Pubblicato il 28/04/2022 04:04:50
Al Diana di Nocera Inferiore Artenauta Teatro presenta venerdì 29 aprile h.21 "Tre compari musicanti" con Paolo Apolito.
Nuovo appuntamento della rassegna "Ouverture", a cura di Artenauta Teatro, con la direzione artistica di Simona Tortora e l'organizzazione a cura di Giuseppe Citarella, che si tiene al Teatro comunale Diana di Nocera Inferiore. Venerdì 29 aprile alle ore 21.00 andrà in scena "Tre compari musicanti" - Storie minime nella grande storia: briganti, borbonici, francesi - scritto e interpretato da Paolo Apolito, con la partecipazione di Antonio Giordano alle zampogne, chitarra battente, canto (biglietto 5 euro). Uno spettacolo che ha ottenuto nel corso delle diverse rappresentazioni il plauso del pubblico che ama molto il tipo di intrattenimento colto ma anche accattivante ideato da Apolito, noto anche per essersi più volte definito "antropologo a domicilio", per quella sua capacità di raccontare - da grande affabulatore - la storia vera in maniera semplice ed intrigante. *Lo spettacolo era presente nel cartellone della rassegna L’Essere & L’Umano - VI edizione, interrotta a causa pandemia da Covid-19. I possessori dell’abbonamento per quella rassegna entreranno gratuitamente, a recupero della stagione precedente. Mail: infoartenautateatro@gmail.com Prenotazioni tramite whatsapp: 328 7892486 - 320 5591797 Addetto stampa Claudia Bonasi (339 7099353 – claudia@puracultura.it) Le parole – con lo stesso sguardo, senza misura tra luce e oscurità, con uguale distanza tra loro, nel tempo che corre tra una e l’altra quando passano in fila fino alla fine, fino alla fine della frase nemmeno fossero preludio e termine, quando raccontano precipizi dai pori e nel terreno bianco di una pagina, dove sempre in nero vestono, le parole, quelle dopo le nominazioni, nemmeno fossero vertigine e baratro, distacco e vicinanza, quelle con la vita dentro un’orfanità, quelle per cui non c’è cosa, nemmeno arrivassero da lontano, quelle che definiscono e insieme negano nell’adunata a una a una, che nascono nel fondo dove origina la ferita e le sue due rime, quelle nella cui pienezza è radicata l’erranza, tra vastità e confini nella sostanza di questo viaggio, nel loro confondersi la finitezza e l’apertura. Ranieri Teti, La vita impressa, Book Editore, pagg. 69. È libro di parole questo bel libro che ho letto come si respira l’aria quando si ha la sensazione di esistere. Libro dalla gestazione lenta e dalle mareggiate alte. Libro d’inchiostro. Libro d’abisso. Libro di vita e di altre nominazioni. È libro di ombre. È libro di nostalgia. È libro migrante. È libro di fondamenti senza sommità. È libro senza la pretesa di essere libro. Un libro negato, che si nega, che si respinge nella frana interiore di una diminuzione, di un’oltranza, di un salto disuguale nella memoria. Un libro schivo che traduce un silenzio seminato di scrittura e di voci, di abnegazione, di presenze invisibili che hanno luce nell’impossibile necessità della parola omessa. Glissata. Minuta. Disfatta. Parola sotto falso nome. Deragliata. Osservata. Inclinata. Parola sfiancata di malinconie e inciampi. Parola infangata, nobilitata, insieme alle macerie del corpo. Di tutti i corpi dimessi e dilatati. Parola di margini e vibrata nei frammenti magri del tempo. Intanto, tempo tramandato. Impreciso. Membrana semiaperta. Insonnia e destino. Una lingua quella di Ranieri Teti dalla mano tremante che ricorda la paralisi dei polsi, la moltitudine dei chiari e la bellezza delle frasi simili alle frane delle brezze limpide che corrono lunghe le soglie delle terre incognite, dei luoghi non luoghi della scrittura, nelle immemori ossature delle lontananze, per perdersi nelle geografie dei contagi, nelle parti sofferenti, nelle stesse ustioni o vacuità dei significati. L’opera è il rapporto con l’invisibile. Con l’indicibile. Qualsiasi elisio o versiera che sia deve restare parola “insolvibile”. Una parola “luce”. Una parola “davanti”. Una parola che invoca il viaggio, via della scrittura e del silenzio. Della solitudine. Non a caso, il libro apre alle parole di Pascal Quignard, ideatore di comunità di solitari e di paradossi. Immensa scheggia di selce e sapienza. Occorre forse tornare, scriveva, a una diffusione più solitaria e clandestina dell’opera d’arte. […] Destinare un piccolo spazio alla rarità quando diventa estrema; custodire il cuore della solitudine; nascondere in una fenditura ciò che non è riproducibile. […] Spegnersi in un angolo invisibile, come fanno i gatti quando cercano il luogo in cui morire. Si sa, un libro di parole rimanda ad altre voci. È la stessa accessibilità dell’opera d’arte che proprio allora si ritrae, per essere fino in fondo negazione. Memoria di negazione. Memoria di ciò che ci è sottratto. E ancora Quignard a scrivere che tutto ciò che resta chiama ciò che manca. E, forse, La vita impressa, questo bel libro di parole è proprio questo tempo mancante, questo spazio che incontriamo di nuovo, perché questo vuoto non sia altro che una materia (ente) che si placa nell’incontro effimero con la parola. Si tratta di descrivere un delirio. Un’estasi. O una placata rassegnazione. La cui parola, mi suggerisce Cacciari, si fa così acuta da penetrare la cosa e riguardarla dal suo interno. Un’esperienza del linguaggio allora che permette di trascendere la parola (l’esistenza, la realtà, il linguaggio) ma di non oltrepassarla. C’è in sostanza, in questa raccolta di materialità poetica, tutta l’esperienza o la consapevolezza del Novecento e il sognare di un’artista il cui scopo è solo sognare. Voce per dire e per udire quando è terra la prova del volo. Allora, la creazione di un senso è la sua stessa rimozione. Tempo di finzione e di refurtiva. È l’inciso sul retro di un foglio. È quello che resta. Nulla. Ma più di ogni altra cosa, la domanda sul nulla resta. E non è, forse, questo restare sul nulla, il fine, o il tramonto, il tormento del chiudersi della parola? Andrea Emo, illustre quanto appartato intellettuale, così scriveva: Quando l’astro del nostro pensiero tramonta, allora, in questo tramonto, tutto s’illumina. S’illumina l’incomprensibilità di noi e di tutto, senza che questa comprensione, questa contemplazione, abolisca l’Incomprensibile. La nota di Laura Caccia al libro di Ranieri Teti è il successivo fotogramma autentico, perciò originale della parola. Quando la critica, o la parola, si fa essa stessa opera. Così che l’erranza sia tutt’uno con l’abisso e con i molteplici alfabeti dell’esistenza e degli universi. Dove bastano le parole a dare insignificanza al mondo, a restituirne trasparenza, magari per un bastante attimo. E ringraziare, allora, la parola che corre in calce, quella che prende acquistando un non avere, che digrigna in silenzio, non avendo luogo né soglia.
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