La Contessa avanza dritta attraverso Piazza San Marco, attaccato alle sue anche come un morso, il fedele carrello di immondizia. Solca il fiume dei turisti, si allargano al suo passaggio come il Mar Rosso. La Contessa avanza dritta come dio. Ha un’età indefinibile che non cela né ostenta. Dicono abbia fatto la vita, da giovane, ma lo spazio e il tempo della sua giovinezza sono ipotesi sempre in mutamento. Dicono sia fuggita dal suo paese. È stata spia, schiava, assassina. Forse madre o moglie, amante di molti, rovina di troppi, su questo sono tutti concordi. Si vede dall’incedere, dicono, ha il collo troppo lungo e il mento troppo alto per essere addomesticata. Allora fu sicuramente l’assassina di suo marito, il Conte. Che fine abbia fatto il patrimonio del defunto, non lo dicono, ma di sicuro lo ha sperperato in vizi e lazzi.
Annabel cammina sghemba in pieno sole, il petto ansante e i capelli troppo lunghi raccolti in una coda. Attaccata alla sua vita come una zavorra, una valigia abnorme, i capelli si incastrano negli angoli ogni due passi. Ci entrerebbe tutta, rannicchiata. Ricordo di qualche nonna o zia, una valigia anacronistica, di cartone nocciola, rinforzata ai lati in cuoio e ottone e con una specie di uncino per tenere insieme la doppia cerniera. La chiave l’ha persa chissà dove e chissà chi. Il viso seminascosto da lenti scure, ai due lati i turisti si dividono per guardarla, il peso del bagaglio la costringe in un ancheggiamento troppo evidente. Annabel attraversa il ponte dondolando, la fronte brilla di sudore come la laguna.
In tutto il giorno non è riuscita a trovare una sistemazione per la notte, solo una stanza in una pensione discutibile sarà libera da domani, per questa notte niente. Le hanno consigliato di provare a Mestre ma non ne ha voluto sapere. Ha lasciato Parigi per Venezia, nessuna via di mezzo. Neanche per una notte, un’altra.
«Beh? Ma guarda un po’ questa qui! Ma guarda dove metti i piedi!»
La mole della Contessa oscura il sole. Un attimo di sollievo, la testa all’ombra della donna, Annabel prova a scusarsi dandole della signora.
«Signora un corno! Stai attenta, che ti credi? Il mondo è tuo?»
«No, io... veramente…»
Ma la Contessa è già oltre. Scavalca il ponte, Annabel e le sue scuse con la stessa falcata uguale.
Annabel la sente imprecare in lontananza, poi ridere. Lei resta ferma. Il morso della fame o un altro morso, giù dalla gola all’inguine, un languore lento. Lacrime. Le trattiene. È così, da sempre. Da che ne ha memoria ha voglia di piangere ma non lo fa. Se non sa perché, non lo fa, e finora sembra non sapere.
Più avanti, oltre il ponticello, tuona la risata della Contessa. Qualcuno le vuole scattare una foto, un gruppo di giovani. La donna ficca la lingua in bocca a un efebo biondo senza starci a pensare. Quello si trasforma in una statua di sale, per un momento. Poi la ricambia. Gli altri fanno il tifo, sono vestiti di stracci come lei, ma più colorati. Annabel li vede allontanarsi, la Contessa in mezzo a loro.
Dopo qualche tentativo smette di cercare. Posti per la notte non ce ne sono. Sarebbe andata anche a Mestre, adesso, anche più in là, ma neanche nei dintorni è rimasta una stanza libera. È piena estate, non lo sapeva? Le chiede il barista sorridendo a denti larghi. Lui ha una stanza proprio lì vicino, le dice tra uno spritz e un’ombretta. Ha lasciato Parigi per lasciare qualcuno? Non è così semplice, prova a rispondere lei, ma il ragazzo è già richiesto a un altro tavolo. Torna spesso, prima della chiusura. Ha il viso solcato dalla giornata e non sembra più tanto giovane come aveva creduto all’inizio. Seduto al tavolo con lei, aspira lunghe boccate di fumo, la cenere incandescente consumata in fretta taglia il nero della piazza. Qualcuno si attarda, le sedie ribaltate sui tavoli intorno, Annabel osserva tutto da un oblò.
«Vieni da me» le dice il ragazzo.
«Non posso» fa lei.
«Perché? Hai qualcuno?»
«No.»
«E allora che c’è?»
Annabel non risponde. Il mento sul polso e il gomito che cede. Sta crollando.
«Hai sonno. Vieni da me» le dice ancora, ma lei non risponde e lui se ne va accendendo un’altra sigaretta. Raggiunge un gruppo di ragazzi mezzo sdraiati sulla piazza. Qualcuno gli passa una bottiglia e una chitarra, una ragazza lo trascina dentro.
Aggrappata alla valigia, Annabel batte i denti. Il freddo prima dell’alba la punge dappertutto e dal canale si alza un’aria densa di brina. L’asfissia della giornata la ricorda appena, e ora la preferirebbe. Anche il letto del ragazzo andrebbe bene, e le sue braccia. Cerca la cerniera della valigia accanto a sé. Ricorda a malapena cosa ci ha infilato, la cerca con l’idea di mettersi addosso tutto quello che può. Ha troppo freddo. Trovata la chiusura dà uno strattone. Sente una resistenza. Non capisce, gli occhi ancora incollati dal sonno, si strofina. Un odore di tabacco e alcol e fiori secchi stura le narici. Apre gli occhi in un lampo. Il groviglio di carne, stracci e ferro prende forma. Riconosce la donna del mattino addormentata dentro un mucchio di colori, la testa al riparo del carrello, la valigia incastrata fra le ruote e il corpo.
Lei sì che dorme, pensa Annabel, e sente ancora qualcosa come al mattino. Prova a sciogliere il manico della valigia, una, due volte, ma il secondo strattone provoca uno smottamento inaspettato. Dalla matassa emerge una mano ingioiellata, la pelle distesa, non sembra più tanto vecchia. Fa capolino una testa bionda. Due occhi trasparenti la fissano un momento, il cuore di Annabel sobbalza. Fa per scusarsi di essere lì, ma il ragazzo borbotta qualcosa e fa un gesto come di lasciar andare. Anche la Contessa accenna un brontolio prima di trascinare il capo dell’efebo a sé. Quello si lancia grato in mezzo alle sue grazie. Lei sorride a occhi chiusi, la pelle nell’incavo del seno è tesa, sembra una ragazza, adesso. Annabel crede di intravedere un rossore sugli zigomi. Sorride ancora a occhi chiusi mentre il ragazzo è indaffarato con stracci e nodi da smontare. La donna lo conduce accarezzandogli la testa. Annabel non ha più freddo. Gli occhi delle due si incrociano in un guizzo ma la testa della Contessa è già all’indietro, la bocca aperta contro l’alba. Annabel sorride. Rinuncia e se ne va.
Il primo morso al cornetto le accartoccia le guance. Butta giù il caffè bollente, tossisce. Un sorso d’acqua, peggio. Le viene da ridere, e anche una lacrima.
«Non bisognerebbe stare troppo tempo senza mangiare, poi fanno male le guance.»
Annabel alza lo sguardo. Una ragazza dritta di fronte a lei le porge qualcosa.
«Cos’è?» chiede.
«Era nel fondo della tua valigia, la vuoi?»
È una chiave. Annabel ora ricorda.
«Credevo di averla persa»
La ragazza ride e rovescia indietro la testa. Ha i capelli rossi e l’aria di una che è abituata a ben altre serrature da forzare.
«La vuoi o no? La valigia però…»
La interrompe.
«No, grazie. Ce l’hai una sigaretta?»
«Certo!»
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