La partita era tirata e equilibratissima.
Achille però non se ne rendeva conto, non ne aveva il tempo.
Per fortuna, fin da quando aveva cominciato la sua carriera, le emozioni lo avvincevano con una forza inaudita che produceva una sensazione fisica di languido stordimento, solo poco prima del fischio iniziale dell’arbitro e poco dopo il suo fischio finale.
Durante il tempo della gara, invece, non c’era mai spazio per altro che non fossero decisioni immediate e impulsi quasi animaleschi, a cui il fisco reagiva con la massima prontezza possibile.
Lui si limitava a giocare, e non aveva mai analizzato i processi fisici e mentali che lo portavano spesso a essere il più svelto ad attaccare e il più difficile da superare sul sentiero stretto che portava al boato della folla.
Ci fu un capovolgimento di fronte, nel suo sport si chiamava controfuga.
Berto aveva appena parato un tiro potente, dalla media distanza e Carlo si era allargato sulla destra, secondo uno schema collaudato, mentre i suoi compagni lasciavano scie come quelle di quattro siluri sulla superficie dell’acqua.
L’ambiente della piscina rimbombava di urla e incitazioni che lui udiva con l’intermittenza provocata dalla sua nuotata veloce, una testa davanti al diretto avversario.
Achille era partito quando il pallone scagliato era ancora in volo verso la sua porta, precedendo il russo che lo marcava, di un attimo; aveva visto che il suo portiere era piazzato e sapeva che c’erano ragionevoli possibilità che il tiro venisse neutralizzato.
A quel punto, un’eventuale respinta sarebbe stata compito dei difensori, ma se la palla fosse rimasta in loro possesso, era tutta un’altra storia.
Era andata come sperava.
Achille si trascinò il colosso sulle spalle per una quindicina di metri, nuotando verso il bordo laterale del campo, tenendolo a distanza con i gomiti ben alti. Del resto, neanche Popov faceva complimenti: a ogni bracciata gli pesava sulla schiena e sulle gambe.
Quando fu a sei metri dalla porta, Achille, all’improvviso, deviò verso il centro, aumentando la velocità delle braccia, dimenticando gli urti del cuore che sembrava scoppiargli in petto.
Raggiunse la linea immaginaria delimitata dal segnale verde posto sul bordo, a quattro metri dalla porta.
Il pallone gli piovve davanti al naso proprio in quel momento, e Popov gli salì sulle spalle, nel tentativo di impedirgli di raggiungerlo.
L’arbitro interruppe l’azione e, in osservanza al nuovo regolamento, espulse il suo avversario per un minuto, un attimo prima che Achille entrasse nell’area di rigore.
Lui rifiatò e buttò un’occhiata al tabellone: sette a cinque a metà del terzo tempo. I russi stavano rispettando il pronostico; del resto, un anno prima, nel sessantotto, si erano piazzati secondi alle olimpiadi di Città Del Messico, dove loro erano arrivati quarti per un soffio, dietro ai maestri ungheresi.
Questa era la finale della prima edizione dei mondiali di pallanuoto, una specie di rivincita; Popov e soci non volevano lasciarsi scappare l’occasione di tornare in patria carichi d’onore, per campare un po’ meglio fino alla prossima competizione.
E il suo amico Boris Lebedev aveva ragioni ancora migliori per vincere.
Gli avversari si disposero a semicerchio, mentre Popov usciva dal campo.
Achille batté il fallo, Boris cominciò a spostarsi lungo la linea di porta, esercitando pressione con le braccia e le gambe, la schiena inarcata e completamente fuori dall’acqua, seguendo l’andirivieni della palla che passava veloce di mano in mano.
Avrebbero aspettato che cedesse per tirare, magari alla fine del minuto di penalizzazione; oppure avrebbero tentato di inchiodarlo al primo ritardo di piazzamento rispetto a un passaggio.
Ma lui non avrebbe ceduto, e loro potevano anche sbagliare.
Boris non se li aspettava così tosti, quegli italiani.
Erano sempre stati svelti e pieni di inventiva, ma meno disciplinati di loro, e meno potenti.
I sistemi di preparazione italici erano evidentemente viziati da un’approssimazione latina, e questo si rifletteva spesso nelle prestazioni degli azzurri.
Ma in quella competizione tutto era andato per il verso giusto, all’Italia; non c’erano stati cali di concentrazione, né di forma. E la fantasia aveva fatto la differenza, fino a quella sera.
Certo, la Russia stava vincendo, ma due goal di scarto al terzo tempo non erano un margine sicuro.
Il tiro partì, secco e improvviso, alla fine della parabola che il pallone aveva compiuto da un estremo all’altro dello schieramento avversario. De Giorgi era uscito dall’acqua fino alla cintola, schiacciando la sfera con tutta la rispettabile forza di cui era capace, dalla linea dei due metri.
Ma Lebedev, con uno scatto incredibile, aveva sollevato il suo corpo possente, per farlo crollare rapidamente verso destra, con ambedue le braccia distese e le grandi mani aperte e irrigidite a formare una barriera invalicabile.
Il proiettile era stato fermato, ricadendo nell’acqua biancheggiante dei sussulti di attaccanti e difensori.
Boris se ne era subito impossessato, con un'altra sforbiciata delle lunghe gambe muscolose.
La tonnara si era immediatamente allontanata verso l’altra metà del campo.
Un portiere ha meno risorse per tenere lontani i propri pensieri che, a volte, possono assalirlo nel corso delle pause in cui non è chiamato all’estrema difesa.
Gli venne in mente l’accordo, e il sogno che poteva svanire proprio ora che era a portata di mano.
Boris non poteva permettersi di perdere quella partita, c’era in ballo molto di più della gloria sportiva e delle briciole di privilegi che essa avrebbe potuto fruttargli.
C’era in ballo la libertà.
Achille ripartì, per l’ennesima volta, verso la propria porta, cercando di ostacolare il suo avversario in maniera non troppo appariscente e, prima di superare la metà campo vide, con la coda dell’occhio, che un russo aveva compiuto un disastro balistico; un immeritato colpo di fortuna aveva fatto tornare la palla in loro possesso.
Si spinse sul corpo del diretto avversario, così da ottenere un aiuto al cambiamento di direzione; quest’ultimo capì subito che qualcosa non andava, quando sentì che il peso di Achille svaniva all’improvviso, e si gettò all’inseguimento, ma ormai era troppo tardi; l’italiano arrivò nella posizione giusta un secondo prima del pallone, caricò il braccio, fece due finte e insaccò sotto il braccio destro di Boris, il cui busto teso nello sforzo sembrò quello di un cristo in croce scolpito da Michelangelo.
Sette a sei.
Fosse uscito basso, avesse tardato una frazione di secondo ad alzare le braccia, l’avrebbe presa.
Boris rifletté su quel che poteva essere e non era stato.
Poi scacciò il rimpianto. Achille non era uno sprovveduto. Aveva fatto il suo, e il suo prevedeva che, da quella posizione, segnasse.
A centrocampo, Andrey passò la palla indietro e l’arbitro fischiò la fine del tempo. Tutti i giocatori, nelle rispettive metà campo, si diressero al bordo ad ascoltare le direttive dei loro tecnici.
Boris voleva disperatamente partecipare e concentrarsi sulle parole del suo allenatore, ma l’ansia lo distraeva, riproponendogli continuamente lo stesso frammento di ricordo, nitido come un film.
L’anno precedente, il giorno dopo la fine del torneo olimpico..
Achille stava seduto ad ascoltarlo, al tavolo della mensa per gli atleti, nella cittadella. Avevano scelto quel posto e quel momento per essere sicuri di passare inosservati, ma anche così lui aveva corso i suoi rischi.
Alla fine, l’italiano gli prometteva che sì, l’avrebbe fatto; poteva contare su di lui.
Achille era un grande campione, un grande avversario, e un grande amico.
“Bene così, ragazzi. Adesso dobbiamo tenere duro e non commettere errori. Achille, punta il centro, tutte le volte che puoi, Popov non ce la fa con te.
Stasera possiamo essere campioni del mondo.”
Popov non ce la fa. Lui si domandò se l’allenatore russo stesse dicendo a qualcuno dei suoi la stessa cosa riferita a lui; in ogni caso, prima o poi sarebbe successo.
Achille era all’apice della sua carriera ma, per quello sport, non era più giovanissimo e la piscina, in cambio di una dedizione quasi totale, gli aveva lasciato tra le mani grandi onori e una fama circoscritta al loro ambiente, che non era certo quello professionistico del calcio o del ciclismo.
Tra le sue dita, quindi, scivolata via l’acqua, non sarebbe rimasto altro di solido che non fosse una quantità rispettabile di coppe e medaglie in metallo falsamente nobile.
Lui non era ricco, nemmeno benestante di famiglia; fino a quel momento aveva campato facendo lavori precari e utilizzando i rimborsi spese della società e della federazione, ma se avesse vinto i mondiali, forse avrebbe cambiato la propria vita; avrebbe avuto le credenziali giuste per essere inserito in qualche programma tecnico federale, come allenatore, o come dirigente, e quando il suo fisico non fosse stato più in grado di reagire così bene a quella fatica meravigliosa e massacrante, avrebbe potuto rendersi comunque utile e vivere, senza problemi, del proprio lavoro, come tutti.
Quella partita poteva finalmente regalargli il premio meraviglioso e definitivo di una vita normale.
Il colloquio di un anno prima con il suo amico Boris, gli balzò, repentino, alla mente, e l’italiano ricordò come il russo si guardasse continuamente intorno, con uno sguardo spaventato che pareva quasi buffo in un bestione alto due metri.
Achille e Lebedev si conoscevano da anni, avevano avuto storie sportive parallele, fin dalle selezioni nazionali giovanili. Avevano cominciato quella strana amicizia occasionale grazie ai consueti piccoli traffici che tutti gli atleti praticavano, quasi per gioco: calze di seta per scatolette di caviale, impermeabili di nylon per matrioske, e si erano piaciuti.
Si vedevano a distanza di mesi o di anni, non si scrivevano mai, ma erano sempre lieti dei loro incontri.
Erano avversari leali, e Achille gli aveva promesso che l’avrebbe aiutato.
Il fischietto emise una serie di suoni brevi; l’arbitro li stava richiamando in posizione per il quarto tempo, l’ultimo.
Boris andò a prendere posto nello schieramento, mentre il rubinetto dell’adrenalina fiottava ancora un po’ all’interno del suo corpo.
Tra una decina di minuti, se avesse vinto, avrebbe cominciato a sconfiggere anche la propria ansia.
Si fidava di Achille, ma nessuno di loro due aveva considerato l’ipotesi di trovarsi a quel punto, in quel momento.
Il fischio perentorio del direttore di gara diede inizio all’ultima frazione di gioco.
L’Italia si impossessò del pallone e si dispose all’attacco, Achille cercò il centro come gli aveva chiesto di fare il suo allenatore. Il pallone gli arrivò preciso, davanti alla faccia, mentre lui si trovava girato con le spalle alla porta. Cercò di afferrarlo, ma Popov gli passò un braccio sopra alla spalla, mentre con la mano sinistra gli afferrava, da dietro, il cordino del costume.
Popov era pesante ma, nella fretta di contrastarlo, si era sbilanciato. Achille era forte; lo sostenne con le gambe e approfittò della sua irruenza per spostarlo con il braccio sinistro, che teneva sott’acqua, lungo il fianco dell’avversario. In un baleno si trovò nuovamente a tu per tu con Boris.
Ma l’arbitro decise che la manovra più scorretta l’aveva fatta lui e gli fischiò fallo contro.
Questa volta Popov, meno provato, fu lesto a battere e andare in controfuga.
Achille si gettò all’inseguimento, ma l’azione si sviluppò rapidamente sul capovolgimento di fronte, i russi impartirono una lezione di palleggio, e Berto fu costretto a raccogliere il pallone all’interno della propria rete.
Otto a sei.
Si stava mettendo bene. Adesso bisognava mantenere la calma, magari addormentare un po’ la partita.
I secondi, per Boris, scorrevano troppo piano.
Se avessero vinto… si corresse mentalmente: quando avessero vinto, avrebbero avuto la certezza di partecipare al quadrangolare organizzato in Italia.
Per loro sarebbe stata una specie di vacanza, in quel paese bellissimo e libero.
Gli accordi, in federazione, erano già stati presi da tempo, ma Boris e tutti i suoi compagni sapevano bene che quel viaggio-premio non ci sarebbe stato se loro non avessero appuntato sul petto la medaglia di campioni del mondo. Per i severi custodi dell’orgoglio della Gran Madre Russia, il secondo posto olimpico, anche fuor di metafora, era ormai acqua passata,.
Achille, dopo le Olimpiadi, gli aveva promesso che lo avrebbe nascosto per i pochi giorni necessari a far perdere definitivamente le sue tracce, poi Boris avrebbe chiesto asilo politico e sperava che i suoi meriti sportivi lo avrebbero aiutato a ottenere la collaborazione dei funzionari italiani del comitato olimpico, o di quelli di qualche altro paese europeo.
Con la morte di sua madre, avvenuta due anni prima, si era spezzato anche l’ultimo legame capace di tenerlo avvinto al paese in cui era nato e di cui, viaggiando all’estero, aveva verificato tutte le ingiustizie.
Perfino la ragazza che aveva amato gli era stata sottratta da un funzionario di partito, un uomo meschino e insignificante, corazzato da un potere contro il quale non aveva nemmeno potuto immaginare di combattere.
E se anche avesse potuto, la certezza dell’anima piegata di lei, ne aveva reso inutile la conquista.
L’arbitro fischiò un’altra espulsione contro i russi.
Questa volta il tiro partì quasi subito, di sorpresa. Lui riuscì a toccare il pallone, deviandolo sul lato interno del palo e mandandolo a danzare, per un attimo, sulla linea di porta.
Boris si protese, trattenendo il fiato, e percosse la superficie azzurra dell’acqua, facendola esplodere in gocce iridescenti, quando il boato della gente coprì il fischio, confermandogli che gli italiani avevano segnato.
Metà tempo.
Otto a sette.
Achille si lanciò a intercettare il suo uomo per concedergli meno spazio possibile e stancarlo, rendendogli difficoltoso anche solo il girarsi.
Popov si stava innervosendo, lo capiva dai suoi movimenti secchi e dagli sguardi minacciosi che gli lanciava.
I russi impostarono un’azione d’attacco piuttosto prevedibile, ma Kozlov, il loro centroboa, fece un miracolo e, spalle alla porta, scaraventò una rovesciata all’incrocio dei pali.
Da lì, il prodigio gemello di Berto tolse il pallone, prima che varcasse la linea inappellabile.
E Achille tiranneggiò di nuovo ogni fibra del suo corpo, obbligandolo a ignorare fatica e dolore, e ripartì per un altro viaggio, breve e terribile, oltre se stesso.
Lupo, all’altro lato del campo, partì con lui.
Il pallone, questa volta, arrivò un po’ lungo, tra Achille e il russo di Lupo, più vicino a quest’ultimo, che tentò di appropriarsene. Ma Achille aveva ancora cuore per un guizzo e fece saltare via la sfera, mandandola ad appoggiarsi alla mano del suo compagno di squadra per il tempo necessario a dargli l’opportunità di trafiggere Boris, sopra alla spalla.
Otto a otto.
Stavano avvicinandosi all’ultimo minuto di gioco.
Otto a otto.
Stavano avvicinandosi all’ultimo minuto di gioco.
Poi si sarebbe proseguito con i supplementari.
La folla sugli spalti produceva ormai un boato continuo che riverberava tutt’intorno.
Di solito, negli arbitri scattava una sorta di compensazione inconscia che li spingeva a favorire la squadra che aveva subito l’ultimo goal, specie se questa era stata in vantaggio per la maggior parte della partita.
E così, all’ultimo, poteva arrivare un’espulsione, o un rigore a favore dei russi.
Boris aveva l’esperienza sufficiente e i nervi abbastanza saldi per non considerare ancora infranto il suo sogno.
Achille considerò che potevano farcela, ma temeva che l’arbitro li sfavorisse nel momento decisivo.
La folla, sulle gradinate, sembrava impazzita; sventolavano bandiere, si udivano cori e urla e rumore di tamburi.
Lui cercò di isolarsi da tutto.
I russi attaccarono rabbiosamente, gli italiani sapevano di dover resistere e furono capaci di saggezza; permisero il tiro all’uomo più distante dalla loro porta, contando sulla giornata di grazia del loro estremo difensore.
Non ce ne fu bisogno.
La bordata potente di Golubov fu deviata appena dalla mano protesa di Gigi, che lo marcava, ma tanto bastò perché si schiantasse contro il palo.
Quando Achille tentò di ripartire, Popov gli misurò un calcio che lo colse all’altezza del rene destro, lasciandolo senza fiato.
L’arbitro seguiva l’azione già più avanti, e non se ne avvide.
Achille riuscì a riprendersi, fece un paio di bracciate più lente, poi accelerò, sapendo benissimo che quello era il momento di rischiare, anche la propria incolumità fisica.
Mentre Ciro, con la palla tra le braccia, si allargava verso destra, lui puntò rabbiosamente il centro, ma questa volta, arrivato a cinque metri dalla porta, si arrestò di botto.
Era uno schema che Ciro conosceva bene; gli passò la palla con un attimo di anticipo, in modo che, quando Achille fu pronto al tiro, essa si trovò già adagiata sul palmo della sua mano.
Ma il passaggio non era stato sufficientemente teso, e non bastò a caricargli il braccio della forza necessaria.
Boris se ne avvide subito. Non c’era più molto tempo. Il tiro di Achille sarebbe stato fiacco, o impreciso. Sarebbero andati ai supplementari.
Achille portò ugualmente indietro il destro, ma lo fece a una velocità tale che permise a Popov di avventarsi.
Il colpo del russo sembrò inciampare nel viso dell’avversario, prima di proseguire la sua corsa verso il braccio che reggeva il pallone.
Achille sentì un improvviso indolenzimento all’arcata sopracciliare, e capì che la sua finta era riuscita; buttò la palla in avanti con perfetta scelta di tempo rispetto al balzo del difensore, e lo dribblò.
A Popov non restò altro da fare che affondarlo, ma Achille era già entrato nell’area dei quattro metri.
Mancavano tre secondi alla fine dei tempi regolamentari quando l’arbitro fischiò il rigore.
Achille tirò su la testa e si accorse che l’acqua che gli scorreva sull’occhio destro era rossa.
Dalla panchina lo richiamarono a gran voce; la ferita mostrava le sue labbra rosate dividendogli il sopracciglio. I compagni gli si fecero intorno e lo accompagnarono al bordo.
Lui sentiva il sangue pulsare e la carne gonfiarsi. Chiese un cerotto.
Il medico avrebbe voluto farlo uscire, ma lui rimase in acqua. Tre secondi. E quel rigore era il suo.
Boris lo vide avvicinarsi. Era suo amico e gli sembrava il suo boia.
Se Achille avesse violato la sua rete, avrebbe fatto esplodere tutta la piscina, e anche tutti i suoi sogni di libertà.
Achille si preparò.
Pensò brevemente alla posta in gioco, al valore di quella vittoria per lui, e a quanto valesse per l’uomo che aveva di fronte.
Poteva sbagliare, magari di proposito.
Quello che aveva davanti era un amico, a cui aveva dato la sua parola.
Ma era anche un avversario e, all’epoca della promessa, nessuno dei due aveva immaginato il momento che stavano per vivere.
Achille aveva preso un impegno con lui, ma doveva qualcosa anche agli altri dieci compagni, insieme ai quali aveva dedicato ogni risorsa a quella vittoria.
E doveva qualcosa anche a se stesso.
Boris si preparò.
Il punto di svolta era quello.
Ma, più ancora delle sorti della partita, avrebbe cambiato la sua vita.
Achille non teneva in mano solo un pallone, ma il suo stesso futuro.
Parole come vittoria o sconfitta assumevano ora un significato segreto, molto più ampio e terribile di quello certificato dai giornali del giorno dopo.
Poteva succedere che l’italiano sbagliasse, fortuitamente o di proposito; poteva succedere che lui parasse.
Ma l’effetto più consono di quel tiro sarebbe stato il goal.
Boris si domandò come si sarebbe comportato lui, a parti invertite.
Poi si domandò se avrebbe odiato quell’uomo, nel caso avesse tradito la sua speranza.
Nessuna risposta abbastanza rapida.
La gente, sulle gradinate, si azzittì.
L’arbitro sollevò le bandierine. Achille alzò il braccio e il suo torso fu più alto sull’acqua.
Boris cominciò la pressione.
L’attaccante e il portiere erano soli, adesso, lo sguardo dell’uno fisso in quello dell’altro.
Il destino fischiò.
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