Pubblicato il 25/09/2008 15:06:52
“Ma dove sono?” , pensò Rufus quando si svegliò su una fredda panca di quella che sembrava essere una stazione ferroviaria. Tutto intorno vi erano piastrelle bianche, di un candore unico, due binari che si intrecciavano. La sveglia fu data dal rumore di un treno in partenza, per dove non si sa, dato che il tabellone luminoso non segnava il benché minimo orario. Al suo fianco una donna, Beatrice. Lunghi capelli mossi, labbra carnose e carnagione simile al caffé e latte, proprio il tipo che piaceva a Rufus. Anzi le ricordava qualcuna, ma non riusciva a ricordare chi. “Ciao – disse lei – ben svegliato”. “Ma dove sono?”, disse un intontito Rufus. “Sei in una stazione no? Probabilmente aspettando un treno che doveva arrivare, e evidentemente non è più arrivato, ti sei addormentato”. “ A dir la verità non ricordo di dover prendere un treno…ricordo che ero ad una festa, però in questo momento ho un vuoto assoluto. Sarà stato tutto quel rhum che è volato sui tavoli”. Rispose l’uomo. E chiese alla donna dal viso familiare: “Eri anche tu alla festa?”. “Quale festa!”, disse Beatrice quasi stizzita. “ Sono qui e aspetto il mio turno, ma ancora nulla, sembra secoli che sono qui!”. “Bè in Italia, siamo famosi per i ritardi dei treni, forse sono in sciopero di nuovo e non lo hanno detto – continuò Rufus – la cosa strana è che non c’è nessuno, neanche un capostazione, qua è tutto da rifare.. comunque io mi chiamo Rufus e tu?”. “Io Beatrice, molto piacere”. Aprendo quella bocca per fare un sorriso, Rufus ebbe come un flash back che gli portò in mente l’immagine di una coppia felice, intorno ad una nebbia. Non riusciva a distinguere né il volto dei due personaggi, né il paesaggio che li circondava. Mentre cercava di mettere a fuoco quel frammento di immagine, sentiva una canzone di un gruppo inglese che nel loro r’n’r chiedevano all’ascoltatore; “ Do you fell alive? Can you fell alive?”. Rufus si alzò in piedi e si mise a cercare una uscita ma invano, sembrava che quella struttura non avesse uscite di nessun tipo. “ L’unica via di uscita è prendere il treno – disse forte Beatrice da lontano – non ci sono altre vie, fidati di me”. Rufus non riusciva proprio a capire, si trovava in una situazione paradossale: doveva prendere un treno che non sapeva di dover prendere, si trovava in una stazione deserta a parlare con una donna che sapeva di conoscere, ma non ricordava dove l’aveva conosciuta. “Beatrice, aiutami a capire questa situazione, per favore”, chiese Rufus ripregando la donna. “Va bene, tanto qui sembra che il tempo non passi mai, almeno ammazziamo il tempo”, rispose Beatrice, alzandosi dalla poltroncina della sala di aspetto, accompagnando l’uomo in un posto più comodo dove parlare. Beatrice allora propose a Rufus di parlare un po’ di lui, della sua vita e di quello che faceva. Rufus cominciò a raccontarsi a quella donna misteriosa. Rufus non sapeva da dove cominciare. Il suo intento era spiegare a Beatrice gli ultimi accadimenti, ma non riusciva proprio a ricordarli. Ed allora era meglio cominciare dall’inizio, forse, parlando un po’ della sua vita, sarebbe riuscito a riprendere le redini dei suoi ricordi. Il suo racconto cominciò. “ sono di una piccola città che di nome fa Sulmona”. “Quale è la prima cosa che ti viene in mente, quando pensi alla tua città?” chiese Beatrice come se fosse una psicologa modello. Rufus era indeciso nella risposta da offrire alla giovane donna: “Forse la mia infanzia, quando tutto era bello, senza problemi e io tornavo a casa da mamma a mangiare”. “Che lavoro fai?”, chiese la modella psicologa. “Faccio un normalissimo lavoro da impiegato, però non è mai stata la mia ispirazione”, ammise Rufus. Beatrice domandò il perché. “Il fatto di avere un lavoro sicuro certo ti permette alcune cose che altrimenti non potresti fare o ottenere. Non ti posso nascondere che il lavoro ti dà serenità, almeno fino a quando va tutto bene – continuò Rufus con un sospiro – però io avrei voluto far altro. Che cosa? Non so in effetti. Forse qualcosa legata alla musica, qualcosa che avrebbe aiutato la mia Valle a crescere, ma molti progetti sono stati bocciati”. “Beh non è sempre facile essere quello che si vuole essere. Però provare è quello che sempre bisogna fare”, disse Beatrice. “ e tu sei riuscita a fare quello che volevi nella vita”, chiese Rufus. Beatrice ci pensò e poi rispose: “Ho sempre voluto trovare un lavoro che poi avrebbe aiutato gli altri”. “Ci sei riuscita?”, chiese Rufus, incuriosito. “Credo di sì”, rispose Beatrice. “cosa fai la psicologa? La analista?”, tentò di indovinare l’uomo. “Diciamo di sì. Accompagno le persone verso una nuova via, è un lavoro un po’ stancante e lungo, però alla fine paga. Far vedere cosa è successo nella loro vita, riflettere sulle loro scelte, la ritengo un’ottima terapia”. Ad un certo punto Beatrice lo guarda negli occhi e con sguardo indagatore si avvicinò verso il suo volto per studiarne le linee del volto. “Che stai facendo”, chiese imbarazzato Rufus. “Sto osservandoti, perché è dall’osservazione che nasce il giudizio”, disse lei. “Bè tu vuoi dire che basta vedere i volti per capire chi sei?”, chiese lui attendendo una risposta in merito. “Si riesce a capire molte cose – disse Beatrice dalle lunghe ciocche – tu potresti non accorgertene. Ma i tuoi lineamenti, il tuo sguardo e questi tuoi occhi, denotano una certa infelicità nella tua vita. Come se ti fosse mancato qualcosa fino ad adesso. Dai ragazzo, pensa positivo”. La conversazione si interruppe da un suono, un suono acuto che si espanse per tutta la stazione dalle pareti bianche. “Cosa è questo suono?”, chiese Rufus. “Sta passando un treno”, disse Beatrice. “Oh finalmente, posso prenderlo così mi riporterà nella mia città. Sempre che io riesca a capire dove io sia”, disse Rufus. “Credo che questo treno non si fermerà qui”, ribattè la donna. Rufus si girò verso di lei e disse: “Che sei la figlia del capo stazione?”. “No, ma lo so!”, un sorriso di Beatrice colpì lo sguardo di lui. Rufus si alzò in segno di sfida; non volendo dare ragione a una donna che sembrava aver tutte le risposte ad ogni sua domanda, il giovane alzò la voce, proporzionalmente all’aumentare del rumore del treno che stava avvicinando: “mi sono rotto di stare qui, in un posto che neanche so come ci sono arrivato. È una stazione ferroviaria giusto? Ed allora questo treno si fermerà qui e mi farà salire”. Rufus si avvicinò ai binari, nel punto in cui, secondo lui, il treno si sarebbe dovuto fermarsi. Sembrava che il treno stesse rallentando, e quindi si girò verso Beatrice con un ghigno soddisfatto, ma notò che il sorriso della donna era più beffardo del suo. Il tempo di girarsi verso il treno e capì che i vagoni stavano accelerando e che il treno non si sarebbe fermato. A quel punto guardò il tabellone della stazione e lo trovò ancora senza un riferimento a un treno in partenza o in arrivo, senza un orario, senza un annuncio di scioperi, o di altro. Furiosamente si avvicinò verso la donna, e la scosse: “Tu sai che sta succedendo, dimmelo!”, disse l’uomo. “Tutto rimarrà così finchè non lo ammetterai” disse Beatrice “Ammettere che cosa? Ammettere che cosa, dimmelo!”, Rufus era fuori dalla grazia di Dio “Più che ammettere, capire che sei morto”.
La mattina in cui si svegliò per l’ennesima volta a Sulmona, era una mattina come tutte le altre. Il più delle volte nella sua città pioveva e l’umidità si aggrappava a quelle giovani ossa che costituivano il corpo di Rufus. Si trattava infatti di un impianto che sorreggeva un falso magro. Rufus era un ragazzo sulla trentina che cercava di mantenere quel peso forma che madre natura, insieme al Dna dei suoi genitori, aveva concesso a lui. Un problema quello del fisico con il quale il giovane sulmonese ha avuto sempre qualche problema. Non si trattava solo del peso, ma anche della salute. Fin da piccolo Rufus si era riscoperto un bimbo fragile dal punto di vista sanitario. Una tosse che lo ha sempre tormentato e l’influenza sempre ciclica che lo colpiva soprattutto nei momenti critici della sua vita, o in vista di un appuntamento importante. Il clima sulmonese poi faceva il resto. Nonostante la città sia situata in una Valle, appunto la Valle Peligna, poco importava, le montagne, infatti, non creavano difese dalle intemperie e il caldo tardava sempre a farsi sentire. La vita di Rufus è sempre stata tranquilla nella sua città. Regolarmente si svegliava la mattina alle 6.30 e si preparava in tempo per arrivare a prendere l’autobus che lo avrebbe portato al lavoro. Era in buona compagnia. La mattina presto erano molti i lavoratori che da Sulmona prendevano le varie direzioni per guadagnarsi la pagnotta per sé e per la propria famiglia. Ed anche quella era diventata una famiglia “sui generis”, fatta di tanti mogli, figlie e padri. E lui si sentiva parte di questa famiglia che mangiava una cosa a volo a pranzo in una pizzeria o che facevano la fila alla mensa convenzionata con l’azienda di appartenenza. Si sentiva soprattutto libero di pensare e dire quello che voleva, perché quando non ci sono vincoli, quando sei no dei tanti, la comunità di accetta per quello che sei e che afferma, sennza pregiudizi. I problemi rimanevano dentro la cerchia della Valle, e lì lo aspettavano quando tornava la sera. Dai problemi non si scappa, questo Rufus lo sapeva. Rufus ha vissuto tante vite, è stato Rufus il bambino, Rufus l’introverso, Rufus il lavoratore e sarebbe diventato Rufus il contestatore.
Rufus il bambino
Era un pazzo Rufus da piccolo. Piangeva e strillava come un ossesso. La mamma preoccupata chiamava spesso il pediatra, perché il bimbo, leggermente rompicoglioni per i vicini, non riusciva neanche a respirare, troppa era l’agitazione. Il suo respiro si faceva pesante e affannato e il suo viso esprimeva solo dolore. Non era niente di importante alla fin fine. Rufus era egoista, concentratore e da figlio unico aveva come unico scopo quello di avere tutto per sé. Il bimbo era piccolo ma con le idee chiare. Anzi a ben vedere sarebbe stato più lucido in quella età che dopo, quando l’innocenza non c’è più e quando a governare sono le macchie dei peccati commessi. A quel tempo invece si è puri, e l’unico istinto che guidava un bimbo alla Rufus, erano i sentimenti primordiali dell’uomo: spirito di sopravvivenza a danno dei suoi coetanei e il più “nobile” sentimento umano, cioè l’avere tutto per sé e non lasciare nulla agli altri. Questo sentimento rimane anche nelle età successive ma si sposa con freddi calcoli come l’ambizione e il profitto personale. Il bimbo era taciturno, pacifico e libero da vincoli parentali di grande livello. Libero da vincoli parentali di grande livello, si intende soprattutto la inesistenza di quei fratelli e sorelle rompicoglioni, che obbligano a dividere in due le stanze, a dividere vestiti e giocattoli e personal computer. Che ti impediscono di poter cantare a squarciagola e che ti impediscono di parlare al telefono perché è già impegnato e più di una linea a casa non si può avere. Il bimbo Rufus sembrava non volesse mai venire fuori dalla pancia della mamma. Stavi lì beato a pensare ai fatti suoi, al caldo, protetto e senza problemi. Finchè un giorno un dottore, il primo di febbraio non decise che anche quel bimbo avrebbe dovuto assaggiare le amarezze della vita terrena. E così fu. Per quanto era arrabbiato per questa scelta non sua, con il suo piccolo pisellino da fuori, non pianse neanche per non dare troppa soddisfazione a quegli uomini mascherati con camici bianchi e verdi. Ma il dottore fu cattivo e decise che il bimbo doveva piangere e gli procurò dolore. Quello fu il primo pianto di Rufus: grandi gocce amare scendevano copiose da suo viso, per la gioia di tutti, anche della mamma che si tolse un peso. Rufus non ebbe una infanzia troppo diversa dai suoi compagni di sventura. Dormiva, mangiava, dormiva di nuovo, aveva le coccole e gli schiaffi, riceva parole dolci e cattive, in base a quello che combinava. Non aveva comunque troppa coscienza di quello che era, di dove stava, di quello che forse gli toccava da fare, ma era lì senza sapere se doveva essere contento oppure doveva essere infelice. Della sua infanzia salvò però l’immagine di una sua vacanza con i suoi genitori. Era l’estate del 1987. lui aveva 10 anni e sapeva che pensare, o meglio non aveva mai avuto bisogno di pensare. I suoi genitori lo portarono al mare, nel sud Italia. Era la prima volta che quel bimbo andava in un posto con i suoi genitori dove non conosceva nessuno, dove sarebbe stato impossibile incontrare qualcuno della sua città, dove l’ambiente che lo circondava era diverso da quello familiare. Era la fine di quella vacanza e si ritrovava a salutare il mare. Non era un amante dell’acqua, non sapeva neanche nuotare a quella età. Ma quella sera, la sera che precedeva il suo ritorno in patria, sentì per la prima volta una tristezza nel cuore. “che mi sta succedendo? Perché sono triste?”. Non se lo sapeva spiegare il bimbo. Mentre era lì in piedi alla riva, con il padre vicino con i suoi baffoni neri che lo teneva per mano, un’onda si avvicinava come se lo volesse salutare. Sulla sua sinistra, poco lontano, un anziano uomo si trovava lì a fare la stessa cosa. Si diceva che quell’uomo erano dieci anni che la sera, quando poteva, si fermava ad ammirare quello spettacolo:il mare piatto, il sole che scompare all’orizzonte. Si diceva che l’uomo era ammalato d’amore e che si rivolgeva al mare, affranto dal dolore, per l’amore scomparso, chiedendosi il perché. L’uomo si sentì osservato e si rivolse per un momento verso quel bimbo. Rufus guardò quegli occhi e sembrava di riconoscerli, e l’anziano uomo accennò ad un sorriso che sapeva tanto di un: “Sai chi sono e ora mi capisci”. Rufus si strinse verso il padre, che senza guardarlo gli passò le mani tra i capelli come a rassicurarlo. A 10 anni, Rufus sentì per la prima volta un vuoto inspiegabile nella sua vita. Quella tristezza se la portò dietro per tutto il viaggio senza sapersela spiegare. Una cosa però aveva capito, in qualche maniera, aveva deciso che in quel posto ci sarebbe ritornato. Ma come era la gente quando Rufus era piccolo? I bimbi non stanno a guardare le persone con secondi fini. Alla fine sono come i cani per i padroni. Pensano quello che vedono, e quindi dipende dal “padrone” non trattarlo male. I bimbi e quindi lo stesso Rufus non credevano che nel mondo ci potessero essere uomini cattivi come nelle serie giapponesi di manga che proponevano in tv. Lui erano nato a pane e Mazinga Z. vedeva Tiger Man allenarsi duramente nella tana delle Tigri, lasciare quel posto per combattere contro chi aveva sposato il male. Pensava che anche nella realtà ci fosse una armatura come quella dei Cavalieri dello Zodiaco che potesse difendere l’umanità dal santone maligno. Vedeva in Ken il guerriero un possibile uomo che potesse apparire da un momento all’altro. Lui, nato con la televisione che lo ha cresciuto e fatto da baby sitter alla sua generazione, non era impressionato nel vedere popoli falcidiati dal dittatore di turno: da un punto di vista visivo vedere l’Immortale Lambert tagliare la testa era uguale alle scene viste nei tg, quando i genitori decidevano di volerlo vedere. La differenza era che forse in questo ultimo caso c’era meno sangue. Lui vedeva quello che gli occhi gli facevano vedere. Vedeva gente sorridente, vedeva intorno a lui gente allegra, gente che poteva essere felice. Si sarebbe accorto più avanti che non era così e che anche lui non sarebbe stato felice. I bambini ricevono tanti regali e lui non era da meno. Scatole e scatole di Lego, le costruzioni del pensiero. Lo facevano in pochi e lui era uno di quelli: strappava le istruzioni e costruiva l’astronave come voleva lui. Tra i modelli dei Lego, non vi erano sicuramente quelli che ritraevano la vita reale, i preferiti di Rufus. La fantasia regnava in lui, nonostante fosse ancora un bambino, pensava che qualcosa in più doveva esserci oltre quel mondo, che tramite la tv aveva imparato a conoscere. Uomini con poteri straordinari, essere diversi da quelli che erano stati censiti fino a quel momento. Poter viaggiare con la sua mente e con la sua immaginazione lo portava a credere che sarebbe diventato un esploratore. “Mamma voglio essere uno che gira il mondo e lo spazio”, diceva alla sua genitrice. Più tardi avrebbe capito che era meglio viaggiare con la mente che vedere tutte quelle porcate che succedevano nel suo mondo. Aveva un amico immaginario, Rufus. La cosa quando lo faceva alquanto ridere, quando ripensava alla sua giovinezza. Un elettrodomestico come baby sitter, un personaggio inventato come amico. Si chiamava Peppe, il suo amico. Era uno fico, uno che poteva avere tutte le ragazzine che voleva. Forse un po’ presuntuoso e prepotente, questo Rufus glielo faceva sempre notare, ma lui diceva: “Ehi, fratello, vuoi il successo? Devi essere come me”. I discorsi sulle ragazzine erano i temi preferiti delle loro conversazioni. Aveva 12 anni e Rufus si sentiva attratto dalle ragazzine. Il suo “ego” si faceva sentire spesso e le lenzuola bagnate, dopo aver capito che non si faceva la pipì a letto, significavano che anche il suo corpo chiedeva una svolta nella sua vita. Ma lui non era il tipico ragazzino che piaceva. Era infatti un mezzo sfigato. Era bruttarello, era uno di quei ragazzini che spesso passano inosservati e al massimo riescono a strappare una amicizia. Peppe gli spiegava che era colpa sua. “Rufus, sentimi un attimo – diceva il suo amico – le donne sono delle egoiste del cazzo. Ti trattano da amico finchè non trovano lo spasimante, ti portano in alcuni luoghi che non avrebbero mai frequentato”. “ti è mai capitato di sentirti dire cose del tipo: Rufus perché non andiamo in quella sala giochi”, chiese Peppe al ragazzino. “Hai ragione, e mi sono pure chiesto il perché a quella lì, che aveva sempre disprezzato il Devil Game, mi ha chiesto ti andarci tutta entusiasta”, si chiese dubbioso il ragazzo. “Perché là c’era uno che gli interessava, hai capito adesso?” disse Peppe spiegando poi la sua teoria. “Allora i ragazzi, e lo spiego una volta sola, si dividono in tante categorie. Allora ci sono gli uomini zerbini, quelli si prostrano a qualunque tipo di umiliazione pur di star vicina a una ragazza che gli piace. A questa ragazza però non piaci e lei ti usa per i suoi comodi. Peggio dei zerbini lo sai chi c’è?Non lo sai? Te lo dico io. Ci sono i driver. Tu sei ancora piccolo e non puoi guidare però quando sarai grande, e nessuna ti si filerà, ti vanterai che quella bella ragazza ti ha chiamato e l’andrai a prendere. Ma a lei di te non gliene frega nulla, vuole solo usarti e usare la tua macchina. Tu la porterai dovunque, fino alle 5 di mattina, poi ti ritroverai a casa da solo e magari lei ad un certo punto della serata ti dirà che qualcuno la riporterà a casa”. Ci fu un attimo di silenzio perché Peppe vedeva lo sguardo dubbioso del giovane e reale amico. Ma poi riprese con una domanda: “Tu lo sai che farai in quel caso?”. Disse Peppe. “Non lo so”, disse Rufus. “Rosicherai!”.
Ad un certo punto la terra tremò e il pavimento, mentre Rufus barcollava, si aprì come d’incanto. Dal fondo del pavimento uscì una figura. Era impossibile tratteggiarne la figura del volto, era un ectoplasma, ed attraverso questa immagine Rufus riusciva a vederci attraverso. “Ma cosa è” chiese Rufus rivolgendosi a Beatrice, la donna che gli stava tenendo compagnia in quel trapasso. “E’ un anima, Rufus, è qui per te”, disse la donna. “Non ha volto – continuò la musa del defunto – perché il volto glielo dai tu”. Ed infatti Rufus, guardandolo attentamente, riuscì a capire chi era: si trattava di un piccolo politico della sua città. Uno di quelli che si vantano di essere il nuovo ma poi sono il vecchio. “Sei veramente tu”, chiese Rufus. “Si caro Rufus, sono Edmondo Sforza, o almeno lo ero, ed ho governato Sulmona, quando tu eri in vita. Ho fatto tutta la carriera politica che c’era da fare: consigliere, sindaco per ben due volte, assessore comunale, provinciale e regionale. Non sono riuscito mai ad arrivare al Parlamento, ma non mi è dispiaciuto, meglio essere uno che conta nella tua terra d’origine che essere uno qualunque a Roma”. “Ma da dove sbuca?”, chiese Rufus a Beatrice. “Lui sbuca dal nulla. In questo mondo non esistono punizioni né premi, esiste la vita eterna e basta. La differenza è che i beati, coloro che hanno vissuto una vita “magnifica”, si troveranno a vivere nella grazia di Dio. Godere della sua visione, poter rivivere i propri pensieri felici, come se stessero per accadere ora, mentre chi si p comportato male, vivrà eternamente nei rimorsi. Sentirà, finchè questo Regno vivrà, le grida e il dolore di chi ha ricevuto del male da questa gente. Sentirà il peso si di sé, delle sue gravi azioni. Non se ne può fregare, perché questa reazione è la punizione che gli spetta”. Spiegò Beatrice in maniera esaustiva. “Caro Rufus – disse Edmondo – rivolgiti a me con delle domande, devo rispondere per forza perché le regole di questo Regno sono queste, mio malgrado” “Edmondo ho da chiederti tante cose…vediamo da dove cominciare – chiese Rufus – vorrei tanto sapere perché avete rovinato la fiducia degli italiani nei vostri confini, perché avete sperperato e rubato”. “Caro amico mio sulmonese, che dire?”, disse Edmondo, “Mi ritrovo in una posizione nella quale non posso non risponderti. Mi trovo nella posizione di dirti che quando ti ritrovi in quel ruolo, su una poltrona comoda e in pelle, larga tanto da poterci dormire, mangiare e fare altro, aumenta il tuo ego, sei impossessato dal delirio di onnipotenza”. “Mi sembra che dai la colpa a tutti tranne che a te stesso, caro Edmondo. Mi ricordo di te quando ero piccolo e tu facevi il bello e il cattivo tempo nella mia città, davi una carezza a uno e facevi un favore un altro. Si sapeva chi lavorava quando eri tu a governare. È un caso questo? Non credo!”. “Rufus mi ricordo di tuo padre, un uomo umile, un lavoratore, ricordo al suo funerale quante persone sono venute. Poi ho visto te crescere. Cosa penserebbe tuo padre di te?”.
Rufus da giovane Rufus fu preso da uno sconforto, come quando arriva una brutta notizia inaspettata. Una di quelle notizie che ti fanno cadere e perderti in te e non ti permette di rialzarti. In effetti il rapporto di Rufus non era stato dei più felice. Il padre di Rufus, infatti, era un camionista, un uomo, come tutti dissero di comune accordo tra gli astanti al suo funerale, generoso. Un pregio riconosciuto anche da suo figlio, ma chissà perché la vita è così complicata. Più ci si prodiga per i figli più questi rispondono picche, rispondono che non vogliono l’aiuto, né il consiglio dei propri genitori, arrivano anche ad odiare chi li ha messo al mondo. Fu infatti il padre di Rufus a regalare a quest’ultimo una chitarra classica da 70 euro. Una chitarra piccola, facilmente trasportabile e da viaggio. Rufus aveva circa 15 anni. Al suo compleanno, il primo febbraio del 1977, il padre tornò da uno dei suoi viaggi con il camion dalla Spagna. Davanti al piazzale della Magneti Marelli, dove il padre parcheggiava il camion, Rufus e la mamma aspettavano il camionista baffuto, che, una volta parcheggiato, aprì il portellone del suo mezzo e tirò fuori un regalo per il ragazzo. “Tieni, così avrai un sacco di successo con le donne, quando sarai più grande!”, disse il padre del giovane tutto fremente. Faceva freddo, essendo febbraio, ma Rufus aveva caldo, forse era l’impazienza di sapere cosa il padre gli aveva regalato. Prima diede una botta delicata al pacco incartato che suonò vuoto e poi senti delle note stonate. “Papà, GRAZIE!!”, esclamò il neo chitarrista vedendo il suo strumento. “Ricorda, con questo potrai dire tutto quello che vuoi – gli spiegò il camionista stanco per il lungo viaggio, fatto solo per stare il giorno del compleanno vicino al suo ragazzo – suonala forte, fai sentire quello che pensi e che senti, non ti far influenzare da nessuno”. “Stai cominciando a ricordare Rufus – disse Edmondo – ricordi quello come sei passato dalla età dell’innocenza a quella della vergogna?”. Era il 1992, un anno di grazia per la musica e disgraziato per l’Italia, quante certezze crollarono in quell’anno! Tutti i politici arrestati o pronti a suicidarsi per la vergogna di essere messi alla gogna da un pool di magistrati all’assalto della diligenza e della dirigenza italiana. Ma a Rufus queste cose non toccavano, lui era davanti allo stereo, con la sua chitarrina a fare il giro di do, a cercare di trovare a orecchio gli accordi di una canzone dei Pavement e dei Pearl Jam. Era la chitarra autografata dal suo papà e si era impegnato a imparare. Per fare meglio andò anche a scuola di canto che a scuola di chitarra, perché dove non arriva il talento arriva la cultura. Stava lì a suonare e successe una cosa: la mamma gli chiese un favore che lui non voleva fare, dal favore passò al comando, a quel punto Rufus, arrabbiato lasciò il suo strumento e portò l’immondizia al secchio che era situato all’inizio del suo viale. Mentre andava gli ronzavano due parole nella mente: “Non si fa così, io voglio di più di così”. Subito dopo andò a casa e prese la sua stupenda ragazza e cominciò a strimpellarci sopra a quelle due parole. In poco tempo Rufus aveva fatto la sua prima canzone. Una canzone punk, veloce e leggera che coglieva la rabbia di quel momento. Un testo senza censurarsi perché il padre gli disse che poteva dire tutto quello che voleva in una canzone. “Eri felice allora, vero Rufus!”, disse Edmondo distogliendolo dai suoi ricordi. “Ma tu puoi leggermi nella mente?”, chiese uno stupefatto Rufus. Gli rispose Beatrice che per tutto il tempo era rimasta in silenzio a sentire quello che i due si stavano dicendo: “Non solo legge i tuoi pensieri, ma noi li stiamo rivivendo con te e tu non solo li stai ricordando, ma ci sei proprio dentro anche se non puoi interferire e cambiare qualcosa”. Infatti in men che non si dica Rufus era lì sul palco a vedere se stesso e gli altri ragazzi della sua band a suonare, a buttare il sudore per piacere del pubblico. Si ricorda le prime esperienze davanti a venti persone, a quelle persone che lo insultavano, ma lui faceva finta di niente. “E poi che è successo ? –chiese Edmondo – guarda come la tua vita è cambiata quanto la mia”. Rufus rivede la scena in cui ebbe successo. Quella in cui una major decise di metterlo sotto contratto e di farlo suonare con dei musicisti seri. Il momento in cui il grande dirigente della casa discografica gli aveva imposto un certo look, una strada diversa musicalmente parlando, e tour perenni. Rufus non sapeva che fare, ma il denaro, il successo, fanno il resto. Rinnegò gli amici con cui aveva costruito il percorso musicale,rinnegò i genitori che non riuscì più a vedere, in quanto Sulmona, la sua città, era lontana da Milano, dove suonava, doveva registrare. Da quando vinse SanRemo, con un titolo sul quale ci avrebbe sputato su, mesi prima, cioè “Bambina, amore mio”, la sua vita era cambiata. I soldi ne erano tanti, la popolarità era all’apice. Tanto è vero che per portare le lettere delle fan ci voleva un camioncino. Ovviamente lui non le leggeva perché c’era chi lo faceva per lui. Il suo staff rispondeva per lui, con le lettere, faceva i post sul suo my space. Rispondevano alle domande dei vari giornali musicali. Lui praticamente, queste erano le parole del suo manager, “ doveva pensare solo a suonare”. Aveva tutto, donne come non mai (anzi lui era un povero sfigato, vergine fino all’età di 28 anni e per questo andò con una puttana, perché una rockstar non poteva essere vergine), soldi, fama e successo. Ma mancava qualcosa. Era l’affetto dei suoi casi, che non riusciva a sentire più. I suoi orari erano tali che non gli permettevano neanche una telefonata e quelle poche volte che sentiva i suoi genitori si metteva a piangere. Non riusciva neanche più a scrivere una canzone, perché non vivendo più, vedendo solo le mura degli alberghi in cui stazionava, non avendo più il rapporto con il pubblico, se non durante i concerti, non aveva stimoli ne idee. infatti il suo manager gli trovò un paroliere, un autore che scrivesse per lui. Ma ecco che Edmondo e Beatrice lo guardarono e gli dissero: “ora ricordi”. Si ricordava. Era un giorno qualunque di un qualunque anno. Rufus non sapeva più neanche in che tempo viveva. Doveva fare il suo primo grande concerto a San Siro. Attesi 20.000 ragazzi. Il concerto della consacrazione. Era sull’autobus che da Venezia, dove si era esibito due giorni prima, lo avrebbe portato a Milano. Ricevette una telefonata. Era la mamma che gli comunicò la malattia del padre. “In questi mesi non ti ho voluto disturbare, perché non ti volevo distogliere dal suo lavoro, ma tuo padre ora sta male – disse la mamma piangendo – potrebbe non farcela stasera!”. Rufus si era appena svegliato, forse non capì bene la situazione, forse la sbornia del giorno prima non gli fece realizzare cosa stava succedendo. Era lì e se ne uscì con un “Dai mamma che papà è forte e ce la farà – disse assonnato – non posso non fare questo concerto, è troppo importante per la mia carriera”. Ed infatti il concerto fu strepitoso, le donne erano in delirio, tutti cantavano le sue canzoni, lui si buttò sul pubblico e si fece trasportare dalle mani dei ragazzi che erano lì sotto di lui. Dopo che il concerto finì, esausto, ma sorridente, Rufus tornò nella sua stanza di albergo, con l’ennesima ragazza che voleva conoscerlo, e che potrà dire alle amiche di essere andata a letto con l’attuale icona del rock italiano. Tornò a casa e ascoltò la segreteria telefonica. Sul viso non aveva più il sorriso di una sfida vinta, non aveva più l’entusiasmo e la grinta di cinque minuti prima; la notizia della morte del padre lo trafisse. In pochi secondi nella sua mente apparvero i grossi baffi neri del papà, la chitarra, la prima, che il padre gli regalò quando era bambino, l’immagine del padre esausto dopo una giornata di lavoro, che si mette davanti alla tv per vedere il video del figlio su Mtv oppure vedere l’esibizione al festivalbar. E lui dove era? Rufus era a fare un concerto mentre il padre stava morendo. Non era riuscito neanche a dirgli ciao per l’ultima volta, non era riuscito neanche a dirgli grazie per i sacrifici che aveva fatto. Si guardò allo specchio, con tutto quel trucco sul viso sfatto, la faccia stanca, con una sconosciuta nel suo letto, era solo. Solo perché aveva abbandonato gli amici di un tempo, solo perché suo padre non c’era più, solo perché aveva rinnegato il suo stato di figlio per il Dio denaro, per il successo, per volere sempre di più e non accontentarsi mai. Prese la macchina, di corsa, senza riflettere. Voleva stare con la sua famiglia per dare l’estremo saluto a chi aveva per primo creduto in lui. Erano le cinque del mattino, era stanco, assonnato. “Ricordi ora come sei morto?”. Chiese Beatrice. Era morto così, banalmente. Si era addormentato alla guida della macchina. Si era sfracellato contro un guardrail aduna velocità assurda. “io ho cercato di starti dietro – disse Edmondo – tu non mi vedevi ma io c’ero, ci sono stato nella tua vita, una volta mi ha riconosciuto lì sul mare con il tuo babbo”. Piangendo Rufus capì perché sentiva di conoscere quell’uomo. “Ero lì – disse Edmondo – perché sapevo di incontrarti là, ho cercato di darti la sensazione che provi ora, perché Dio nella sua onniscienza dà una possibilità a tutti. Tu non l’hai capita, però. Ti sei fatto trasportare dal tuo ego”. Rufus piangeva, aveva perso un’occasione, aveva ora un grande senso di vuoto dentro di sé. Aveva capito di aver perso l’unica possibilità per essere felice e ora sarebbe stato dannato per l’eternità, aveva disonorato il padre. Tra quest’ultimo e il denaro aveva scelto quest’ultima cosa. “Ma perché! Ma perché??!”esclamava Rufus, a gran voce. Senti di nuovo un rombo. Il treno era di nuovo lì e questa volta si fermò. Scese una persona. Rufus la guardò. Era il padre e lui gli corse in contro. Lo abbracciò come quando aveva due anni e aveva paura di certe scene che si vedevano in tv. Si aggrappava al padre ora come allora. “Perdonami papà!”, implorò il figlio guardando il padre. “Rufus come faccio a non perdonarti?”, disse il padre, guardando misericordioso l’ex rockstar. “E ora di andare – disse Beatrice – il treno aspetta voi, Edmondo ti guiderà alla tua destinazione, non potrai godere della luce di Dio”. “Papà, non ti vedrò mai più”, disse Rufus. “Non ci separeremo – disse il padre – io verrò con te”. Il padre decise di andare con lui tra i dannati, aveva scelto l’amore del figlio, rifiutando l’amore di Dio. Salirono tutti e tre sul treno.
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