Mi hai condotto nel tempo anteriore a questo esilio
penetrando nello spirito, nel suo principio al nome;
delle nostre lingue differenti hai fatto pentecoste,
dove il legno è primizia della croce,
in questo quattro Aprile, e oggi
sull’orlo del mio abito, colorato,
qualcosa vive e luce a giorno
è la radice interiore di quel figlio,
la gestazione, al culmine del dolore,
che promette di crescere
senza voltarsi indietro,
per diventare a ogni gradino carne
e tempo eterno insieme, nell’epiclesi
riunendo il cielo alla mia terra,
dove le acque sono amare
e amaro il nome. Condotto al tempio,
intanto sale,
comprendendo tutto l’infinito
che si limita nel cuore,
come canta l’ufficio di Natale:
“la terra offre una grotta all’inaccessibile”
Ha le gambe nude questo riso
di mio figlio
con una mano sola copre il pube
nell’istante in cui tutta la tua voce
ci raggiunge a domandare del finito,
aprendo una porta, in risonanza intima
col nome, nessun segreto divide più
le nostre labbra separate. Nel dire: io ti vedo,
Luca- è chiaro
ciò che cerco di toccare.
Egli riderà per sempre
dove Dio ha fatto un riso
anche per noi.
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