Ti ho portato il mio corpo.
Quattro volte.
Imbustato.
Ventiquattrore versipelle di sterno
e giunture, gola e brodo, manie,
silenzio dietro le orecchie
e cra cra di posture.
Così ben confezionato da sembrare
viziato, una mandorla infiocchettata
nel bozzolo zuccheroso.
Ti ho portato il mio corpo.
Quattro volte. No, forse due in più.
Ma poco importa oramai ai gabbiani
e alla saggina della donna che faceva
rumore con la stessa voce del mare.
Così ben iniziato al tuo gioco di poche ore,
così ben addestrato a stare tutto là dentro
e a non urlare, esplodendo con tutti gli
arti rigonfi e posizionati alle aperture
d'origine, spaventoso pagliaccio - molla
dalla scatola brutta -sorpresa.
Di quella portata goffa e paesana,
ormai non resta forse nemmeno
l'involucro ex-oleato: ho visto
bambini mangiare di gusto e gettare
il cappotto del boccone un po' dappertutto.
Del tuo assaggio di me, invece, nemmeno un pezzetto
fra i denti che qualcuno ti indica e ride, nè
la lisca, l'eccesso, la pellicina, il torsolo,
il sugo avanzato, il nocciolo, il nervo indigesto,
la crosta pelosa o l'osso reggeva - impalcatura.
Tutto è andato, consumato, perduto: ai gatti
le spoglie dell'ultima volta, annusate dietro
la sabbia - pattumiera.
Ricordi?
Ti ho portato il mio corpo, tutto rosa, tutto rosa.
Pesava ma lo portavo convinta e nemmeno ti
chiedevo aiuto per sollevartelo al morso.
Tutto inscatolato, forse meglio del veleno
per topi. Ma la fame finisce, e finisce
la voglia che precede la fame:
due affondi più grandi e tutto si sazia.
Una lampo anche alla bocca.
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