Ho amato il morto,
ed il morto mi ha ricambiata.
Niente più me sotto i tetti-caffè umbri,
niente più me nella gonna felice.
Lui mi ha toccata, ora sismica,
prendendomi dal ramo che bene
non mi teneva e si fece contento,
sganciandomi con lieve pressione
dal burbero innesto, sbucciandomi
del bozzolo che non seppe internarmi.
Poi mi adunò: le ossa in gran
formazione ed al suo cospetto.
Il morto mi scelse, mi elesse, ruotandomi
appena, sarto violaceo, cucì alle mie
rappresaglie la sua bordatura ed il tanfo
che fanno tutte le fini, di caglio
che non partecipa e resta.
Ho amato il morto, ma il morto di altri:
non bisognerebbe mai toccare alla
terra l'utero appena infettato dalla
pala del grigio becchino.
Ma io l'ho fatto con la testardaggine
della zavorra allo zavorrato.
Ed il morto, che beffa, mi ha accudita,
lanciandomi putridume giù, più giù
dell'addome, laddove lui
finse una stirpe, aghiforme violenza
ad iniettarmi la razza sua ecrù.
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