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Maschere Rituali / 2

Argomento: Antropologia

Saggio di Giorgio Mancinelli (Biografia)

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Pubblicato il 22/03/2017 18:14:29

MASCHERE RITUALI / 2

Folkoncerto: Maschere Rituali.
(Ricerca filologica e musicale di Giorgio Mancinelli dal programma radiofonico RAI Radio3 del 1984).

“Africa! Africa!”

«Datemi delle anime nere
che siano nere o cioccolata bruna.
Datemi dei tamburi
diciamo tre o anche quattro e che siano neri.
Sudici e neri: di legno e pelle secca di pecora
e poi facciamoli rullare, rullare forte.
Brontolare per tutta la notte e il giorno, poi smorzati
e che vengano introdotte le ‘maschere rituali’.
Rullino i tamburi
e che risuonino sfrenatamente.
Aggiungete voci di donne e quelle basse
degli uomini e grida di bimbi.
Che vengano i danzatori neri dalle spalle ampie
che pestano il suolo coi piedi nudi, a ritmo.
E quando in cielo il sole è al tramonto
siano ammessi gli spettatori.
Possono essere bianchi e neri
che possano udire i nostri canti nativi.
E il rullo dei tamburi, e possano godere
Del nostro Paradiso africano.» (F. E. Kobina Parkers – Ghana)

Questo ‘canto’ raccolto in Ghana serve qui da introduzione alla tematica che qui si vuole approntare sulla scia della ‘magia’ e il ‘simbolismo’ delle ‘maschere rituali’ nell’Africa nera, qui ripresa ‘nella sua accezione di ciò che si rivela’ alla nostra coscienza razionale, per meglio comprendere la costante assimilazione delle ‘culture tradizionali’ che non è possibile apprendere se non vivendo in quella realtà, e che sempre di più sfugge alla concezione di noi moderni, in quanto la ‘vediamo’ non senza limitarne l’essenza, come “manifestazione della conoscenza dell’uomo attraverso l’uomo stesso.
In quanto unità di sviluppo e vibrazione, dissoluzione e recupero di una unità energetica che si rafforza costantemente sul suolo africano all’interno delle pur diverse culture esistenti sul territorio. Va qui ricordato che l’Africa è un continente immenso, potremmo dirlo sterminato dalla cui frattura geofisica e scomposizione in stati sono germinate tutte le coscienze e le conoscenze scientifiche, tutte le possibili culture e civiltà conosciute del Mediterraneo e non solo. Questa esperienza di trans-ferimento è stata possibile solo con la radicale mutazione dello strumento conoscitivo delle moderne scienze applicate come appare dalla nostra esperienza coscienziale storicamente riconosciuta, nel processo squisitamente educativo di rimozione delle false identità presenti (importate e divulgate) sul territorio.

Per comprendere appieno questa ‘esperienza conoscitiva’ va fatto riferimento a un concetto determinante legato alla società presa in considerazione, e che pone all’origine di tutto in primis i ‘riti di passaggio’ e la ‘marginalità’ dei generi di sussistenza, necessari alla sopravvivenza del gruppo etnico preso in considerazione.

«Io sono colui che conosce, conosce,
che il vento soffia, soffia,
che l’acqua scorre, scorre.
Qui l’albero dei capelli cresce, cresce,
Io sono colui che conosce, conosce.
Solo chi conosce le ‘maschere’ può entrare,
salvo chi non ha paura.»

(Leggenda raccolta fra gli Akamba, un gruppo etno-linguistico di ceppo bantu dell'Africa orientale, diffuso prevalentemente nelle regioni semi-aride della Provincia Orientale del Kenya e in parte in Tanzania.)

Acciò è necessario riflettere sull’idea stessa di ‘performance’ come pratica potenziale e fortemente critica del ‘reale’ e potenziale ‘non-luogo’ di margine e di passaggio da situazioni sociali e culturali definite. La riflessione di Victor Turner, considerato il perno della teorizzazione antropologica sociale, che ha dato una svolta rilevante rispetto alla metodologia strutturale-funzionalista esistente, sta nell’aver privilegiato la componente trasformativa a conflittuale dei processi sociali all’interno delle culture autoctone. Un concetto metodologico che ha come punto di partenza l’analisi teorica del social-drama:

«Infatti il ‘dramma sociale’ ha luogo quando nell’ambito del quotidiano di un gruppo etnico si crea una frattura nelle tradizionali norme del vivere, oppure quando in una società complessa (come appunto è quella africana in ogni suo aspetto geografico), si genera un punto di svolta rispetto alla consolidata struttura socioculturale pre-esistente e spesso consolidata da secoli di isolamento.questa riflessione critica avviene solitamente nell’ambito di ‘fasi di passaggio’ da una situazione culturale istituzionalizzata a nuove aggregazioni spontanee che possono originarsi nell’atto di tracciare i solchi del nuovo e del non familiare (tradizionalmente parlando) , all’interno del territorio della ‘liminalità socioculturale’.»

Il concetto di ‘limen’ (che significa ‘soglia’ o ‘margine’ ) venne traslato da V. Turner dal lavoro di Arnold Van Gennep che nel 1909 pubblicò il libro “I riti di passaggio”, quei riti che accompagnavano (e in certi casi accompagnano ancora oggi sebbene rivisitati) il mutamento dello status sociale di un individuo o di un gruppo di individui e rigardano le ‘fasi critiche’ della vita umana (come nel caso dell’entrata nella vita adulta da parte di un giovane di un clan) e che di solito comportano lunghi periodi di isolamento e di allontanamento dell’iniziando dalla vita comunitaria, confinandolo in una ‘zona liminare’. Per esempio in alcune tribù africane (ma anche australiane, e melanesiane) un ragazzo sottoposto all’iniziazione è costretto a vivere per un tempo limitato lontano dalle normali interazioni socio-tribali.

«Prendimi con garbo, con garbo!
Il prossimo anno
tu menzionerai l’uccello,
figlio della boscaglia!
Uccidimi con garbo, con garbo!
Il prossimo anno
tu menzionerai l’uccello,
figlio della boscaglia!
Cuocimi con garbo, con garbo!
Il prossimo anno
tu menzionerai l’uccello,
figlio della boscaglia!
Mangiami con garbo, con garbo!
Il prossimo anno
tu menzionerai l’uccello,
figlio della boscaglia!»

(Canto solitario raccolto fra i Kaguru della Tanzania)

I documenti più antichi lasciati da un umanoide preistorico come, ad esempio, le pitture rupestri, mostrano già scene di cacciatori mascherati con teste di animali; immagini queste che avallano la teoria del ricorrere a rappresentazioni di carattere ‘magico’ come la danza rituale e la maschera come trans-vestimento impiegato per influire sul buon esito di attività di sostentamento come la caccia, indispensabile al sostentamento del gruppo. Non in ultimo la ‘maschera’ era impiegata nell’osservanza di rituali sociali a carattere educativo, nell’igiene corporea, nel placare discordie e presiedere ai giudizi del capo-clan, così come nelle cerimonie religiose dedicate al culto dei morti, nei matrimoni e nei funerali, nelle cerimonie agricole o più semplicemente per mantenere l’ordine durante le feste del villaggio.

Si può ben dire che la molteplicità degli usi è all’origine della grande varietà di maschere che s’incontrano nei rituali africani e crea una certa progressione di valori e una scala d’importanza sostanziale diversa da popolo a popolo ma anche da tribù a tribù presenti in una specifica regione. È così che le cerimonie del Centrafrica ad esempio, presentano almeno due prerogative comuni: hanno tutte inizio con danze dal carattere magico-propiziatorio, per lo più scandite dal ritmo preponderante dei tamburi e delle percussioni in genere; e quella di vestire o portare in processione le maschere rituali.

Fra i Pigmei del Gabon, ad esempio, la cerimonia del culto Mbiri sta a significare la riesumazione della primaria ‘religione del mondo’; mentre quella Bwiti il passaggio riruale ‘nell’aldilà’, quale rappresentazione degli aspetti fondamentali della creazione e dell’annientamento, della nascita-mistica e della morte-mistica. sebbene entrambe si svolgano attorno a uno stesso albero ‘totem’ denominato Adzap, che funge da pilastro centrale della capanna tribale appositamente eretta per queso tipo di celebrazioni, e sul quale sono riportate incisioni zoomorfe e maschere stilizzate rappresentative di un simbolismo (sincretismo) che si rinnova in ogni occasione cerimoniale.

In alcuni casi specifici si fa ricorso all’uso dell’eboga, un’erba che conduce i neofiti all’eccitazione totemica, necessaria per esprimere in pieno la profonda riuscita del rito. L’eboga è una pianta allucinogena dalle spiccate qualità psicotrope che cresce nella foresta equatoriale, della quale i Pigmei fanno ampio uso e che ha il potere di accrescere la resistenza fisica, e che presa in dosi massiccie provoca frequenti visioni ed esternazioni muscolari, permettendo così agli iniziati di ‘viaggiare’ nella terra dei morti, per poi tornare fortificati e liberati dalle puare ancestrali e poter affrontare i lunghi periodi di lontananza e solitudine che li aspetta durante i periodi di caccia sugli altipiani della savana.

Ciò che avviene nella psiche del singolo individuo sottoposto a simili rituali ottiene lo stesso effetto precedentemente ottenuto dagli altri componenti la comunità tribale, e per questo il neofito è ritenuto idoneo a entrare a farne parte. Ecco che al dunque la ‘metamorfosi’ per l’effetto della droga è da questi sollecitata e avvalorata come una sorta di ipnosi collettiva alla presenza delle ‘maschere rituali’ che vengono esposte al riconoscimento e all’ubbidienza. Ma cosa s’intende per ‘maschera’ o ‘mascheramento’ all’interno dei riti africani è altra cosa che una semplicistica affermazione d’intenti conoscitivi. Solitamente quando si parla di ‘maschera’ s’intende un oggetto scolpito o modellato o intrecciato, a seconda del materiale di cui è costituito, e che viene portato sul volto o sul capo. In realtà in Africa è considerata ‘maschera’ l’insieme del travestimento di fibre vegetali o di stoffa che ricopre l’intero corpo e, persino gli accessori che il mascherato tiene nelle mani o con i quali adorna le proprie membra.

«O acqua, vieni orsù vieni orsù,
e fa’ cadere la pioggia, e fa’ cadere la pioggia.
Orsù, vieni pioggia a irrigare i semi.
Così cantò con gran gioia di Kweku Tsin
e subito cominciò a piovere e continuò finché
il terreno fu ben irrigato.
Allora i semi germogliarono
e le messi
cominciarono ad apparire.
Anansi ben presto venne a sapere
come crescevano bene
le messi di Tsin.

E subito pensò a quando
si sarebbe adornata
degli steli intrecciti delle messi dorate.
Orsù acqua, vieni e fa’ cadere la pioggia,
e fa’ cadere la pioggia
orsù, vieni pioggia a irrigare i semi di Tsin.»

(Da una leggenda raccolta fra gli Hausa, gruppo etnico di stirpe sudanese e di religione islamica sunnita stanziata in massima parte in Niger, ma presente anche nella Nigeria settentrionale e negli Stati limitrofi.)

Va qui precisato che non sempre la ‘maschera’ così detta è indossata, alcune volte è semplicemente mostrata agli iniziandi in occasione di riti; altre volte portata come pendente pettorale, oppure ridotta a piccole dimensioni, tenuta tra le vesti e conservata gelosamente tra i beni personali, in special modo quando prende la forma divinatoria ed è trasformata in amuleto, o rappresentativa di società segrete. Fra i Toma della Guinea, ad esempio, la creazione di una maschera ha raggiunnto nel tempo una sintesi altamente artistica che supera di gran lunga l’iconografia conosciuta dell’arte africana. È il caso della maschera detta Angbai, così detta ‘senza tempo’, alla quale si attribuisce la capacità di rievocare gli spiriti ancestrali della foresta.

Un’altra cerimonia singolare si teneva un tempo presso i Bàule della Repubblica Centrafricana in onore della maschera Glau personificazione del genio protettivo della ‘virilità’ degli uomini della tribù, composta da una grande testa per metà toro e metà fagocero (cinghiale africano), sormontata da un uccello e da una pantera. Glau, magnificamente vestito di fibre vegetali colorate, porta campanacci legati ai fianchi che fa risuonare ad ogni passo. Glau fa la sua apparizione durante la notte accompagnato da due servitori, uno dei quali suona una campana come accompagnamento alla danza sfrenata che dopo un inizio cadenzato e bruschi arresti, riprende ogni volta più freneticamente, stravolgendo la sua voce con urla disumane e terrificanti; mentre l’altro soffia in un corno detto ‘soro’, uno strumento tenuto nascosto dalla vista delle donne, il cui suono prevede l’uso di formule segrete, lodi in elogio della sua venuta, aforismi ermetici e allusioni alla sua virilità.

Molte, come si è detto, sono le maschere rintracciabili sul continente africano, probabilmente per il grado di primitività mantenuto dalle popolazioni tribali sul territorio nel corso dei millenni. Ciò è individuabile soprattutto in quelle aree geografiche dove l’arte manufatturiera (l’Arte tout-court) ha conosciuto una vera e propria evoluzione, e che si estendono dal Senegal al Malì, dall’Angola ad Oriente dei Grandi Laghi, limitata a Nord del Sahara e a Sud dal deserto del Kalahari. Altresì le rimanenti regioni, pur essendo abitate da gruppi etnici analoghi, non hanno sviluppato una produzione di maschere elevata al di sopra di una produzione artigiana:

“Un’arte questa – scrive ancora Mauro Monti – che prende avvio dall’interno ‘intimistico’ dell’individuo che la plasma, che risponde quindi a un’autentica ‘creazione’ artistica, non imitazione servile della natura che lo circonda. Un’arte che si esprime sì a credenze e cerimonie magico-religiose, ma altresì che fa uso della magia nel suo significato più alto, non venendo meno alla sua funzione di mediatrice tra le due componenti della creatività, cioè: la natura primigenia e il soprannaturale che la governa.”

«Madre, apri la porta-o,
io non sono come lo sciacallo-o,
che ha ucciso sua madre-o,
lui dalla lunga coda-o!»

(Canto raccolto fra la tribù dei Fipa – Pigmei un gruppo etnico diffuso in gran parte dell'Africa equatoriale.)

Quelle stesse maschere che legate a riti evocativi e di incantesimo o, al contrario in culti apotropaici o di esorcismo e scongiuro, sono strettamente legate ad alcune ‘danze’ dedicate a idoli ancestrali che spesso rappresentano figure antropomorfe o teste e volti di specifici animali come felini, elefanti, scimmie, uccelli relativi quasi esclusivamente ad animali che vivono nella foresta e nelle aree limitrofe a fiumi e laghi. Danze che vedono nella musica, o meglio nel ritmo d’accompagnamento, un elemento fondamentale capace di condurre il fluido nascosto che scorre nella natura in tutti gli esseri viventi che sono nel mondo, facendoli partecipi del costante atto creativo della germinazione insito nella natura.

«Maenga Nyambi batti l’acqua con la faraona,.
I dieci buoi sono tuoi.
Vi prego elefanti, tiratemi giù i calzoni dall’albero.
Io voglio provare il mio carico prima di trasportarlo.
Tu hai portato via mia figlia.
Io ti seguirò.
Io spegnerò questo fuoco e arriverò da te.
Io (adesso) sto tagliando l’albero.
Io sto lottando con le locuste.
Io sto lottando con il leone.
Sto zufolando con la tibia della vecchia Kakurukathi.
. . .
Allora Dikithi chiamò a raccolta tutti gli uomini
E disse loro che sì, potevano vivere insieme
Nel suo villaggio.»

(Canto per la danza in onore del grande Dikithi, raccolta fra i Bantu (o Bantù), di riferimento a un vasto gruppo etno-linguistico che comprende oltre 400 etnie dell'Africa subsahariana e distribuite dal Camerun all'Africa.)

La ‘danza rituale’ quindi come elemento ‘mobile’ indispensabile che regola e rende comprensibili i fatti ineluttabili della vita, sia individuale e sia all’interno del gruppo di appartenenza. Fatto questo che fa sembrare le maschere africane create per essere in continuo movimento, in quanto complemento necessario per la completa comprensione estetica delle maschere. Ne è un esempio la danza legata al culto di ‘Aura Pocu’ tipica dei Bàule della Costa d’Avorio benché presenti anche in Ghana, i quali conservano un’antica leggenda che viene regolarmente tramandata nella sua forma orale originale:

«Per una questione di successione i Bàule si scissero dagli Akan (oggi presenti solo in Ghana) e si spinsero verso la Costa d’Avorio, ma quando furono pressoché arrivati vennero fermati dallo spirito del fiume Comoé, il quale intimò loro di sacrificare un giovane della tribù. Fu così che la regina Aura Pocu decise di sacrificare suo figlio in nome del popolo che ella stessa guidava e lo spirito del fiume permise loro il passaggio e la loro salvezza. È così che la regina Aura Pocu assume presso il popolo dei Bàule una posizione predominante nella vita sociale e politica sviluppatasi attorno alla figura della donna/regina Aura Pocu che ha dato luogo al matriarcato che tutt’oggi distingue questa tribù. La cerimonia che l’accompagna inizia con una lunghissima processione all’aperto e si spinge attraverso le capanne del villaggio fino a raggiungere il tempio dedicato al culto. L’intero vestiario, dai colori delicati, usato per questo cerimoniale è parte integrante della ‘maschera’ indossata dalla regina Aura Pocu e dalle altre ‘regine’ che a lei sono succedute. L’utilizzo di ‘maschere facciali’ riproducenti visi femminili ovali e ben levigati, dipinte con cosmetici blu-azzurrini e rossi, sono piuttosto uniche per la loro bellezza decorativa. È questo un tipico esempio di come la ‘danza rituale’ sia strettamente legata al culto, che altro non è che la ripetizione e la trasposizione figurata della leggenda che verosimilmente ne conserva il mito. I festeggiamenti sontuosi si tengono ogni anno nel villaggio di Sakasso in Costa d’Avorio con grande partecipazione di danzatrici Bàule in costume e di turisti che giungono da ogni parte del paese per assistere alla ‘Danza delle maschere delle Regine’ di gran lunga piena di colori e musica.

Appartengono sempre alla Costa d’Avorio, il paese forse più ricco di maschere dall’aspetto demoniaco, le più originali e indubbiamente le più complesse da interpretare, appartenenti ad alcune ‘società segrete’ presenti in gran numero in questa parte dell’Africa. In particolare presso i Senufo, un gruppo etnico rilevante nella regione di Korhogo, troviamo una maschera zoomorfa denominata ‘sputafuoco’ costruita con parti in legno naturale (un tempo sicuramente colorata), che riunisce in modo assai fantastico l’elemento umano con elementi diversi presenti in natura e presi da animali diversi. Questa porta sulla fronte una piccola scultura, più spesso si tratta di un camaleonte grottesco, dal preciso significato simbolico, lì posta nell’intento di dare un’immagine mostruosa o, appunto demoniaca, da cui prende il nome il rito iniziatico. Ancora ai Senufo appartiene la maschera ‘Lò’ presente nelle riunioni della società tribale che raggruppa solo individui di sesso maschile ed èrappresentativa di due aspetti diversi di uno stesso volto umano, uno sovrastante l’altro, e che termina con due grandi corna. Il suo significato è racchiuso nel presentare l’antenato regale all’origine del tempo al quale il suddito iniziato è soggetto nel presente:

«Quando gli uomini comparvero per la prima volta sulla terra, il re Dada Segbo trasse fuori una conchiglia cauri, poiché era questa che usavano in quei giorni come moneta, e la diede al giovane Yo affinché trovasse una moglie per lui. Fu così che Yo si fermò presso il fiume a pescare e raccolse un certo numero di pesce. Quindi si rimise in cammino col suo fardello di pesce e si fermò a guardare alcuni pescatori che avevano con sé un piatto di fagioli e farina di cassava, chiamata ‘abla’. Yo si fermò e raccolse tutto quel cibo e ripartì. Quelli gli corsero dietro grindando: Yo, Yo, perché ti porti via la nostra morta?

Le cavallette venivano dalla paglia,
la cauri per la paglia veniva da Dada Segbo.
I fagioli venivano dalla vecchia,
la vecchia si prese le mie cavallette.
Il pesce veniva dai pescatori,
i pescatori presero i miei fagioli;
i fagioli venivano dalla vecchia,
la vecchia si prese le mie cavallette
le cavallette venivano dalla paglia,
la paglia veniva dalla cauri che mi diede Dada Segbo.
Le zappe e i falcetti venivano dai fabbri,
i fabbri presero il mio pesce;
il pesce veniva dal fiume,
i pescatori presero i miei fagioli;
i fagioli venivano dalla vecchia,
la vecchia prese le mie cavallette;
le cavallette venivano dalla apglia,
la paglia prese la mia cauri;
la cauri veniva da Dada Segbo.

Alla domanda Yo rispose: Come, non lo sapete?

L’abla veniva dai contadini,
i contadini presero le mie zappe;
le zappe venivano dai fabbri,
i fabbri mangiarono il mio pesce;
il pesce veniva dal fiume,
i pescatori presero i miei fagioli,
i fagioli venivano dalla vecchia,
la vecchia prese le mie cavallette;
le cavallette venivano dalla paglia,
la paglia veniva da una sola cauri;
e la cauri veniva da Dada Segbo.

Così egli se ne andò con la fanciulla morta. Quel giorno camminò dall’alba fino a notte. Si fermò dal re del paese lamentando che qualcuno aveva ucciso colei che era la moglie di Dada Segbo, e chiese al re di scambiare il corpo morto con una fanciulla bella comìera quella che si portava dietro. Così gli diedero un’altra fanciulla ed egli riprese il suo cammino in sua compagnia. Durante la traversata la fanciulla cominciò a cantare:

La fame vien da lontano,
la fame ha seguito la strada fin qui;
gli intestini vengono da lontano,
gli intestini hanno seguito la strada fin qui.
La fame vien da lontano,
la fame ha seguito la strada fin qui;
gli intestini vengono da lontano,
gli intestini hanno seguito la strada fin qui.

Ora, Dada Segbo mandò molti uomini incontro a Yo. Fece anche cuocere molti piatti di cibo, che i suoi uomini portarono con sé. La fanciulla e Yo ebbero molto da mangiare. Ma, quando arrivò il cibo, la fanciulla disse: ‘Inghiottiti in fretta.’ E, appena ebbe detto questo, il cibo sparì e Yo restò stupefatto. La cosa si ripetè più volte fin quando la fanciulla, dopo aver fatto sparire il cibo, cominciò a mangiare gli uomini. Appena vedeva avvicinarsi un uomo, gridava: ‘Inghiottiti in fretta’ e quello non si vedeva più. Allora portarono la fanciulla al cospetto del re Dada Segbo e tutta la gente del paese si riunì per vederla, e questa ripetè l’incantesimo e venne uccisa. Al che il re sentenziò che il povero Yo non essendo sposato non avrebbe mai potuto trovare una moglie per lui e lo perdonò. Morale della favola che per sposarsi occorre molto denaro per sfamare le ‘voglie’ di una moglie, mentre con una sola cauri (conchiglia), un uomo poteva sperare di procurarsi solo una strega.»

Proveniente invece dal Dahomei è la descrizione della cerimonia dell’offerta ai re Tossou ritenuti i capi spirituali e reincarnazione dei defunti re col rispettivo seguito di principi e dignitari di una etnia africana del Corno d'Africa . La cerimonia prettamente religiosa si ripete in tutti i venti templi dedicati a questo culto accompagnata da una formazione strumentale di tre tamburi orizzontali interamente ricavati nel legno battuti con una bacchetta da un lato e con la mano dall’altro. Seguono le donne agghindate che danzano al clangore metallico di sonagli di latta cui fa seguito una schiera di bambini che percuotono piccole campanelle. La cerimonia ha inizio con una lunghissima processione all’aperto che attraversa le stade del villaggio. Le ragazze prescelte per incarnare le defunte ‘principesse’ indossano altrettanti abiti multicolori e numerosi gioielli di fine fattura ricche di madreperle e conchiglie colorate che, al comando del ‘cerimoniere’ riparato dal sole sotto un tipico ombrello da processione suona una speciale campanella dal suono vivace che serve da richiamo per tutti i giovani della tribù. Interessante sono i cori femminili che si alternano alla voce intercalante del cerimoniere nel modo ‘a responsorio’. E mentre tutti si uniscono nel canto s’invoca la divinità del ‘vento’ portatore degli spiriti ancestrali impersonificati da uno sciamano che danza davanti alla processione fino a raggiungere l’albero sacro (generalmente un baobab). È in questo momento cruciale in cui vengono mostrate le maschere rituali che raffigurano i re Tohossou del passato, davanti ai/alle quali, si svolge il sacrificio di un toro che servirà al banchetto conclusivo.

Come detto in precedenza, tutte queste maschere, essendo costruite con materiali presi dalla natura, prendono la loro forza dalla natura stessa degli elementi, pertanto sono concepite in funzione degli elementi e ad essi soggette, come appunto suggerisce la musica d’accompagnamento alla loro esposizione e alla danza che ne permette la ‘vivacità’ di movimenti, il ritmo costante della natura che si rigenera, dali tronchi degli alberi al vento che fa suonare le foglie, all’acqua che scorre come al frantumarsi delle zolle aride della terra, al crepitare delle pietre ecc.. Si tratta soprattutto della ripetizione di ‘vibrazioni ritmiche’ su cui si basa tutta, o quasi, la musica africana propriamente detta.

Musica che trova qui la sua pratica essenziale nell’uso delle percussioni, di gran lunga ritenute sacre poiché degne del culto cui sono di riferimento. Un ruolo piuttosto sclusivo è detenuto ad esempio dal ‘tam-tam’ il grosso tamburo ricavato dal tronco di un albero che cresce nella Savana, solitamente scolpito in forma di ‘maschera’ e corpo di animale artisticamente dipinto e ornato a sembianza della ‘divinità’ che in esso è raffigurata. La cui ‘voce’ nascosta che risuona a volte cupa nella notte ‘come un richiamo’ sprigiona una tale forza evocativa che ha del misterioso, in quanto in esso si vuole risieda la forma tangibile della divinità. Tant’è che in passato governatori e missionari arrivarono a proibirne l’uso perché tale era la sua potenza emozionale che si riteneva accrescesse la forza fisica e lo scaturire di passioni anche violente, al pari di una potente dose di droga. In passato si ritieneva che il ‘tam-tam’ avesse la prerogativa della parola nascosta nella cadenza e nella maniera della percussione, che solo l’iniziato a una determinata società segreta riusciva a interpretare il ‘messaggio’ occulto che si voleva trasmettere ad altre realtà tribali molto spesso lontanissime tra loro.

* nota: i virgolettati sono tratti da “Leggende della Madre Africa” a cura di Roger D. Abrahams – Arcana Editore 1987; tranne la canzone iniziale di F. E. Kobina Parkers – Ghana è tratta dal disco di Ekambi Brillant “Africa, Africa” – per l’etichetta Fiesta.


(continua)



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