Pubblicato il 08/01/2010 12:00:00
Il “Taccuino nero” di Nadia Agustoni edizioni Le Voci della Luna, 2009, prefazione di Francesco Marotta , è suddiviso (anche se il termine sembra improprio) in tre parti e un’appendice: Fabbrica, Paesaggio lombardo e voci, Frammenti; quest’ultima sezione è preceduta da: Appendice, costituita da una sola poesia. La tripartizione del Taccuino potrebbe in apparenza ingannare, anche se ha una precisa logica nell’economia del contesto. Il solido legame che si instaura tra la fabbrica e il paesaggio e le sue voci, nel panorama sia fisico come antropico suggerisce, innegabilmente, continuità nei rapporti tra il territorio e chi lo abita e lo scambio di valori e ricchezze. Ricchezze o anche miserie sia materiali, sia di relazioni e dinamiche umane. Vi è però giustamente l’esigenza, nell’autrice, di rendere visibile questo amalgama, separandone i componenti. L’ultima parte del libro, Frammenti, è in prosa; e viene proposta “con una certa difficoltà”, si legge nelle note. La prosa del Taccuino, invece, sembra come il chiarimento ultimo e complementare, che non lascia scampo interpretativo ad un insieme né cosmico, né atomizzato; piuttosto riaffermato da uno stile pulito e alto, preciso e toccante ancorché depurato da nostalgie o rimpianti. Il tutto espresso da una lingua originaria, come si legge nella bella prefazione di Francesco Marotta. Fabbrica, ci avvisa nelle note Nadia Agustoni: “racconta la realtà del lavoro sul piano esteriore ed interiore.” Volendo potremmo cercare un’analogia con l’ en plein air impressionista, dove il tocco evocativo del colore lascia il posto al linguaggio altrettanto evocativo. Sia il titolo della prima sezione, (Fabbrica) sia il senso reso dalle poesie che la compongono, sembra custodito nel titolo della poesia a pag. 33: “i fatti spogli”. Non è la fabbrica della classe operaia, quindi. La classe operaia, infatti, “… non va più in paradiso”, si legge a pag. 36. La fabbrica è quella dei fatti spogli, appunto. Il finale della poesia di pag. 33 chiarisce bene le intenzioni di Nadia Agustoni espresse nelle note, e sigilla in maniera emblematica il significato che ovunque nella prima sezione del Taccuino è presente: “L’archeologia industriale ricostruirà/ il gesto intero della vita,/ ma non la brama del gesto,/ non il morso della carne, il contemplare/ lo spazio.” Nell’”archeologia industriale” dell’autrice c’è la “ferraglia” pag.19, una “danza meccanica” pag.22, “l’usura” pag.23, “chili di ferro” pag.34, “ruggine” pag. 40. Il richiamo è forte, elegante e asciutto. Un en plein air traslato dalla tela alla pagina, dove l’apparente distacco è un vissuto intellettuale (interno nelle intenzioni di Agustoni) e materiale (esterno sempre per l’autrice). Anche nella parte centrale (Paesaggio lombardo e voci) si potrebbe ugualmente tornare con la mente a certe rappresentazioni impressionistiche, ma forse una più vasta visione d’insieme ci tradirebbe: qui è il paesaggio lombardo con tutta la sua ampiezza a caratterizzare un’immagine molto netta, nitida. Non solo nella sempre scabra e accurata poetica di Nadia Agustoni, ma anche nei flashback che spesso s’incuneano tra verso e verso, richiamando semmai proprio quella archeologia che, prima industriale, qui si fa rurale, del paesaggio, del ricordo di esso, o delle voci che ancora restano. Vi è infatti, a questo punto del Taccuino, una più viva attenzione, forse, a quelle “voci” che si odono nel paesaggio e che sono intime, interiori, che sono, come si legge a pag. 68 “… una feritoia con vista sul tempo”. Lo stesso stile privo di enfasi, restituito alla sua essenzialità emerge, forse in modo evidente, nella prosa della terza sezione (Frammenti). È così sobrio ciò che Agustoni riesce a dire nelle ultime pagine del libro, che sembra se ne voglia deresponsabilizzare, lasciando al fatto, al significato, tutto il palcoscenico disponibile. Questo, tuttavia, s’intuisce è il frutto maturo di un atto letterario di raro valore. Anche quando la memoria estrae dal tempo i “giornalini” i “mestieri” (quelli che non ci sono più) le “figurine” siamo noi lettori che prendiamo contatto con le cose, come ci accorgessimo un istante dopo che ciò è stato possibile solo tramite il testo. L’autrice scompare e riappare in quella “nebbia” di pag. 109. Per certi aspetti legati allo stile, possono venire in mente i “sillabari” di Parise, ma l’apparente marginalità dei temi e il modo in cui sono trattati, rammentano “La vita materiale” della Duras. Questi accostamenti però non devono fuorviare il lettore sulla schiettezza di uno stile autonomo e sicuro nelle intenzioni descrittive come in quelle meramente letterarie.
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