia, come invece accade per la Pesach, ma di domenica, essendo questo il giorno della Resurrezione. Più esattamente, la domenica che segue il plenilunio di primavera. Una radice molto antica quindi che lega la festa al tempo dell’attesa, anche detto ‘parusia’, o ‘tempo dell’evento’, quando i fedeli cristiani si radunavano anticipando l’arrivo del Pantocreatore, la cui ‘venuta’ avrebbe portato all’umanità tutta la speranza di una ‘pace’ condivisa. Il rito, all’origine della Messa che viene celebrata ancora oggi dall’intera comunità cristiana partecipe, richiama i fedeli attorno al celebrante, raccolti per festeggiare con canti di lode e inni di gioia questo accadimento, religioso. L’elevare canti e inni di gloria di fatto contrassegna quella ‘comunione estatica’, trascendentale cui la collettività intera si sottopone. Col passare dei secoli, tuttavia, al rito primario fondamentale della ‘parusia’, cioè dell’attesa rivelazione, si sono affiancati altri ‘momenti salienti’ di configurazione mistica in cui si ripercorrono le tappe, della narrazione evangelica, entrati poi nel così detto ‘Ufficio delle Ore’. Consistente nel canto di salmi, cantici e inni, con l'aggiunta di preghiere e letture dalle Sacre Scritture, quali, ad esempio, quelle per ‘l’ora terza’, in cui Gesù è condannato; ‘l’ora sesta’ della sua crocifissione; ‘l’ora nona’, quella della sua morte.

* L’introduzione della ‘Passio’ nel rito liturgico , raggiunge una prospettiva fortemente drammatica, la cui solennità al suo fulcro trova il vero cardine attorno al quale ruota l’intero rituale della Pasqua cristiana. Bisognerà però giungere almeno al XIII secolo, allorché con il fiorire della monodia profana, l’Italia conoscerà il fervore mistico della laude francescana; ed anche la possibilità di risalire all’origine della tradizione popolare della Sacra Rappresentazione, che solitamente si svolgeva sul sagrato delle chiese. Si deve al ‘Laudario di Cortona’ (dal titolo omonimo in Accord 1990), uno dei canti più appassionati della tradizione popolare:

‘Passione’ (Baccio di Juda)

«Plangiamo quel crudel basciare
Ke fe’ per noi Deo cruciare.
Venne Juda traditore,
bascio li died’ e gran dolore:
lo qual faciam noi per amore
a lui fo signo di penare.
Ad Anna principe menaro,
ignudo nato lo spoliaro,
battirlo forte et sì ‘l legaro
et ferlo tutto insanguinare.
Anna sì l’ebbe mandato
A Chayfasso prelato,
quelli k’el mandò a Pilato
per lui più vituper fare.
Pilato ad Erode el mandòe,
perké molto el domandòe,
cercò molto e nol trovòe
poi lo fe’ rapresentare.»

Il genere prevalentemente liturgico della lauda e del teatro dei laudesi si proponeva di inculcare nel volgo una più ampia conoscenza religiosa, in tutto il suo aspetto mistico e coreografico. Lo testimoniano le pareti affrescate delle chiese e gli innumerevoli testi successivi di riferimento della Settimana Santa con il suo riscontro fortemente drammatico delle ‘congregazioni dei flagellanti’, quei frati questuanti che durante tutta la Quaresima si trascinavano per le strade sferzandosi a sangue levando inni al Signore. Acciò il ‘Laudario di Cortona’ è dunque il primo documento noto in volgare italiano posto in musica, ‎la più antica collezione sopravvissuta di laudi conservata presso la Biblioteca ‎del Comune e dell'Accademia Etrusca di Cortona, Arezzo. Probabile libro di preghiera appartenuto a una confraternita laico-religiosa.

Ancora da ‘Laudario di Cortona’ leggiamo insieme ‘De la crudel morte de Cristo’:

«De la crudel morte de Cristo
ogn'hom pianga amaramente.‎
Quando Juderi Cristo pigliaro,
d'ogni parte lo circumdaro,
le sue mani strecto legaro,
como ladro villanamente.
A la colonna fu spoliato,
per tutto 'l corpo flagellato,
d'ogne parte fu 'nsanguinato,
como falso amaramente.‎
De la crudel morte de Cristo
ogn'hom pianga amaramente.‎
Tutti gridaro alta voce,
moia il falso moia il veloce,
sbrigatamente sia posto in croce,
che non turbi tutta la gente.
Nel suo volto li sputaro,
e la sua barba sì la pelaro,
facendo beffe li imputaro
che Dio s'è facto falsamente.‎
De la crudel morte de Cristo
ogn'hom pianga amaramente.‎

San Jovanni lo vangelisto,
quando guardava suo maiestro,
vedielo 'n croce molto era tristo,
et doloroso de la mente.
Mo l'era triste Santa Maria
quando suo figlio en croce vedea,
con gran dolore forte piangea,
dicendo: trista, lassa, dolente.‎

De la crudel morte de Cristo
ogn'hom pianga amaramente.‎»

L’Umbria francescana si pone dunque al centro di questo fervore mistico religioso portato dalla laude che dall’Italia raggiunse l’Europa tutta con le necessarie trascrizioni in volgare delle diverse lingue nazionali e regionali. Nel ripercorrere le tappe di questo itinerario flokloristico ci soffermiamo in Sicilia, dove la celebrazione della processione per il ‘Cristo morto’ del Venerdì Santo, assume toni liricamente espressivi. La stessa rappresentazione della ‘Crocefissione’, particolarmente sentita dalla popolazione, da sempre richiama un elevato numero di contendenti per interpretare le figure principali dell’azione drammatica, o come pure accade in alcune località, di partecipare ai cosiddetti ‘tableau vivants’, un tempo agìti da persone viventi e che oggi s’avvale di gruppi statuari di cartapesta e legno di ottima fattura.

La più antica forma di canto religioso è la ‘lamentanza’ o ‘ladata’, intonato in occasione della processione del Giovedì e Venerdì Santo a Palermo, ma solennemente celebrati in tutta la Sicilia. Solo poche comunità (particolarmente interessanti sono i lamenti eseguiti ad Aidone e a Piazza Armerina), conservano quasi intatto un canto tanto arcaico, la cui espressività risulta in stridente contrasto con il canto religioso e liturgico della chiesa ufficiale. La diversità stilistica delle lamentanze con i canti dei comuni fedeli si riflette in una distanza culturale che, a volte, si traduce in vero e proprio contrasto tra rappresentante della chiesa (il parroco) e quello della confraternita: il primo tende a limitare l’esecuzione di tali canti al di fuori della chiesa, la confraternita ribadisce la libertà di poterli eseguire nella propria parrocchia, mantenendo con cura una tradizione tramandata da tempi immemorabili. I cantori di ogni confraternita, tutte maschili, intonano i canti durante la visita ai sepolcri del Giovedì e la processione del Venerdì Santo:

«Bedda Matri Addulurata,
di sti spati trapassata,
ju vi pregu cù fervuri,
ora sempri in tutti l’uri.
Chistu cori tantu ingratu
Confissassi lu piccatu,
si pintissi di l’erruri
cù perfettu e gran duluri
Pi chisti Avi Recitati
a li vostri Setti Spati,
vui feriti l’arma mia,
Bedda Vergini Maria
St’arma vogliu consulata,
Bedda Matri Addulurata,
pi campari santamenti
e muriri poi cuntenti.
Ju lu speru stu favuri,
Gran Regina Di Duluri,
ca a la morti vi vidissi
e cuntentu vi dicissi:
Bedda Vergini Maria
riciviti l’arma mia
e poi, Matri Dulurusa
e lu cielu gluriusa,
cù Gesuzzu vi gudirà
in continua eternità.»

* Appartenente alla tradizione popolare è anche questo canto conosciuto in tutta le regione siciliana, probabilmente parte di una drammatizzazione; presente nell’album di Rosa Balistreri ‘Terra ca nun senti’ (Cetra 1973):
‘Lu Vènniri matinu’

«Vènniri Santu, vènniri matinu
quannu la Matri Santa
si misi ‘ncaminu
scuntrau na vicchiaredda pi la strata
ed era la Vironica chiamata.
Bona donna un omu
hatu scuntratu
nni lu visu è tuttu ‘nchiajatu
vistutu cu na vesta lavurata
beddu ca nuddu
cci po’ assumigliari.
Bona donna un omu
hajiu scuntratu
e nni lu visu è tuttu nchiajatu
la facci cu stu velu
cci haju asciucatu
e lu so visu m’arristò stampatu.
Giuda, Giuda tradituri
tradimentu a mia facisti
e pi trentatrì dinari
a me figgliu ti vinnisti.»

‘Il Venerdì mattina’
«Venerdì Santo, venerdì mattino / quando la Madre Santa / si mise in cammino /
incontrò una vecchietta per la strada / ed era la Veronica chiamata. / Buona donna un uomo avete incontrato / che ha il volto tutto piagato / vestito con una veste lavorata / tanto bello che nessuno / gli può somigliare. / Buona donna un uomo
ho incontrato / e il suo volto è tutto piagato / la faccia con questo velo / gli ho asciugato / e il suo viso mi è rimasto stampato. / Giuda, Giuda traditore / tradimento mi hai fatto/ e per trentatre denari / mio figlio ti sei venduto.
* In Sardegna questo tipo di processioni della Settimana Santa prevedono canti basati sulle letture del Vangelo, più spesso sono ‘Salmi’ inframezzati dalla narrazione degli eventi della ‘Passione’ in cui l’innesto polifonico popolare si avvale di moduli della liturgia gregoriana con innesti bizantini. Le rappresentazioni del ‘Calvario’ hanno particolarmente influenzato l’animo popolare che in più casi si è espresso con mescolanze poetiche in lingua sarda, inni e preghiere con spiccate tendenze formali e tuttavia espressive di una religiosità vissuta interiormente. Come in questo ‘canto’ che conosciamo nella esecuzione di Maria Carta nell’album ‘Nottes de incantu’ (Recording Arts 2005):

‘Non mi giamedas Maria‘
Testo di Mons. Bonaventura Licheri, 1760 circa, adattamento M. Carta, tratto da Su Settenariu pro da Chida Santa, esattamente da sa Terza Die. Versione di Ploaghe. Canto del Venerdì Santo: la voce solista intonava il canto e il resto della comunità rispondeva in coro, era il pianto della Madonna ai piedi della croce.

«No mi giamedas Maria»
[Mira, mira, mirade mira cantu dolore Mira, mira, mirade sas lagrimas ‘e sa mama ‘e Deus ma no la giamedas Maria no la giamedas Maria]
Sende mortu cun rigore su coro 'e s'anima mia no mi giamedas Maria ne de grazia piena ma de dolores e penas de turmentu e agonia [ca bido sa vida mia intregada a traitores]
No mi giamedas Maria si chi no Mama de dolore No mi giamedas Maria si chi no Mama de dolore.
No mi nedas beneitta intro 'e sas feminas ria s'intende s'anima mia triste dolente e afflitta cando l'happo dadu sa titta senz'haer tantu dolore.
No mi giamedas Maria si chi no Mama de dolore No mi giamedas Maria si chi no Mama de dolore

[Giamademi s'affligida giamademi s'attristada, sa de penas carrigada sa de ispadas ferida de Fizzu meu sa vida es dada a crocifissore.]
[Mira, mira, mirade Mira cantu dolore] »

«Non chiamatemi Maria
[Guarda, guarda, guardate guarda quanto dolore Guarda, guarda, guardate le lacrime della mamma di Dio ma non la chiamate Maria non la chiamate Maria.]
Essendo morto con patimento il cuore dell’anima mia non chiamatemi Maria né piena di Grazia ma di dolori e pene di tormenti e agonia [che vedo il mio amato figlio consegnato ai traditori].
Non chiamatemi Maria ma Madre di dolore Non chiamatemi Maria ma Madre di dolore.
Non ditemi benedetta che tra le donne infelici si trova l’anima mia triste dolente e afflitta poiché gli diedi il seno senza avere tanti dolori.
Non chiamatemi Maria ma Madre di dolore. Non chiamatemi Maria ma Madre di dolore.
[Chiamatemi l’afflitta, chiamatemi la sconsolata, colei carica di pene, ferita dalle spade, del mio Figlio la vita è data al crocifissore]
[Guarda, guarda, guardate guarda quanto dolore] »

* Il discorso sarebbe lungo poiché ogni nostra regione ha una sua Pasqua che vive e rappresenta a suo modo, così ho pensato di rimandare il prosieguo ad un altro momento, magari alla Pasqua dell’anno prossimo, Dio volendo. Ma dato che in qualche modo bisogna pur chiudere, ho pensato di riprendere dall’inizio con “Le grand Mystère de la Passion”, in chiusura del celebre manoscritto dei “Carmina Burana”, trascritto in latino frammisto a versi dialettali germanici, dai Benedettini del XIII secolo conservato a Monaco, che va annoverato come l’opera più completa di ‘Sacra Rappresentazione’ giunta fino a noi. Un crescendo musicale e corale che dal canto liturgico cristiano dei ‘salmi’ dei primordi, giunge alle ‘laudi’ medievali, e più tardi ingloba ‘florilegi’ e ‘recercari’ nella concertazione musicale rinascimentale che possiamo apprezzare nelle forme della ‘polifonia’ e del ‘melodramma’ a partire dal Settecento, fino a giungere a quel capolavoro Ottocentesco che ‘s'apre e si conclude’ con la ‘Messa da Requiem’.
* "Ex Deo nascimur In Christo morimur Per Spiritum Sanctum reviviscimus": nulla di più vero del contenuto di questa formula trinitaria inserita nel bellissimo album “Morimur” (ECM 2001) che The Hilliard Ensembre ha realizzato con il supporto di Christoph Poppen, virtuoso del violino barocco, nella ‘Partita d-Moll BWV 1004’ per violino solo e Chorale di Johann Sebastian Bach (1685-1750).

‘Crucifiggi’
(da "La stanza dei giochi impossibili" - 1980 / 2000) - raccolta inedita dell’autore di questa ricerca).

«A te
. . . che ancora uccidi
per trenta o poco più denari
. . . che ancora gridi
le verità nascoste che non sai
. . . che ancora sputi
la menzogna oscena dei bari
. . . riposa le spoglie tue mortali
oggi è un giorno di pace
. . . che Cristo risorgerà
per una Pasqua ancora
. . . se lo vorrai.»

All’occorrenza la seguente “Meditazione di Don Luciano” (cfr. dell’autore), afferente al Vangelo della Domenica, III di Quaresima, si offre al lettore nella ‘parabola del fico’ che, se da una parte manifesta la misericordia di Dio, che ha pazienza e lascia all’uomo, (a tutti noi indistintamente), un tempo per la conver-sione; dall’altra, avvverte la necessità di avviare subito un certo cambiamento inte-riore ed esteriore della vita, per non perdere le tante occasioni che la miseri-cordia di Dio ci offre per superare la nostra pigrizia spirituale e corri-spondere al suo amore con il nostro amore filiale:
«Convertirsi però è anche portare frutto, per altri. Come il fico, se vive solo per sé, non vive. Che per vivere deve dare, per la fame e la gioia di altri, un frutto che permetta ancora, ad altri, di gustare e amare la vita: Nessun uomo taglia subito un albero quando si accorge che è entrato in crisi, ma cerca di guarirlo con cura paziente, così da riportarlo nella pienezza della vita. Se tu, Signore, seguissi i nostri stessi impulsi, che ci portano ad eliminare gli operatori di iniquità, tutti e subito, il mondo sarebbe già rimasto un vuoto deserto. Tu sei l’eterno paziente e sai aspettare a lungo la conversione dei peccatori, e non hai fretta di condannare. Donaci, Signore, un cuore misericordioso, come il tuo, perché la storia dà sempre ragione non ai giustizieri impulsivi, ma ai pazienti: questi hanno imparato che perfino una pianta nata storta, con un po’ di tempo volge la sua cima verso il cielo. Amen.»

Un modo come un altro valido per ritrovare nel canto quella ‘poesia popolare’ che abbiamo ascoltata negli stessi lemmi più aulici delle partiture religiose fin qui indagate, per riscoprire che è comunque il canto liturgico a rappresentare quell’unico ufficio magistrale a cui fare riferimento nei giorni che intercorrono tra l’inizio e la fine dell Settimana Santa. Caratterizzata, se vogliamo, dalla speranza, che capace di creare bellezza nel cuore e nella mente degli esseri umani; nel tramandarsi di una tradizione millenaria, sublimata nella ‘parusia’, quell’attesa che ci vede tutti in ansia per gli ultimi drammatici accadimenti cui assistiamo nel mondo, nella speranza che infine il tutto si risolva al meglio … affinché Cristo risorga per un’altra Pasqua!

«Non c’è l’infinito senza la siepe, non c’è la siepe senza l’infinito.» (A. d’Avenia)


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