chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Silvio Mancinelli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Il treno che non passa più

“Ma dove sono?” , pensò Rufus quando si svegliò su una fredda panca di quella che sembrava essere una stazione ferroviaria. Tutto intorno vi erano piastrelle bianche, di un candore unico, due binari che si intrecciavano. La sveglia fu data dal rumore di un treno in partenza, per dove non si sa, dato che il tabellone luminoso non segnava il benché minimo orario. Al suo fianco una donna, Beatrice. Lunghi capelli mossi, labbra carnose e carnagione simile al caffé e latte, proprio il tipo che piaceva a Rufus. Anzi le ricordava qualcuna, ma non riusciva a ricordare chi.
“Ciao – disse lei – ben svegliato”.
“Ma dove sono?”, disse un intontito Rufus.
“Sei in una stazione no? Probabilmente aspettando un treno che doveva arrivare, e evidentemente non è più arrivato, ti sei addormentato”.
“ A dir la verità non ricordo di dover prendere un treno…ricordo che ero ad una festa, però in questo momento ho un vuoto assoluto. Sarà stato tutto quel rhum che è volato sui tavoli”. Rispose l’uomo. E chiese alla donna dal viso familiare: “Eri anche tu alla festa?”.
“Quale festa!”, disse Beatrice quasi stizzita. “ Sono qui e aspetto il mio turno, ma ancora nulla, sembra secoli che sono qui!”.
“Bè in Italia, siamo famosi per i ritardi dei treni, forse sono in sciopero di nuovo e non lo hanno detto – continuò Rufus – la cosa strana è che non c’è nessuno, neanche un capostazione, qua è tutto da rifare.. comunque io mi chiamo Rufus e tu?”.
“Io Beatrice, molto piacere”. Aprendo quella bocca per fare un sorriso, Rufus ebbe come un flash back che gli portò in mente l’immagine di una coppia felice, intorno ad una nebbia. Non riusciva a distinguere né il volto dei due personaggi, né il paesaggio che li circondava. Mentre cercava di mettere a fuoco quel frammento di immagine, sentiva una canzone di un gruppo inglese che nel loro r’n’r chiedevano all’ascoltatore; “ Do you fell alive? Can you fell alive?”.
Rufus si alzò in piedi e si mise a cercare una uscita ma invano, sembrava che quella struttura non avesse uscite di nessun tipo. “ L’unica via di uscita è prendere il treno – disse forte Beatrice da lontano – non ci sono altre vie, fidati di me”.
Rufus non riusciva proprio a capire, si trovava in una situazione paradossale: doveva prendere un treno che non sapeva di dover prendere, si trovava in una stazione deserta a parlare con una donna che sapeva di conoscere, ma non ricordava dove l’aveva conosciuta.
“Beatrice, aiutami a capire questa situazione, per favore”, chiese Rufus ripregando la donna.
“Va bene, tanto qui sembra che il tempo non passi mai, almeno ammazziamo il tempo”, rispose Beatrice, alzandosi dalla poltroncina della sala di aspetto, accompagnando l’uomo in un posto più comodo dove parlare.
Beatrice allora propose a Rufus di parlare un po’ di lui, della sua vita e di quello che faceva. Rufus cominciò a raccontarsi a quella donna misteriosa.
Rufus non sapeva da dove cominciare. Il suo intento era spiegare a Beatrice gli ultimi accadimenti, ma non riusciva proprio a ricordarli. Ed allora era meglio cominciare dall’inizio, forse, parlando un po’ della sua vita, sarebbe riuscito a riprendere le redini dei suoi ricordi. Il suo racconto cominciò. “ sono di una piccola città che di nome fa Sulmona”.
“Quale è la prima cosa che ti viene in mente, quando pensi alla tua città?” chiese Beatrice come se fosse una psicologa modello.
Rufus era indeciso nella risposta da offrire alla giovane donna: “Forse la mia infanzia, quando tutto era bello, senza problemi e io tornavo a casa da mamma a mangiare”.
“Che lavoro fai?”, chiese la modella psicologa.
“Faccio un normalissimo lavoro da impiegato, però non è mai stata la mia ispirazione”, ammise Rufus.
Beatrice domandò il perché.
“Il fatto di avere un lavoro sicuro certo ti permette alcune cose che altrimenti non potresti fare o ottenere. Non ti posso nascondere che il lavoro ti dà serenità, almeno fino a quando va tutto bene – continuò Rufus con un sospiro – però io avrei voluto far altro. Che cosa? Non so in effetti. Forse qualcosa legata alla musica, qualcosa che avrebbe aiutato la mia Valle a crescere, ma molti progetti sono stati bocciati”.
“Beh non è sempre facile essere quello che si vuole essere. Però provare è quello che sempre bisogna fare”, disse Beatrice.
“ e tu sei riuscita a fare quello che volevi nella vita”, chiese Rufus.
Beatrice ci pensò e poi rispose: “Ho sempre voluto trovare un lavoro che poi avrebbe aiutato gli altri”.
“Ci sei riuscita?”, chiese Rufus, incuriosito.
“Credo di sì”, rispose Beatrice.
“cosa fai la psicologa? La analista?”, tentò di indovinare l’uomo.
“Diciamo di sì. Accompagno le persone verso una nuova via, è un lavoro un po’ stancante e lungo, però alla fine paga. Far vedere cosa è successo nella loro vita, riflettere sulle loro scelte, la ritengo un’ottima terapia”.
Ad un certo punto Beatrice lo guarda negli occhi e con sguardo indagatore si avvicinò verso il suo volto per studiarne le linee del volto.
“Che stai facendo”, chiese imbarazzato Rufus.
“Sto osservandoti, perché è dall’osservazione che nasce il giudizio”, disse lei.
“Bè tu vuoi dire che basta vedere i volti per capire chi sei?”, chiese lui attendendo una risposta in merito.
“Si riesce a capire molte cose – disse Beatrice dalle lunghe ciocche – tu potresti non accorgertene. Ma i tuoi lineamenti, il tuo sguardo e questi tuoi occhi, denotano una certa infelicità nella tua vita. Come se ti fosse mancato qualcosa fino ad adesso. Dai ragazzo, pensa positivo”.
La conversazione si interruppe da un suono, un suono acuto che si espanse per tutta la stazione dalle pareti bianche.
“Cosa è questo suono?”, chiese Rufus.
“Sta passando un treno”, disse Beatrice.
“Oh finalmente, posso prenderlo così mi riporterà nella mia città. Sempre che io riesca a capire dove io sia”, disse Rufus.
“Credo che questo treno non si fermerà qui”, ribattè la donna.
Rufus si girò verso di lei e disse: “Che sei la figlia del capo stazione?”.
“No, ma lo so!”, un sorriso di Beatrice colpì lo sguardo di lui.
Rufus si alzò in segno di sfida; non volendo dare ragione a una donna che sembrava aver tutte le risposte ad ogni sua domanda, il giovane alzò la voce, proporzionalmente all’aumentare del rumore del treno che stava avvicinando: “mi sono rotto di stare qui, in un posto che neanche so come ci sono arrivato. È una stazione ferroviaria giusto? Ed allora questo treno si fermerà qui e mi farà salire”. Rufus si avvicinò ai binari, nel punto in cui, secondo lui, il treno si sarebbe dovuto fermarsi. Sembrava che il treno stesse rallentando, e quindi si girò verso Beatrice con un ghigno soddisfatto, ma notò che il sorriso della donna era più beffardo del suo. Il tempo di girarsi verso il treno e capì che i vagoni stavano accelerando e che il treno non si sarebbe fermato.
A quel punto guardò il tabellone della stazione e lo trovò ancora senza un riferimento a un treno in partenza o in arrivo, senza un orario, senza un annuncio di scioperi, o di altro.
Furiosamente si avvicinò verso la donna, e la scosse: “Tu sai che sta succedendo, dimmelo!”, disse l’uomo.
“Tutto rimarrà così finchè non lo ammetterai” disse Beatrice
“Ammettere che cosa? Ammettere che cosa, dimmelo!”, Rufus era fuori dalla grazia di Dio
“Più che ammettere, capire che sei morto”.

La mattina in cui si svegliò per l’ennesima volta a Sulmona, era una mattina come tutte le altre. Il più delle volte nella sua città pioveva e l’umidità si aggrappava a quelle giovani ossa che costituivano il corpo di Rufus. Si trattava infatti di un impianto che sorreggeva un falso magro. Rufus era un ragazzo sulla trentina che cercava di mantenere quel peso forma che madre natura, insieme al Dna dei suoi genitori, aveva concesso a lui.
Un problema quello del fisico con il quale il giovane sulmonese ha avuto sempre qualche problema. Non si trattava solo del peso, ma anche della salute. Fin da piccolo Rufus si era riscoperto un bimbo fragile dal punto di vista sanitario. Una tosse che lo ha sempre tormentato e l’influenza sempre ciclica che lo colpiva soprattutto nei momenti critici della sua vita, o in vista di un appuntamento importante. Il clima sulmonese poi faceva il resto. Nonostante la città sia situata in una Valle, appunto la Valle Peligna, poco importava, le montagne, infatti, non creavano difese dalle intemperie e il caldo tardava sempre a farsi sentire. La vita di Rufus è sempre stata tranquilla nella sua città. Regolarmente si svegliava la mattina alle 6.30 e si preparava in tempo per arrivare a prendere l’autobus che lo avrebbe portato al lavoro. Era in buona compagnia. La mattina presto erano molti i lavoratori che da Sulmona prendevano le varie direzioni per guadagnarsi la pagnotta per sé e per la propria famiglia. Ed anche quella era diventata una famiglia “sui generis”, fatta di tanti mogli, figlie e padri. E lui si sentiva parte di questa famiglia che mangiava una cosa a volo a pranzo in una pizzeria o che facevano la fila alla mensa convenzionata con l’azienda di appartenenza. Si sentiva soprattutto libero di pensare e dire quello che voleva, perché quando non ci sono vincoli, quando sei no dei tanti, la comunità di accetta per quello che sei e che afferma, sennza pregiudizi. I problemi rimanevano dentro la cerchia della Valle, e lì lo aspettavano quando tornava la sera.
Dai problemi non si scappa, questo Rufus lo sapeva.
Rufus ha vissuto tante vite, è stato Rufus il bambino, Rufus l’introverso, Rufus il lavoratore e sarebbe diventato Rufus il contestatore.


Rufus il bambino


Era un pazzo Rufus da piccolo. Piangeva e strillava come un ossesso. La mamma preoccupata chiamava spesso il pediatra, perché il bimbo, leggermente rompicoglioni per i vicini, non riusciva neanche a respirare, troppa era l’agitazione. Il suo respiro si faceva pesante e affannato e il suo viso esprimeva solo dolore. Non era niente di importante alla fin fine. Rufus era egoista, concentratore e da figlio unico aveva come unico scopo quello di avere tutto per sé. Il bimbo era piccolo ma con le idee chiare. Anzi a ben vedere sarebbe stato più lucido in quella età che dopo, quando l’innocenza non c’è più e quando a governare sono le macchie dei peccati commessi. A quel tempo invece si è puri, e l’unico istinto che guidava un bimbo alla Rufus, erano i sentimenti primordiali dell’uomo: spirito di sopravvivenza a danno dei suoi coetanei e il più “nobile” sentimento umano, cioè l’avere tutto per sé e non lasciare nulla agli altri. Questo sentimento rimane anche nelle età successive ma si sposa con freddi calcoli come l’ambizione e il profitto personale.
Il bimbo era taciturno, pacifico e libero da vincoli parentali di grande livello. Libero da vincoli parentali di grande livello, si intende soprattutto la inesistenza di quei fratelli e sorelle rompicoglioni, che obbligano a dividere in due le stanze, a dividere vestiti e giocattoli e personal computer. Che ti impediscono di poter cantare a squarciagola e che ti impediscono di parlare al telefono perché è già impegnato e più di una linea a casa non si può avere.
Il bimbo Rufus sembrava non volesse mai venire fuori dalla pancia della mamma. Stavi lì beato a pensare ai fatti suoi, al caldo, protetto e senza problemi. Finchè un giorno un dottore, il primo di febbraio non decise che anche quel bimbo avrebbe dovuto assaggiare le amarezze della vita terrena. E così fu. Per quanto era arrabbiato per questa scelta non sua, con il suo piccolo pisellino da fuori, non pianse neanche per non dare troppa soddisfazione a quegli uomini mascherati con camici bianchi e verdi. Ma il dottore fu cattivo e decise che il bimbo doveva piangere e gli procurò dolore. Quello fu il primo pianto di Rufus: grandi gocce amare scendevano copiose da suo viso, per la gioia di tutti, anche della mamma che si tolse un peso. Rufus non ebbe una infanzia troppo diversa dai suoi compagni di sventura. Dormiva, mangiava, dormiva di nuovo, aveva le coccole e gli schiaffi, riceva parole dolci e cattive, in base a quello che combinava. Non aveva comunque troppa coscienza di quello che era, di dove stava, di quello che forse gli toccava da fare, ma era lì senza sapere se doveva essere contento oppure doveva essere infelice. Della sua infanzia salvò però l’immagine di una sua vacanza con i suoi genitori. Era l’estate del 1987. lui aveva 10 anni e sapeva che pensare, o meglio non aveva mai avuto bisogno di pensare. I suoi genitori lo portarono al mare, nel sud Italia. Era la prima volta che quel bimbo andava in un posto con i suoi genitori dove non conosceva nessuno, dove sarebbe stato impossibile incontrare qualcuno della sua città, dove l’ambiente che lo circondava era diverso da quello familiare. Era la fine di quella vacanza e si ritrovava a salutare il mare. Non era un amante dell’acqua, non sapeva neanche nuotare a quella età. Ma quella sera, la sera che precedeva il suo ritorno in patria, sentì per la prima volta una tristezza nel cuore. “che mi sta succedendo? Perché sono triste?”. Non se lo sapeva spiegare il bimbo. Mentre era lì in piedi alla riva, con il padre vicino con i suoi baffoni neri che lo teneva per mano, un’onda si avvicinava come se lo volesse salutare. Sulla sua sinistra, poco lontano, un anziano uomo si trovava lì a fare la stessa cosa. Si diceva che quell’uomo erano dieci anni che la sera, quando poteva, si fermava ad ammirare quello spettacolo:il mare piatto, il sole che scompare all’orizzonte. Si diceva che l’uomo era ammalato d’amore e che si rivolgeva al mare, affranto dal dolore, per l’amore scomparso, chiedendosi il perché. L’uomo si sentì osservato e si rivolse per un momento verso quel bimbo. Rufus guardò quegli occhi e sembrava di riconoscerli, e l’anziano uomo accennò ad un sorriso che sapeva tanto di un: “Sai chi sono e ora mi capisci”. Rufus si strinse verso il padre, che senza guardarlo gli passò le mani tra i capelli come a rassicurarlo. A 10 anni, Rufus sentì per la prima volta un vuoto inspiegabile nella sua vita. Quella tristezza se la portò dietro per tutto il viaggio senza sapersela spiegare. Una cosa però aveva capito, in qualche maniera, aveva deciso che in quel posto ci sarebbe ritornato.
Ma come era la gente quando Rufus era piccolo? I bimbi non stanno a guardare le persone con secondi fini. Alla fine sono come i cani per i padroni. Pensano quello che vedono, e quindi dipende dal “padrone” non trattarlo male. I bimbi e quindi lo stesso Rufus non credevano che nel mondo ci potessero essere uomini cattivi come nelle serie giapponesi di manga che proponevano in tv. Lui erano nato a pane e Mazinga Z. vedeva Tiger Man allenarsi duramente nella tana delle Tigri, lasciare quel posto per combattere contro chi aveva sposato il male. Pensava che anche nella realtà ci fosse una armatura come quella dei Cavalieri dello Zodiaco che potesse difendere l’umanità dal santone maligno. Vedeva in Ken il guerriero un possibile uomo che potesse apparire da un momento all’altro. Lui, nato con la televisione che lo ha cresciuto e fatto da baby sitter alla sua generazione, non era impressionato nel vedere popoli falcidiati dal dittatore di turno: da un punto di vista visivo vedere l’Immortale Lambert tagliare la testa era uguale alle scene viste nei tg, quando i genitori decidevano di volerlo vedere. La differenza era che forse in questo ultimo caso c’era meno sangue. Lui vedeva quello che gli occhi gli facevano vedere. Vedeva gente sorridente, vedeva intorno a lui gente allegra, gente che poteva essere felice. Si sarebbe accorto più avanti che non era così e che anche lui non sarebbe stato felice. I bambini ricevono tanti regali e lui non era da meno. Scatole e scatole di Lego, le costruzioni del pensiero. Lo facevano in pochi e lui era uno di quelli: strappava le istruzioni e costruiva l’astronave come voleva lui. Tra i modelli dei Lego, non vi erano sicuramente quelli che ritraevano la vita reale, i preferiti di Rufus. La fantasia regnava in lui, nonostante fosse ancora un bambino, pensava che qualcosa in più doveva esserci oltre quel mondo, che tramite la tv aveva imparato a conoscere. Uomini con poteri straordinari, essere diversi da quelli che erano stati censiti fino a quel momento. Poter viaggiare con la sua mente e con la sua immaginazione lo portava a credere che sarebbe diventato un esploratore. “Mamma voglio essere uno che gira il mondo e lo spazio”, diceva alla sua genitrice. Più tardi avrebbe capito che era meglio viaggiare con la mente che vedere tutte quelle porcate che succedevano nel suo mondo.
Aveva un amico immaginario, Rufus. La cosa quando lo faceva alquanto ridere, quando ripensava alla sua giovinezza. Un elettrodomestico come baby sitter, un personaggio inventato come amico. Si chiamava Peppe, il suo amico. Era uno fico, uno che poteva avere tutte le ragazzine che voleva. Forse un po’ presuntuoso e prepotente, questo Rufus glielo faceva sempre notare, ma lui diceva: “Ehi, fratello, vuoi il successo? Devi essere come me”. I discorsi sulle ragazzine erano i temi preferiti delle loro conversazioni.
Aveva 12 anni e Rufus si sentiva attratto dalle ragazzine. Il suo “ego” si faceva sentire spesso e le lenzuola bagnate, dopo aver capito che non si faceva la pipì a letto, significavano che anche il suo corpo chiedeva una svolta nella sua vita. Ma lui non era il tipico ragazzino che piaceva. Era infatti un mezzo sfigato. Era bruttarello, era uno di quei ragazzini che spesso passano inosservati e al massimo riescono a strappare una amicizia. Peppe gli spiegava che era colpa sua. “Rufus, sentimi un attimo – diceva il suo amico – le donne sono delle egoiste del cazzo. Ti trattano da amico finchè non trovano lo spasimante, ti portano in alcuni luoghi che non avrebbero mai frequentato”.
“ti è mai capitato di sentirti dire cose del tipo: Rufus perché non andiamo in quella sala giochi”, chiese Peppe al ragazzino.
“Hai ragione, e mi sono pure chiesto il perché a quella lì, che aveva sempre disprezzato il Devil Game, mi ha chiesto ti andarci tutta entusiasta”, si chiese dubbioso il ragazzo.
“Perché là c’era uno che gli interessava, hai capito adesso?” disse Peppe spiegando poi la sua teoria.
“Allora i ragazzi, e lo spiego una volta sola, si dividono in tante categorie. Allora ci sono gli uomini zerbini, quelli si prostrano a qualunque tipo di umiliazione pur di star vicina a una ragazza che gli piace. A questa ragazza però non piaci e lei ti usa per i suoi comodi. Peggio dei zerbini lo sai chi c’è?Non lo sai? Te lo dico io. Ci sono i driver. Tu sei ancora piccolo e non puoi guidare però quando sarai grande, e nessuna ti si filerà, ti vanterai che quella bella ragazza ti ha chiamato e l’andrai a prendere. Ma a lei di te non gliene frega nulla, vuole solo usarti e usare la tua macchina. Tu la porterai dovunque, fino alle 5 di mattina, poi ti ritroverai a casa da solo e magari lei ad un certo punto della serata ti dirà che qualcuno la riporterà a casa”. Ci fu un attimo di silenzio perché Peppe vedeva lo sguardo dubbioso del giovane e reale amico. Ma poi riprese con una domanda: “Tu lo sai che farai in quel caso?”. Disse Peppe.
“Non lo so”, disse Rufus.
“Rosicherai!”.

Ad un certo punto la terra tremò e il pavimento, mentre Rufus barcollava, si aprì come d’incanto. Dal fondo del pavimento uscì una figura. Era impossibile tratteggiarne la figura del volto, era un ectoplasma, ed attraverso questa immagine Rufus riusciva a vederci attraverso. “Ma cosa è” chiese Rufus rivolgendosi a Beatrice, la donna che gli stava tenendo compagnia in quel trapasso.
“E’ un anima, Rufus, è qui per te”, disse la donna.
“Non ha volto – continuò la musa del defunto – perché il volto glielo dai tu”.
Ed infatti Rufus, guardandolo attentamente, riuscì a capire chi era: si trattava di un piccolo politico della sua città. Uno di quelli che si vantano di essere il nuovo ma poi sono il vecchio.
“Sei veramente tu”, chiese Rufus.
“Si caro Rufus, sono Edmondo Sforza, o almeno lo ero, ed ho governato Sulmona, quando tu eri in vita. Ho fatto tutta la carriera politica che c’era da fare: consigliere, sindaco per ben due volte, assessore comunale, provinciale e regionale. Non sono riuscito mai ad arrivare al Parlamento, ma non mi è dispiaciuto, meglio essere uno che conta nella tua terra d’origine che essere uno qualunque a Roma”.
“Ma da dove sbuca?”, chiese Rufus a Beatrice.
“Lui sbuca dal nulla. In questo mondo non esistono punizioni né premi, esiste la vita eterna e basta. La differenza è che i beati, coloro che hanno vissuto una vita “magnifica”, si troveranno a vivere nella grazia di Dio. Godere della sua visione, poter rivivere i propri pensieri felici, come se stessero per accadere ora, mentre chi si p comportato male, vivrà eternamente nei rimorsi. Sentirà, finchè questo Regno vivrà, le grida e il dolore di chi ha ricevuto del male da questa gente. Sentirà il peso si di sé, delle sue gravi azioni. Non se ne può fregare, perché questa reazione è la punizione che gli spetta”. Spiegò Beatrice in maniera esaustiva.
“Caro Rufus – disse Edmondo – rivolgiti a me con delle domande, devo rispondere per forza perché le regole di questo Regno sono queste, mio malgrado”
“Edmondo ho da chiederti tante cose…vediamo da dove cominciare – chiese Rufus – vorrei tanto sapere perché avete rovinato la fiducia degli italiani nei vostri confini, perché avete sperperato e rubato”.
“Caro amico mio sulmonese, che dire?”, disse Edmondo, “Mi ritrovo in una posizione nella quale non posso non risponderti. Mi trovo nella posizione di dirti che quando ti ritrovi in quel ruolo, su una poltrona comoda e in pelle, larga tanto da poterci dormire, mangiare e fare altro, aumenta il tuo ego, sei impossessato dal delirio di onnipotenza”.
“Mi sembra che dai la colpa a tutti tranne che a te stesso, caro Edmondo. Mi ricordo di te quando ero piccolo e tu facevi il bello e il cattivo tempo nella mia città, davi una carezza a uno e facevi un favore un altro. Si sapeva chi lavorava quando eri tu a governare. È un caso questo? Non credo!”.
“Rufus mi ricordo di tuo padre, un uomo umile, un lavoratore, ricordo al suo funerale quante persone sono venute. Poi ho visto te crescere. Cosa penserebbe tuo padre di te?”.

Rufus da giovane
Rufus fu preso da uno sconforto, come quando arriva una brutta notizia inaspettata. Una di quelle notizie che ti fanno cadere e perderti in te e non ti permette di rialzarti. In effetti il rapporto di Rufus non era stato dei più felice. Il padre di Rufus, infatti, era un camionista, un uomo, come tutti dissero di comune accordo tra gli astanti al suo funerale, generoso. Un pregio riconosciuto anche da suo figlio, ma chissà perché la vita è così complicata. Più ci si prodiga per i figli più questi rispondono picche, rispondono che non vogliono l’aiuto, né il consiglio dei propri genitori, arrivano anche ad odiare chi li ha messo al mondo.
Fu infatti il padre di Rufus a regalare a quest’ultimo una chitarra classica da 70 euro. Una chitarra piccola, facilmente trasportabile e da viaggio. Rufus aveva circa 15 anni. Al suo compleanno, il primo febbraio del 1977, il padre tornò da uno dei suoi viaggi con il camion dalla Spagna. Davanti al piazzale della Magneti Marelli, dove il padre parcheggiava il camion, Rufus e la mamma aspettavano il camionista baffuto, che, una volta parcheggiato, aprì il portellone del suo mezzo e tirò fuori un regalo per il ragazzo.
“Tieni, così avrai un sacco di successo con le donne, quando sarai più grande!”, disse il padre del giovane tutto fremente. Faceva freddo, essendo febbraio, ma Rufus aveva caldo, forse era l’impazienza di sapere cosa il padre gli aveva regalato. Prima diede una botta delicata al pacco incartato che suonò vuoto e poi senti delle note stonate.
“Papà, GRAZIE!!”, esclamò il neo chitarrista vedendo il suo strumento.
“Ricorda, con questo potrai dire tutto quello che vuoi – gli spiegò il camionista stanco per il lungo viaggio, fatto solo per stare il giorno del compleanno vicino al suo ragazzo – suonala forte, fai sentire quello che pensi e che senti, non ti far influenzare da nessuno”.
“Stai cominciando a ricordare Rufus – disse Edmondo – ricordi quello come sei passato dalla età dell’innocenza a quella della vergogna?”.
Era il 1992, un anno di grazia per la musica e disgraziato per l’Italia, quante certezze crollarono in quell’anno! Tutti i politici arrestati o pronti a suicidarsi per la vergogna di essere messi alla gogna da un pool di magistrati all’assalto della diligenza e della dirigenza italiana. Ma a Rufus queste cose non toccavano, lui era davanti allo stereo, con la sua chitarrina a fare il giro di do, a cercare di trovare a orecchio gli accordi di una canzone dei Pavement e dei Pearl Jam. Era la chitarra autografata dal suo papà e si era impegnato a imparare. Per fare meglio andò anche a scuola di canto che a scuola di chitarra, perché dove non arriva il talento arriva la cultura.
Stava lì a suonare e successe una cosa: la mamma gli chiese un favore che lui non voleva fare, dal favore passò al comando, a quel punto Rufus, arrabbiato lasciò il suo strumento e portò l’immondizia al secchio che era situato all’inizio del suo viale. Mentre andava gli ronzavano due parole nella mente: “Non si fa così, io voglio di più di così”. Subito dopo andò a casa e prese la sua stupenda ragazza e cominciò a strimpellarci sopra a quelle due parole. In poco tempo Rufus aveva fatto la sua prima canzone. Una canzone punk, veloce e leggera che coglieva la rabbia di quel momento. Un testo senza censurarsi perché il padre gli disse che poteva dire tutto quello che voleva in una canzone.
“Eri felice allora, vero Rufus!”, disse Edmondo distogliendolo dai suoi ricordi.
“Ma tu puoi leggermi nella mente?”, chiese uno stupefatto Rufus.
Gli rispose Beatrice che per tutto il tempo era rimasta in silenzio a sentire quello che i due si stavano dicendo: “Non solo legge i tuoi pensieri, ma noi li stiamo rivivendo con te e tu non solo li stai ricordando, ma ci sei proprio dentro anche se non puoi interferire e cambiare qualcosa”.
Infatti in men che non si dica Rufus era lì sul palco a vedere se stesso e gli altri ragazzi della sua band a suonare, a buttare il sudore per piacere del pubblico. Si ricorda le prime esperienze davanti a venti persone, a quelle persone che lo insultavano, ma lui faceva finta di niente. “E poi che è successo ? –chiese Edmondo – guarda come la tua vita è cambiata quanto la mia”.
Rufus rivede la scena in cui ebbe successo. Quella in cui una major decise di metterlo sotto contratto e di farlo suonare con dei musicisti seri. Il momento in cui il grande dirigente della casa discografica gli aveva imposto un certo look, una strada diversa musicalmente parlando, e tour perenni. Rufus non sapeva che fare, ma il denaro, il successo, fanno il resto. Rinnegò gli amici con cui aveva costruito il percorso musicale,rinnegò i genitori che non riuscì più a vedere, in quanto Sulmona, la sua città, era lontana da Milano, dove suonava, doveva registrare.
Da quando vinse SanRemo, con un titolo sul quale ci avrebbe sputato su, mesi prima, cioè “Bambina, amore mio”, la sua vita era cambiata. I soldi ne erano tanti, la popolarità era all’apice. Tanto è vero che per portare le lettere delle fan ci voleva un camioncino. Ovviamente lui non le leggeva perché c’era chi lo faceva per lui. Il suo staff rispondeva per lui, con le lettere, faceva i post sul suo my space. Rispondevano alle domande dei vari giornali musicali. Lui praticamente, queste erano le parole del suo manager, “ doveva pensare solo a suonare”. Aveva tutto, donne come non mai (anzi lui era un povero sfigato, vergine fino all’età di 28 anni e per questo andò con una puttana, perché una rockstar non poteva essere vergine), soldi, fama e successo. Ma mancava qualcosa. Era l’affetto dei suoi casi, che non riusciva a sentire più. I suoi orari erano tali che non gli permettevano neanche una telefonata e quelle poche volte che sentiva i suoi genitori si metteva a piangere. Non riusciva neanche più a scrivere una canzone, perché non vivendo più, vedendo solo le mura degli alberghi in cui stazionava, non avendo più il rapporto con il pubblico, se non durante i concerti, non aveva stimoli ne idee. infatti il suo manager gli trovò un paroliere, un autore che scrivesse per lui.
Ma ecco che Edmondo e Beatrice lo guardarono e gli dissero: “ora ricordi”. Si ricordava. Era un giorno qualunque di un qualunque anno. Rufus non sapeva più neanche in che tempo viveva. Doveva fare il suo primo grande concerto a San Siro. Attesi 20.000 ragazzi. Il concerto della consacrazione. Era sull’autobus che da Venezia, dove si era esibito due giorni prima, lo avrebbe portato a Milano. Ricevette una telefonata. Era la mamma che gli comunicò la malattia del padre. “In questi mesi non ti ho voluto disturbare, perché non ti volevo distogliere dal suo lavoro, ma tuo padre ora sta male – disse la mamma piangendo – potrebbe non farcela stasera!”. Rufus si era appena svegliato, forse non capì bene la situazione, forse la sbornia del giorno prima non gli fece realizzare cosa stava succedendo. Era lì e se ne uscì con un “Dai mamma che papà è forte e ce la farà – disse assonnato – non posso non fare questo concerto, è troppo importante per la mia carriera”. Ed infatti il concerto fu strepitoso, le donne erano in delirio, tutti cantavano le sue canzoni, lui si buttò sul pubblico e si fece trasportare dalle mani dei ragazzi che erano lì sotto di lui.
Dopo che il concerto finì, esausto, ma sorridente, Rufus tornò nella sua stanza di albergo, con l’ennesima ragazza che voleva conoscerlo, e che potrà dire alle amiche di essere andata a letto con l’attuale icona del rock italiano. Tornò a casa e ascoltò la segreteria telefonica. Sul viso non aveva più il sorriso di una sfida vinta, non aveva più l’entusiasmo e la grinta di cinque minuti prima; la notizia della morte del padre lo trafisse. In pochi secondi nella sua mente apparvero i grossi baffi neri del papà, la chitarra, la prima, che il padre gli regalò quando era bambino, l’immagine del padre esausto dopo una giornata di lavoro, che si mette davanti alla tv per vedere il video del figlio su Mtv oppure vedere l’esibizione al festivalbar. E lui dove era? Rufus era a fare un concerto mentre il padre stava morendo. Non era riuscito neanche a dirgli ciao per l’ultima volta, non era riuscito neanche a dirgli grazie per i sacrifici che aveva fatto. Si guardò allo specchio, con tutto quel trucco sul viso sfatto, la faccia stanca, con una sconosciuta nel suo letto, era solo. Solo perché aveva abbandonato gli amici di un tempo, solo perché suo padre non c’era più, solo perché aveva rinnegato il suo stato di figlio per il Dio denaro, per il successo, per volere sempre di più e non accontentarsi mai.
Prese la macchina, di corsa, senza riflettere. Voleva stare con la sua famiglia per dare l’estremo saluto a chi aveva per primo creduto in lui. Erano le cinque del mattino, era stanco, assonnato.
“Ricordi ora come sei morto?”. Chiese Beatrice.
Era morto così, banalmente. Si era addormentato alla guida della macchina. Si era sfracellato contro un guardrail aduna velocità assurda.
“io ho cercato di starti dietro – disse Edmondo – tu non mi vedevi ma io c’ero, ci sono stato nella tua vita, una volta mi ha riconosciuto lì sul mare con il tuo babbo”. Piangendo Rufus capì perché sentiva di conoscere quell’uomo. “Ero lì – disse Edmondo – perché sapevo di incontrarti là, ho cercato di darti la sensazione che provi ora, perché Dio nella sua onniscienza dà una possibilità a tutti. Tu non l’hai capita, però. Ti sei fatto trasportare dal tuo ego”.
Rufus piangeva, aveva perso un’occasione, aveva ora un grande senso di vuoto dentro di sé. Aveva capito di aver perso l’unica possibilità per essere felice e ora sarebbe stato dannato per l’eternità, aveva disonorato il padre. Tra quest’ultimo e il denaro aveva scelto quest’ultima cosa.
“Ma perché! Ma perché??!”esclamava Rufus, a gran voce.
Senti di nuovo un rombo. Il treno era di nuovo lì e questa volta si fermò. Scese una persona. Rufus la guardò. Era il padre e lui gli corse in contro. Lo abbracciò come quando aveva due anni e aveva paura di certe scene che si vedevano in tv. Si aggrappava al padre ora come allora.
“Perdonami papà!”, implorò il figlio guardando il padre.
“Rufus come faccio a non perdonarti?”, disse il padre, guardando misericordioso l’ex rockstar.
“E ora di andare – disse Beatrice – il treno aspetta voi, Edmondo ti guiderà alla tua destinazione, non potrai godere della luce di Dio”.
“Papà, non ti vedrò mai più”, disse Rufus.
“Non ci separeremo – disse il padre – io verrò con te”.
Il padre decise di andare con lui tra i dannati, aveva scelto l’amore del figlio, rifiutando l’amore di Dio.
Salirono tutti e tre sul treno.





Id: 242 Data: 25/09/2008 15:06:52

*

Pensiero sull’amore

Piange il telefono. si parla d’amore. Le canzoni italiane sono piene d’amore. L’amore è veicolo attraverso il quale si sono espressi i maggiori autori e i peggiori autori, quelli che pensavano che bastava scrivere della più alta emozione, per ritenersi bravi scrittori. Dante parlava dell’amore sia verso Dio sia verso Beatrice, Ovidio parlava dell’amore e dell’arte di amare. Credo che se Catullo, Ovidio o Dante avessero saputo dell’istituzione di una giornata degli innamorati, si sarebbero ribellati, perché si entra nella mercificazione di un grande sentimento. Però noi lo cantiamo in vari modi l’amore, pensiamo al Battisti dei bei tempi, oppure a Manuel Agnelli che è sempre stato per un amore più concreto con il suo “scopami tra fiori urlanti”. La maggior parte si noi si sbatte per cercare l’amore, alcuni, fortunati loro, se lo ritrovano sempre, perché la loro bellezza è meglio di tante parole. Perché la bellezza è l’amica dell’amore, perché per innamorarsi non ci cerca uno simpatico o simpatica, intelligente o con elementi che subentrano in un secondo momento. Si cerca un sorriso, un ammiccamento, che il sesto senso dica che quella o quello va bene. Questo è l’amore, un amore da vivere immediatamente, senza pensieri, senza rimorsi o pentimenti. Date alla vostra metà questa sensazione: che ogni momento vissuto insieme sia l’ultimo, perché la vita continua, ma la passione ad un certo punto lascia il posto all’abitudine ad altre cose che con l’amore non c’entrano nulla.

Id: 28 Data: 05/12/2007

*

Tom

Nel periodo in cui un individuo nasce, vive e muore possono succedere tante cose. C’è la gioia, la noia, le soddisfazioni e le delusioni atroci, le risate, i pianti, gli abbracci e le litigate. In alcuni giorni uno si sente di poter spaccare il mondo, pensa di poter essere il padrone del suo destino, alle volte ci si rinchiude in camera, a rimuginare sul fatto che niente va come dovrebbe. Credo che questo sia il riassunto di quello succede nella vita di chiunque, e sebbene chi ha già alcuni anni questo lo sa, è inevitabile farsi coinvolgere dalle emozioni. Cerchiamo di vivere in stanze a compartimento a tenuta stagna, cercando di isolare il buono dal brutto, il bene dal male, ma non è così che si può vivere. Se ieri Tom piangeva di gioia, ora quelle stesse lacrime hanno un significato diverso, quel sapore di soluzione salina contenuta in esse, ora significa qualcosa altro, qualcosa che lui si aspettava ed è arrivato. Dire ciao ora ha una valenza particolare per Tom, che vorrebbe che un angelo scendesse dal cielo per portarla senza sofferenza dall’altra parte, con l’amarezza in bocca di chi cresce altri senza riconoscenza e con i difetti grandi ma proprio grandi che lei ha. Tom riceve notizie buone e cattive insieme, come tutti, come succede sempre nella vita di chiunque, ma non riesce a smettere di piangere.

Id: 27 Data: 05/12/2007

*

Il cieco amore

Quando scoccarono le 10 di mattina, per il professor Grandi, fu tempo di festeggiar i 15 anni di insegnamento. Non era una di quelle belle giornate nella quali viene voglia di festeggiar l’evento in qualche maniera particolare con amici e parenti. Non c’era quel bel sole che ti acceca quando la serranda stancamente viene aperta la mattina presto e la luce passa attraverso, in maniera impetuosa, tra le fessure della stessa. Al contrario era una giornataccia nella quale la neve la faceva da padrona ed aveva imbiancato tutta la città di Sulmona. Avendo passato già molti inverni, al professore venne in mente subito la piazza dove vi è Ovidio pensatore. Già si immaginava il poeta latino tutto bianco e i ragazzi che colpivano a palle di neve le macchine che scorrevano lentamente, a causa della neve, attraversando il corso dedicato al nasone poeta dell’amore. Mentre si guardava allo specchio per radersi la barba notò la vecchiaia incipiente: i pochi capelli bianchi, la pelle rugosa, nonché dolorini vari che rendevano i suoi movimenti lenti; soprattutto quest’ultima cosa lo irritava assai a causa dei suoi trascorsi da atleta. Sul muro vicino alla finestra, accanto alla laurea, aveva incorniciato, in una maestosa cornice, la fotografia di quando, giovane atleta sulmonese, vinse i giochi della gioventù dando lustro alla storia del mitico liceo classico, anch’esso intitolato alla memoria di quel poeta, che non solo cantava dell’amore, ma nelle sue poesie, rimembrava le sue terre natali e loro fredde acque.
Indossò uno dei suoi completi; li aveva ordinati nel suo armadio, collegando sempre allo stesso modo il pantalone, con la stessa giacca, la stessa cravatta e la stessa camicia. Questa litania e il ripetersi degli stessi abbinamenti era un insistere di colori e abbinamenti che durava da almeno 3 anni. Prima era la moglie Elena a preparare al marito il vestiario. Il professor Grandi, quando si svegliava la mattina, trovava il nuovo abbinamento, alle volte anche un po’ spinto nell’accostamento dei colori, sul divano Frau della sala e il caffè caldo con due biscottini in cucina. Anche quando tornava a casa all’ora di pranzo la Elena gli faceva trovar il pranzo pronto.
La moglie era di un’altra città, precisamente era di Milano. Grandi la conobbe in una vacanza da giovane. Da ragazza questa signora era molto avvenente: lunghi capelli biondi, fianchi mozzafiato e un petto generoso. Nell’acqua sguazzava come una sirena, e tutti gli uomini, anche quelli sposati avevano pensieri peccaminosi sulla donna. In quel periodo il professor era un giovane supplente che viaggiava per il territorio abruzzese con la sua 500 nuova di zecca, che il padre gli aveva regalato per spostarsi per il lavoro. Ovviamente la macchina la usava anche per le vacanze. In una di queste vacanze al mare, sotto il sole dorato della Puglia, si riportò, praticamente la Elena a casa sua. Appena ebbe dal Ministero la destinazione finale, i due ragazzi si sposarono e si stabilirono a Sulmona. Avendo lasciato tutti gli amici a Milano, la moglie si trovò ad affrontar una situazione nuova nella quale vivere. Passò da una grande città ad una medio piccola, dove tutti si conoscono e l’intrusione di una persona nuova, soprattutto così avvenente, era difficile.
La Elena, però, risultava molto simpatica a tutti ed in breve tempo era conosciuta da tutti nel quartiere nel quale i coniugi vivevano. Lei si impegnava nel coro polifonico, lei era la prima a fare volontariato e promotrice di raccolte fondi, seguiva i convegni delle varie associazioni culturali della città. Il professor Grandi era soddisfatto di tutto ciò, poiché la sua più grande preoccupazione era che sua moglie potesse sentir nostalgia dei suoi luoghi, cosa che avrebbe sentito lui a parti invertite, e che gli chiedesse di spostarsi da lì.
Con la Elena la sua vita risplendeva di luce propria, l’inverno era estate per lui, il bicchiere era sempre mezzo pieno, non era mai pessimista e credeva sempre che per ogni situazione ci potesse essere sempre una soluzione adeguata. Lui era profondamente innamorato di lei, sarebbe arrivato, per assurdità, lui pacifista convinto, ad uccidere per lei. Non avrebbe sopportato che qualcuno potesse far del male a quel gioiello incontrato per caso nel lungo cammino della sua vita.
Tutto ciò nonostante il professore scoprì di essere sterile; per lui, cresciuto in una famiglia all’antica, dove la patria potestà era raffigurata nello stereotipo dell’uomo rude che fa i figli che crescono con la mamma era un brutto colpo. La moglie cercava di consolarlo, dicendo che anche in mancanza di un figlio, il suo amore per lui non sarebbe cambiato o peggiorato, perché la moglie per un figlio è diverso dall’amore per un marito.
Il professore passò, comunque, brutti momenti, ma cercava di eliminare dalla mente quel pensiero di considerarsi un mezzo uomo a casa di sperma sufficiente. Cercava di rilassarsi in cucina, e la sera, nei giorni nei quali la moglie si allenava in palestra, lui si dilettava in cucina. Il suo piatto preferito erano gli spaghetti alle vongole: lo riteneva un piatto semplice, ma nello stesso tempo saporito e buono come un piatto elaborato. Un po’ una metafora della vita, nella quale chi si deve accontentare di cose non costose, ma economiche, può benissimo vivere in felicità apprezzando ciò che ha e non desiderando, da buon cattolico, ciò che non possiede. Questa era una filosofia che cercava di insegnare ai ragazzi.
Ma un giorno questo idillio finì. La sua cara moglie, la sua adorata moglie morì in una squallida stanza di ospedale. Fu una morte lenta: il professore raccontò che, durante la notte, la sua cara moglie lo svegliò di sopra assalto, esplicitando il suo sentirsi male. Il professore si alzò di scatto e senza batter ciglio, evitando emozioni che avrebbero fatto perdere la lucidità, si mise la prima cosa che trovò. Prese la donna e la mise in macchina e poi di corsa all’ospedale. Di quella notte, tuttora, non ricorda di più, afferma quando racconta la storia e del perché vive solo. Il professor Acerri, suo grande amico prima che collega, lo ricorda solo seduto accanto al letto dove è stesa sua moglie, fredda e rigida. Quella morte fermò, per assurdo, quella bellezza che il professore aveva sempre visto nella moglie, sin da quando la vide per la prima volta in quella spiaggia. Essendo Grandi uno stimato insegnante ed essendo ben voluto dagli studenti, al funerale della moglie vi era un bel po’ di gente. Tutti vicino a quel signore che non traspariva nessun dolore, forse perché il suo viso era coperto da grandi occhiali scuri, che Elena gli aveva regalato per l’ultimo Natale. Come in un film noir, il tempo era bruttissimo, da lontano si vedevano solo un mucchio di ombrelli, come se fosse uno schieramento di un esercito romano in formazione testuggine; il suono della campane che suonavano per il lutto, era limitato dal rumore della pioggia che scrosciava violentemente. Grandi prima di quell’episodio, aveva associato quel tipo di pioggia, al giorno del suo matrimonio, e quando uscì dalla chiesa, si vide vestito con lo smoking da cerimonia; si girò con il volto verso destra e vide sua moglie, bella come non mai, con un sorriso splendente e i capelli raccolti sotto il velo da sposa. Poi, nel momento del bacio, sentì una voce sempre più chiara e sempre più forte che lo chiamava: “Professore, professore”. Aprì gli occhi e si ritrovò in ospedale: era svenuto ed un dottore cercava di animarlo. Quando le cose si sistemarono e tutto tornò come prima i finti amici che gli erano stati vicino erano scomparsi, nessuno lo chiamava più e lui finiva le serate davanti alla televisione; non aveva un programma preferito, anzi la televisione non la guardava ma era l’unico modo per sentire qualche voce dentro quella casa, che lui sognava che fosse riempiti ancora dalla voce dell’adorata moglie e da tanti marmocchietti che giocavano con i regali che il padre gli avrebbe riportato a casa.
Quel suo festeggiamento per i 30 anni fu quindi triste; senza la sua Elena e senza un motivo di vita, ma con la calvizie incipiente; cercando di elaborare nuovi piatti che lui stesso avrebbe giudicato, in quanto il suo giudice naturale non avrebbe potuto più parlare. Solo Acerri gli faceva compagnia invitandolo a casa oppure andando lui il pomeriggio a casa cercando di coinvolgerlo nelle gite scolastiche e nelle varie iniziative che il preside progressista della scuola metteva in campo.
Un giorno entrò a scuola; era una di quelle giornate da schifo, dove alzarsi dal letto non ne valeva la pena e nelle quali già si sa che a scuola avrebbe trovato gli stessi problemi di sempre e quella mattina non gli avrebbe proprio voluti sentire. Ma il suo spirito del dovere e il suo istinto da gran lavoratore, spinsero il professore, a mettere il completo e ad andare a scuola. Quello fu un giorno di risveglio emotivo per Grandi e questo grazie ad un ragazzo. Il professore entrò in classe e fece la sua solita lezione e appena la campanella suonò i ragazzi uscirono dalla classe con uno sfuggente buongiorno detto così e a mala pena recepito da Grandi. Non si era accorto che seduto era rimasto un giovane, composto sul banco e che lo guardava mentre Grandi rimetteva le sue cose dentro la borsa di pelle che Elena gli aveva regalato 10 anni fa. Nel mentre che si stava alzando, il giovane lo chiamò e disse: “Professore, mi scusi, le vorrei parlare”.
Il ragazzo, Alfredo Guerri, voleva confidarsi con quel professore dei suoi problemi; il giovane non riusciva ad imparare la sua materia e questo perché a casa aveva alcuni problemi. Aggiunse: “Forse lei deve andare, sono le 13 e 45”. Grandi guardò l’orologio, nel momento in cui Acerri entrò in classe per chiedergli se voleva tornare con lui. Grandi ci pensò un momento, riguardò l’orologio e immaginò cosa avrebbe trovato a casa. Disse: “Acerri non ti preoccupare, rimango ancora un po’ qui…ci sentiamo dopo”, poi si rivolse al ragazzo e disse: “Adesso telefoniamo a tua mamma per dire che devi rimanere a scuola per fare delle cose con il tuo professore; dai che ci andiamo a prendere un panino al bar”.
I due si misero a parlare dentro al bar, forse perché il professore riteneva quel posto meno formale della scuola, e il ragazzo parlò dei suoi problemi, piano piano si aprì; tranne la mancanza della figura di un padre morto anni prima, problema superato da un pezzo, i problemi di Alfredo erano i problemi di un ragazzo adolescente di 17 anni; il problema di essere rifiutato dalla ragazza che ama, di essere poco incisivo nelle interrogazioni e negli esami, e poi vi era il problema di aiutare la mamma presso il bar di sua proprietà lasciato in eredità dal marito di lei. È facile immaginare come il ragazzo poteva confondere la figura del professore confidente con quello di un padre, e la stessa cosa poteva accadere per Grandi; la psicologia più scolastica dice che questa situazione poteva essere un riscatto per il suo essere sterile, e colmare il vuoto lasciato da Elena. Per grandi però non era così: lui aveva sempre sognato una scuola ti questi tipo, attenta sia a dare una cultura ai ragazzi, ma insegnare loro anche la fame per la vita, la voglia di andar sempre oltre a quello che vi era posto davanti. Lui da studente non ebbe questa possibilità, grigia come era la sua classe con i vestiti uguali, i professori rinchiusi dentro il loro sapere e con un sistema nozionistico che a Grandi non andava giù. Fare il professore per lui fu quasi una vocazione, voleva fare il progressista, voleva impersonare la figura dell’insegnante amico, i cui alunni si mettono sui bachi di scuola e dicono: “Oh capitano, mio capitano”. Voleva essere quello che andava contro il preside e ascoltava le richieste di ragazzi di una città povera, senza iniziative, e forse la scuola, per i ragazzi e per gli adulti, poteva essere non solo un contenitore di informazioni ma riscatto di un territorio.
Quando succedono poi situazioni particolari: una morte, la notizia di non poter dare continuità al cognome, si tirano le somme di una carriera e si rendeva conto di assomigliare a quei professori grigi che aveva sempre criticato. Nel parlare a quel ragazzo suo studente, sentiva dentro di sé l’esplodere del giovane Grandi che vuole uscire dalla gabbia di kriptonite dove era stato messo.
Piano piano Grandi riuscì a tirar le redini di questa sua vita, e riusciva ad assomigliare a quello che voleva lui: allo specchio non vedeva più un signore invecchiato, ma un tipo baldanzoso. La moglie era morta, ma la sua vita doveva andar avanti, e non poteva non aver un significato, come purtroppo, non ha avuto significato la vita di una moglie che neanche ha dato alla luce un figlio da allevare prima di morire.
Questa nuova vita, in cui era rinato Grandi, lo fece diventar un modello per i ragazzi: si batté per aver un liceo aperto il pomeriggio per dare spazi agli studenti per suonare, si batté per un’ aula di informatica all’ultimo grido, appoggiò gli studenti per l’autogestione. I professori, giovani e meno giovani gli chiedevano il segreto del suo successo, anche Acerri, rimase impressionato di questo suo cambiamento nello stile di vita, e gli studenti lo coinvolgevano nei loro discorsi musicali, politici.
Ormai procedeva tutto bene, il periodo nero dei brutti pensieri, dell’abbandono, sono tempi passati, ora si pensava solo a vivere!


Il commissario Lombardi era tutto intento a mangiare i suoi biscotti inzuppati al latte, mentre Salli, il suo piccolo beagle, con la zampetta pretendeva più che la sua attenzione, un biscottino, giusto per fare colazione. Lombardi non si era affezionato subito a quel cane, tanto voluto dalla moglie, ma Salli aveva uno sguardo così dolce che era impossibile resistere, anche per un poliziotto che aveva arrestato fior fiori di malviventi per la regione. Il suo nome era finito anche sui giornali e sulla cronaca nazionale per avere sgominato una banda di pedofili. Tutte le indagini di basavano su sue solide intuizioni e, nonostante la contrarietà del suo capo, Lombardi fece di testa sua, e andò avanti per la sua strada seguendo quello che sarebbe diventato, il suo leggendario fiuto. Alla fine di quella indagine, molti volti noti della sua città, tra i quali anche un tipo che organizzava eventi per bimbi, furono sbattuti in cella. In televisione si riaccese la polemica su cosa fare dei pedofili, chi diceva che anche Michelangelo aveva il suo amichetto e quindi non vi era nulla di male, e chi proponeva di introdurre la castrazione chimica per questa gente. Lombardi non solo era un gran poliziotto, ma era anche un opportunista come pochi sanno fare. Lombardi poteva essere paragonato a Paolo Rossi, uno che quando l’azione era buona, sapeva cogliere l’occasione al volo. Era nato da una famiglia non ricca, ma neanche povera; il padre era poliziotto e lui volle continuare questa tradizione poiché gli altri due fratelli, Sonia e Cesare, non avevano la stoffa; Sonia era una grande casalinga con due figli all’università, Cesare si era fatto prete, ciò lo pose in forte contrasto con il padre. Tra i due, cioè Cesare e Giuseppe (questo era il nome del commissario), vi era una grande confidenza; Giuseppe non era credente ma si confidava con suo fratello in confessione, perché lì vigeva il segreto confessorio e quindi nessuna informazione poteva essere diffusa. Il suo istinto lo seguiva sempre! Ritorniamo al suo opportunismo da calciatore: egli capì che quello era il suo momento, che da quella indagine, poteva ricavare un successo come quello di Taormina, il cui nome spuntava nelle aule giudiziarie, in televisione, in parlamento e in libreria. Con quel caso di pedofilia riuscì a partecipare a trasmissioni in tutti i canali televisivi via etere e via satellite. Con un amico giornalista, cominciò a scrivere un libro sulla vicenda che divenne uno dei successi della stagione. Divenne opinionista di Costanzo, e quindi aveva numerosi passaggi televisivi assicurati. Riuscì a diventar un uomo importante di un partito importante, ma non dimenticò mai, perché da lì derivava il suo successo, quello che era il suo vero lavoro, ossia scovare i cattivi, diventare lo sceriffo d’Italia. Questo era il suo soprannome, lo “Sceriffo”, piaceva a lui, perché si sentiva al di sopra di ogni vincolo legislativo nel suo lavoro, piaceva ai media perché si poteva così identificare in maniera diretta un personaggio.
Aveva due telefonini con sé, quello destinato al lavoro del poliziotto e quello del suo manager che lo contattava quando era richiesto per un’intervista, una apparizione televisiva o altro. Questa volta era il pubblico ministero Pallottini a telefonare. Tra i due non correva buon sangue poiché il p.m. era della vecchia scuola, non sopportava le luce della ribalta, la sua faccia la metteva in tv solo per spiegare gli errori di una giustizia, in effetti troppo sbilanciata dalla parte del protagonismo, e del favore ai potenti. I magistrati dovevano stare all’oscuro, non farsi coinvolgere da polemiche, discorsi in tv. Dovevano essere lontani dalle influenze politiche. Lui conosceva Lombardi fin da giovane, lo ricordava ancora come uno sbarbatello, spaurito; come p.m. cercava di dargli i consigli giusti, sebbene lui già aveva come punto di riferimento il padre, uomo onesto e professionale. Ma negli occhi del Lombardi junior vedeva il fuoco della fama, mania di protagonismo; nonostante questo rimaneva però un grande mastino della legge.
“Grandi, c’è bisogno di te in centrale”.
“Come sta? Io bene! Ok mi dia un minuto e sono da lei”. Lo sceriffo d’ Italia, fece far i bisogni al suo cane e si mise in macchina. Nonostante il suo istinto indagatore, la sua memoria faceva sempre cilecca, infatti dovette tornar indietro, risalire a casa e prendere gli occhiali da sole che sponsorizzava. Non poteva far pubblicità in tv ma la pubblicità indiretta, con le interviste, le foto sui giornali, era sicuramente più efficace.
Che il p.m. lo stesse aspettando nel suo ufficio, glielo disse il suo naso, quell’odore di sigaro, gli dava proprio fastidio, ma forse lo faceva apposta per farlo inalberare. Infatti il loro rapporto era un po’ come quello tra Don Camillo e Peppone; si facevano questi screzi, ma facevano finta di nulla.
“Buongiorno, cosa è successo?”, chiese Lombardi.
“Buongiorno anche a lei Giuseppe, come sta lei? E sua moglie?”, chiese malignamente.
“Sempre divorziata, grazie del pensiero! Vogliamo arrivar al dunque?”.
“Va bene, le spiego un po’; un po’ di giorni fa è morta una donna di 45 anni, vorrei che lei indagasse un po’ su questa morte”.
“Perché, c’è qualche indizio su un omicidio?”, chiese Lombardi, versandosi un bicchiere d’acqua, come il suo curatore dell’immagine , gli aveva consigliato di fare; per togliere qualche etto bastava bere un po’ di acqua ogni ora.
“Diciamo di no; però forse è importante prendere delle notizie su un professore; la moglie è morta per una infezione che le ha provocato una emorragia, ma su questo avrà più informazioni dalla nostra sezione scientifica; le posso dire che dato che la defunta non aveva problemi fino ad allora, forse è giusto indagare un po’, bastano alcune domandine, e poi archiviamo il caso, va bene?”.
“Bè dottore, se è un caso semplice, perché chiedete a me di indagare”, chiese stizzito il commissario.
Il sorrisino del p.m. era eloquente e non c’era bisogno di dire altro, ma lui aggiunse lo stesso: “Come lei ben sa, nei casi più semplici, ci possono esserci le insidie più serie, chi meglio dello Sceriffo di Italia può scovare un crimine dove nessun altro può vederlo?”.
“Sì va bene”, si girò, augurò una buona giornata al capo e chiuse la porta dietro di lui per dirigersi alla sezione della scientifica. Il dottor Mariani era suo amico da sempre, coetaneo e con storie simili. Mariani portò Lombardi nel suo ufficio, ormai il corpo fisico era già stato interrato e non si poteva riesumarlo se non dietro provvedimento motivato da prove certe. Mostrò al commissario le foto della donna da viva e da morta, non c’era granché da far veder perché la donna non era morta per morte violenta. Gli spiegò soprattutto la cartella clinica, dalla quale risultava che la donna era morta per una emorragia dovuta ad un malore interno. La donna non aveva mai sofferto di nulla e non vi era possibilità di prevedere un malore simile.
Lombardi chiese: “ Ma perché non è stata fatta una autopsia sulla vittima?” .
Mariani rispose: “Giusè, perché non c’erano gli estremi e comunque all’apparenza sembra una morte normale…poi, anche volendo, non si potrebbe più fare perché, per sua volontà, la donna è stata cremata”.
“Marià, se è così, che ci facciamo noi due in questo ufficio a parlar di un non caso?”.
Mariani lo invitò a voltarsi: “Guarda, io devo ancora aprire quei due morti, che mi prenderanno molto tempo e ho un pranzo nel mio ristorante preferito al quale probabilmente dovrò rinunciare”.
Suonò il telefonino dello sceriffo: “Pronto? Ehi ciao! a che ora? Va bene si può fare”, poi rivolgendosi all’amico dottore, una volta chiuso il telefonino, “Scusami”.
“Chi era quel rompi coglioni del p.m.?”, chiese con lo sguardo di chi capisce queste rotture.
“Veramente no, era il mio agente, domani sono da Vespa a Porta a Porta; mi sa che mi devo andar a comprar qualcosa di nuovo altrimenti sono sempre vestito allo stesso modo”.
“Giusè, ma ti senti come parli? Vabbè va, finiamo questo discorso; insomma la domanda tua è pertinente: se la donna sembra morta per cause naturali, e non possiamo provar il contrario, di che parliamo? La cartella clinica mi è arrivata oggi; sembra che da Milano sia arrivata una segnalazione per questo caso; i genitori di lei sono molti amici del Presidente della regione Lombardia, il quale ha chiesto l’intervento del p.m. di Milano, il quale, a sua volta, a chiesto l’intervento del nostro p.m. del quale è amico, insomma una rottura di palle”. Per Mariani era tutto una rottura.
“Capisco, credo che me la caverò presto allora, senti allora domani si va a cena insieme no?”, chiese al dottore prima di arrivare all’uscio della sezione.
“Sì, come no! Non ti dimenticare qui gli occhiali da sole!”.
Il commissario lo ringraziò e se ne andò. Nel frattempo Mariani pensò a cosa potevano servire un paio di occhiali da sole, in quel giorno che era brutto tempo.

Uscendo dall’ufficio di Mariani, lo sceriffo chiamò a sé il capitano Gerosolimo: “Massimo, mi devi accompagnare”.
Gerosolimo prese la macchina e fece salire Lombardi: “Dove andiamo?”, chiese il capitano che era sempre disponibile per lo sceriffo perché così appariva sempre in tv e poteva vantarsi con le ragazze che conosceva delle sue apparizioni sul piccolo schermo, pozzo di sogni e desideri. “Chi andiamo a pizzicare?”. Lombardi rispose spazientito: “Gerosò, ma che pizzicà e pizzicà! Mi devi solamente accompagnare ad una parte perché a quest’ora c’è la zona traffico limitata e quindi così non mi rompe nessuno; devo far degli acquisti per stasera che vado da Vespa”. Il telefono di servizio del commissario cominciò a suonare; il p.m. gli impose di andar a trovar un certo professore Grandi per il caso appena affibbiatogli. Il commissario si rivolse di nuovo al capitano dicendogli dell’appuntamento della mattina seguente per andar al liceo classico a trovare il professore. Subito dopo entrò nel negozio di abbigliamento di Sulmona; comprò un nuovo completo di flanella molto costoso e una nuova cravatta. Dopo le prime apparizioni televisive, Lombardi aveva capito che qualunque tempo facesse fuori, e qualunque temperatura ci fosse fuori lo studio, all’interno era sempre estate. La prima volta che era stato invitato, cioè prima di Natale, fece una sudata numero uno, tanto che dovette chiedere nuovi vestiti alla sarta della Rai e continuare con quei vestiti la trasmissione. Non aveva molto tempo poiché doveva partir per Roma per gli studi televisivi, il suo agente lo avrebbe aspettato lì. Gerosolimo chiese di poterlo accompagnare e la risposta fu affermativa. Il giovane sapeva di poter comunque imparare qualcosa di più su quel lavoro; in un tempo dove tutti volevano già diventar importanti, ricoprire posti di rilievo nell’ambito della società, il giovane Gerosolimo sapeva di dover cominciar dai lavori più umili, per poter arrivare a raccogliere i frutti di quanto seminato, in fin dei conti anche lo stesso Lombardi aveva cominciato dal basso ed ora si trovava a cavalcare l’onda del successo. Sapeva però di essere diverso dallo stesso “maestro”, perché lui non aveva quella mania di protagonismo del superiore. Non gli importava la tv, la politica, lui voleva diventar solo un buon poliziotto, uno di quelli che vengono citati tra i migliori rappresentanti del corpo.
Il commissario Lombardi quella sera nello studio televisivo dovette rispondere a temi che riguardavano la riforma della giustizia e a domande private, con quel Vespa lì che con le mani messe come se stesse pregando lo invitava a dire il suo pensiero sugli argomenti importanti messi in piazza dal giornalista, e sul sondaggio che considerava Lombardi uno dei personaggi più sexy della televisione italiana. In effetti lo sceriffo non era poi tanto male: capelli corti sul castano e occhi verdi, il suo fisico era frutto di molte ore spese in palestra ed oltre che snello e muscoloso era pure martoriato da una ferita sul lavoro: un colpo di pistola che gli passò la spalla destra; vestiva alla moda e aveva una buona parlantina. Viveva anche gli anni della maturità, quando non si è troppo giovani ma neanche troppo vecchi.
Gerosolimo lo riportò a Sulmona verso l’ una di notte e il cane lo aspettava dietro la porta con una sua ciabatta in bocca. La sua coda scodinzolava per la felicità di aver rivisto il padrone, ma il suo abbaiare indicava che doveva anche far pipì. Lombardi lo portò nel giardino sotto casa per i bisogni e si fumò presumibilmente l’ultima sigaretta di quella giornata. Mentre fumava guardava in alto e notò un cielo nero, senza stelle ma in compenso con nuvole nere; nere come il suo umore per la seccatura che il p.m. gli aveva attribuito. Tirava anche un leggero venticello che faceva svolazzare la sua cravatta e le orecchie del cane. Dalla casa di fronte si sentivano delle voci, voci festanti dovuti alla festa di laurea del figlio del vicino e poi il rumore assordante del treno che passava. Il cane richiamò la sua attenzione, ciò voleva dire che quello che doveva fare l’aveva fatto e che il commissario poteva andar finalmente a dormire.

La mattina dopo Gerosolimo lo venne a prendere puntuale mentre il commissario si stava mettendo le scarpe e, contemporaneamente, parlava con il viva voce al telefono con il suo agente dicendogli che quella mattina aveva da fare e il telefono sarebbe rimasto staccato.
Presi gli accordi con l’agente circa un appuntamento con una casa editrice per un suo libro, era pronto per recarsi presso il liceo. Varcata la soglia di quel posto, alcuni ricordi gli si fecero di nuovo vivi nella memoria; lui alla fin fine da ragazzo era uno sfigato, uno di quelli che nessuno si fila mai. Provava un senso di frustrazione in quel periodo nei confronti dei suoi compagni: lo invitavano alle feste solo perché era un compagno e non perché era simpatico agli altri, i saluti erano di cortesia e di educazione e non di gioia. Lui era poco flessibile nel capire di altri e forse questo lo rendeva poco socievole nei confronti di chi gli stava accanto. Non furono cinque anni piacevoli anche perché lì conobbe la sua attuale ex moglie; stranamente era l’unica ragazza che riusciva a comprenderlo nelle sue parole e nei suoi gesti. Quando lei lo lasciò, essendo consapevole di questa cosa, aveva paura di essere una cattiva persona: se il farsi conoscere in profondità da una donna, portò quest’ultima al distacco, forse voleva dire che lui non aveva un’anima molto bella, un bel carattere come si dice. In effetti neanche con i soldi e il successo si sentiva felice, sapeva di non essere dentro una bella persona, e tutto ciò che aveva conquistato era solo pura materia; anche le donne che erano state nel letto non gli diedero nulla se non un piacere momentaneo derivante da un atto sessuale; non si sentiva stimato e non si stimava e chi gli stava vicino si allontanava da lui; lo avrebbe fatto anche il cane se ne avesse avuto la facoltà.
Chiese alla bidella dove poteva trovar il professor Grandi, e la bidella gli fece cenno di seguirlo. La bidella aprì la porta di un’aula e richiamò l’attenzione del professore.
“ Si? Cosa c’è?”, chiese Grandi, dopo aver sentito il rumore delle nocche della mano sulla porta.
“ Professore, mi scusi, ma qui c’è un poliziotto”.
Alla vista del famoso commissario, nell’aula si sentì un vociare molto fitto.
Grandi prese la situazione di petto: “Ragazzi abbiamo l’onore di aver nella nostra classe, lo sceriffo d’Italia”, e poi rivolgendosi al commissario: “ Dottore, dato che è un caso raro avere un personaggio del suo livello nella nostra scuola, vuole far due chiacchiere con i miei studenti? Credo che questa sia una buona occasione per far capire ai ragazzi come si lavora in polizia in modo tale da fargli comprendere quel lavoro. Magari qui c’è un futuro sceriffo”.
Al commissario non piacevano i ragazzi, ma forse quella era già una buona occasione per vedere l’ambiente di Grandi e riassaporare un tempo ormai andato via.
Si mise a sedere vicino al professore e cominciò a rispondere alle domande dei ragazzi, impazienti ma anche timidi. Le domande vertevano sui singoli casi, ma anche sulla televisione e sulla politica.
“Adesso vi faccio una domanda io: come è il vostro professore?”, chiese Lombardi.
Una ragazza con il pancino di fuori e il piecing al naso, mostrò al poliziotto una targa appesa al muro e sotto alla targa una foto del professore con i suoi studenti. Sulla targa vi era scritto: “Al nostro caro e mitico professore”. La campana suonò e i ragazzi furono invitati ad uscire dalla classe.
Grandi e Lombardi rimasero soli. “Allora commissario, non credo che sia venuto qui a sentir una lezione di storia vero? Benché la storia noi tendiamo a dimenticarla oppure ce la fanno dimenticare”.
“In effetti no, professor Grandi, sono venuto a far una chiacchierata con lei circa la morte di sua moglie; si tratta essenzialmente di chiarire due o tre cose, una pura formalità insomma”.
Grandi parlò guardando verso la finestra: “Lei vuole che io ricordi dei momenti ancora freschi nella mia mente; non è stato facile andar avanti dopo la morte di Elena, ma mia amata moglie”, poi si girò di scatto verso Lombardi: “Ne possiamo parlare davanti ad un caffè qui a fianco?”.
I due si avviarono verso il bar a fianco del Liceo e in quel tragitto, Lombardi si rivedeva ragazzo a fumare in bagno, oppure si rivedeva mentre usciva dal portone del liceo per andar a comprar una merenda proprio in quel bar.
“Sa che io mi ricordo di lei a scuola?”, disse il professore.
“Ma dai! Come è possibile?”, chiese con stupore Lombardi, essendo lui stato poco in vista a quel tempo.
“Bèh commissario, forse sarà stata questo tragico episodio, ma ho molti meno anni di quelli che dimostro. Oltre che avere un buono spirito di osservazione per le persone. Io credo che a quel tempo frequentassi l’ultimo anno e lei faceva il quarto ginnasio, aveva la professoressa Imparato come insegnate di latino no?”, Lombardi fece un cenno affermativo con la testa e un sorriso che sembrava volesse dire quante ne aveva passate con quella professoressa vecchia, che usava metodi antiquati, e prossima la pensionamento. Grandi continuò: “Beh, forse lei non si ricorda di me, ma sono io che le ho fatto il battesimo al bagno”. Lombardi ora aveva capito dove aveva visto già quel tale; effettivamente dimostrava più anni di quelli che aveva. “ Mi ricordo che lei era insieme ad altri ragazzi, ed era l’unico a porre resistenza a quella stupidaggine; alla fine vi bagnavamo solo un po’ di capelli, nulla di più. Già allora mi colpì quel carattere indomito, e pensai che doveva essere alquanto testardo nelle sue decisioni. Avevo visto giusto?”.
“Effettivamente…”, ripensando alle litigate con la moglie che lo etichettava sempre con l’appellativo di testardo, ma questo appellativo lo usavano anche i suoi superiori nelle indagini condotte da lui; gli chiedevano di non comportarsi da testardo.
Sorseggiando il caffè il professore chiese: “Cosa vuole sapere?”.
“ So che è doloroso ricordare, ma vorrei sapere come è morta sua moglie”.
“In effetti non è molto salutare ricordare…mia moglie era a letto; lei aveva avuto una giornata stancante. Come lei ben saprà, Elena era coinvolta in numerose iniziative, doveva badare anche a me e alla casa. Dopo cena guardammo un po’ di televisione, ci piaceva guardare dei film di avventura presi a noleggio. Dopo il film mi disse che era stanca e se ne andò a letto. Io misi a posto la cucina e la seguii. Poi durante la notte, questo c’è anche nelle dichiarazioni rese già una settimana fa al suo commissariato, si è sentita male. Portata all’ospedale morì prima di poter far qualcosa per poterla salvare”.
“I medici che le hanno detto? Perché è morta?”, chiese Lombardi.
“Che si è trattata di una embolia, mi hanno detto; Elena era diabetica, ma una embolia…”, fece un sospiro di sollievo.
“Senta tra voi andava tutto bene?”, chiese Lombardi in maniera secca.
“ C’erano alti e bassi come in tutte le coppie normali; sa ero un po’ giù perché non posso aver figli, ma eravamo decisi ad adottare un bambino, i requisiti c’erano tutti”.
“Ha più sentito i suoi suoceri?”, chiese già sapendo la risposta ma cercando di capire la reazione alla domanda.
“In effetti no, dopo il funerale sono ripartiti presto, però li sentirò presto per vedere se vogliono riavere qualcosa della figlia. È finita la ricreazione commissario, i ragazzi chiamano e aspettano me”, frettolosamente il professore chiuse la discussione.
“Bè professore va bene così…comunque so dove rintracciarla; vorrei solo chiederle di accompagnarmi dal professor Acerri, è un suo amico vero?”, il professore confermò, “Mi farò una chiacchieratine anche con lui”.
Il professore Acerri gli raccontò qualcosa sulla morte di Elena e soprattutto sui comportamenti del professore e collega. Gli raccontò come sua lui e sua moglie gli erano vicini, ma gli raccontò anche che dopo la morte di Elena, il collega era diventato più incisivo a scuola; come se la morte della moglie gli avesse fatto cambiar marcia. I ragazzi lo adoravano e lui era molto coinvolto nelle iniziative a loro favore. Tra poco sarebbe andato in pensione il preside e lui aveva fatto domanda per prendere il suo posto. A scuola non c’ era nessun contrario a quella possibile candidatura.
“Senta Acerri, posso farle una domanda più maliziosa? Se fosse morta mia moglie, con tutti i guai che mi sta dando ora che è separata da me, sarei contentissimo, ma lei, per esempio, morta la sua, avrebbe trovato la forza per diventar un qualcuno all’interno del liceo?”.
Acerri era un po’ titubante nella risposta: “Non so…certe situazioni bisogna viverle, è facile rispondere da fuori…”.
Lombardi sbatté le dita sulla cattedra in segno di disappunto e disse: “Capisco la sua risposta diplomatica…ok, è ora di andare per me”.
Si salutarono con cortesia.
Gerosolimo lo aspettò in macchina in piazza XX settembre, era intento a parlare con delle ragazzine che lo avevano riconosciuto come personaggio televisivo. Stava parlando e rispondendo alle domande fatte da quelle ragazze, con sorrisi compiacenti, quando Lombardi lo richiamò all’ordine e gli ordinò di accendere il motore della macchina.
Entrati nell’auto, il commissario gli impartì degli ordini: “Gerosolimo senti tu domani trovi chi è il medico della signora defunta. Io domani sono impegnato in una riunione. Poi preparati che si va a Milano a parlar con i genitori della donna, quindi mi raccomando, dì alla tua ragazza che non ci sei per due giorni”.
“Commissario, io non ho una ragazza”, disse sbalordito il ragazzo.
Il commissario lo guardò mentre quello guidava e disse: “Era una battuta!”.
Il telefono di lavoro suonò ed era il p.m.: “Pronto, sono Lombardi chi è? A dottore è lei! Sì sono andato a trovare il Grandi. Che ne deduco? È presto per dir qualcosa. È una persona che riscuote un certo successo all’interno della scuola, forse uno dei pochi professori a riscuotere consensi tra i ragazzi, sarà che io li odiavo quasi tutti da ragazzo. Forse è cambiato il mondo! Comunque sì, sono in macchina. Che faccio adesso? Penso che andrò a Milano a parlar con i genitori di Elena, da qualcuno sarà partito l’ordine o la richiesta di far domande in giro su questo finto caso o no?( frecciatina al p.m.); mi porto anche Gerosolimo, così forse impara qualcosa su questo lavoro”.
Il p.m. rispose che per lui andava bene così ma aggiunse: “ Mi raccomando a come vi muoverete lì”.
“La ringrazio per la premura, ma andiamo a far solo due chiacchiere con due persone e basta”, rispose il commissario incredulo al consiglio del capo.
“ Non mi riferivo a quello, mi riferivo che a Milano ci sono tanti locali, dovete stare attenti ai paparazzi, lei è così famoso…(frecciatina al commissario); mi raccomando lei è lì in forma ufficiale, non ci faccia fare brutta figura”.
“Sempre spiritoso lei! Credo che non ci sarà nessun problema da questo punto di vista”.
Chiuse la telefonata in maniera fintamente cordiale e poi si rivolse di nuovo all’autista: “Gerosò, senti allora domani mi dici chi è il medico, poi le informazioni me le dai il giorno che partiamo per Milano, io domani sono impegnato per il partito”.
“Per la crisi al Comune? Eh sì si va a nuove elezioni, dobbiamo vedere chi è il candidato della nostra coalizione”.
Si salutarono una volta che il ragazzo accompagnò il suo capo a casa sua; quest’ultimo aggiunse: “Esci un po’, vatti a divertire no? Hai una faccia smunta, ti manca proprio una ragazza”.
Gerosolimo fece un sorrisino ma penso in sé: “Alle volte proprio non lo sopporto!”.

La neve a Sulmona non c’era più, ma era rimasta per le strade quelle pozzanghere nere molto fastidiose. Lombardi era seccato da questa situazione soprattutto vedendo il cane che, correndo e scorazzando per la Villa comunale, si sporcava tutto. Nella sua macchina si era attrezzato bene per pulirlo: una pezza bagnata, un asciugamano, e una bottiglia d’acqua con scodella per farlo bere dato che, per i lavori di cui l’area era investita, non vi era possibilità di trovar un po’ d’acqua pulita per il quadrupede. Lombardi era impegnato anche politicamente, egli non aveva degli ideali ben precisi, non sapeva la differenza tra socialismo, comunismo, liberalismo e riformismo, ma aveva un intuito da paura, pur cui non gli fu difficile, per lui, scegliere la parte politica più forte al momento; avendo avuto offerte sia da destra che da sinistra, scelse quest’ultima, in momento in cui il berlusconismo sembrava perdere seguito tra la gente. Segretamente il commissario ammirava quell’uomo che da pianista si trasformò in imprenditore attrezzando televisioni, facendo costruzioni, costruendo un partito da zero rivoluzionando la scena politica italiana. Lo ammirava soprattutto perché aveva una maestria nell’usare il mezzo televisivo con una disinvoltura allucinante, potendo far uscire dalla sua bocca tutto e il contrario di tutto senza che qualcuno riuscisse a dir che si era contraddetto. Il commissario non era invece un leader, lui si riduceva a partecipare alle varie riunioni non per il suo valore politico, ma per il fatto di essere lo sceriffo, uno degli uomini più famosi della penisola italiana. A lui ciò andava bene, ma nello stesso tempo, usava questa possibilità per cercar di guadagnar terreno in quel campo e puntar in alto, tipo ad un seggio nel parlamento, così da smettere i panni del poliziotto, così stancanti, per approdare in un posto a dir parole vuote, e a far un po’ di casino tra i banchi più importanti d’Italia. Era anche molto divertito dal vedere come si agitava la gente in quelle riunioni: tutti intenti a cercar di chiedere favori, gli uni agli altri e ricevere qualcosa in cambio; tutti a far sorrisi di facciata con l’ assessore di turno, anche se prima quello lì era considerato un cretino o deficiente; tutti a salutare tutti in una concordia tale che poi si rimaneva sbigottiti quando, negli stessi luoghi, si assistevano a rotture insanabili per non avere soddisfatto questo o quell’altro tizio nel gioco delle poltrone.
Quella riunione era importante perché era la conseguenza della caduta del governo di centro destra nella città, un governo a detta di tutti sterile che portò la città ad un immobilismo tale quasi da perdere la speranza di poter riavere una città florida e vivace come un tempo. In quella riunione si doveva parlare di chi come candidato alle elezioni sarebbe stato più giusto presentare, candidato che avrebbe unito la coalizione e avrebbe potuto catalizzare i voti fluttuanti dell’elettorato. Quando entrò il commissario, vi furono pacche sulle spalle, sorrisi d’occasione e discorsi su quello che aveva detto nella sua ultima apparizione televisiva. Gli aveva tenuto uno dei posti al tavolo più importante, quello degli anziani della coalizione, questo ovviamente non per i suoi meriti politici, ma per il suo carisma televisivo e per la pubblicità che portava, ma lui, da volpe scafata, sapeva benissimo tutto ciò e lo sfruttava a suo vantaggio.
Il grande vecchio della coalizione fece la sua nota introduttiva, facendo capire che questa era una occasione da sfruttare, la mancanza di sfiducia data ai concorrenti a causa delle loro cattive azioni, la loro incapacità a rapportarsi all’elettorato, erano elementi che avrebbero potuto sfruttare sfruttar a loro vantaggio. Gli applausi al suo discorso venivano scanditi e incoraggiati dal seguito che quel leader aveva sempre. A modesto parere del grande vecchio, l’unico modo per sfruttar questa situazione a proprio favore era quella di avvicinare tutti i partiti della coalizione intorno ad un uomo forte, capace, proveniente dalla società civile, che avrebbe potuto mettere d’accordo, politici e elettorato, che avrebbe potuto portare Sulmona a livelli di 20 anni fa, quando il lavoro si trovava, le piazze erano piene, e tutti erano più felici. Quell’uomo, il grande vecchio, lo aveva individuato nel commissario Lombardi. Quest’ultimo, che aveva seguito a mala pena il discorso, era intento a sorseggiar un po’ di vino locale, quando sentì il suo nome uscir dagli altoparlanti sgangherati presenti in sala; in un micro secondo un applauso gli fu tributato, sentì numerose pacche sulle spalle, ed era stato invitato a salire sul palco a parlare.
Con un po’ di imbarazzo, ma nello stesso tempo soddisfatto, salì, con tempi televisivi misurati, come se avesse vinto un oscar, sul palchetto. Prese il microfono, e appena ringraziò per la fiducia, un applauso scrosciò come un una diga che si infrange. Dal fondo della sala si levò un grido: “Lombardi, Lombardi, Lombardi!”.
“Calma, calma”, disse, usando le mani per calmar quella gente, “è un grande onore per me poter rappresentar questa coalizione; la decisione per me è importante, perché dire sì stasera, significa lasciare la mia professione che tanto mi ha dato in termini di professionalità, di notorietà e soddisfazioni personali”. Applauso.
“La decisione su una mia accettazione alla candidatura la prenderò a breve, ora non so che dire, mi avete preso in contropiede”. E furono pacche sulle spalle, battutine per farselo amico e giù di lì.

Il professor Grandi, ogni mattina andava al cimitero, perché voleva che l’urna con annessa foto della moglie, fosse sempre decorata con fiori freschi e profumati, perché la Elena era bella e profumata ogni mattina: l’aroma del caffè per la prima colazione si mescolava alla freschezza della sua pelle, quella pelle che oramai era ridotta, insieme ai suoi occhi splendidi, ai suoi capelli sempre perfetti e a quelle unghie sempre curate, ad un mucchio di cenere. Non dormiva più bene la notte, si vegliava di continuo, afflitto da un sogno che non riusciva a ricordare al momento della sveglia. Nonostante la mancanza di immagini rimanevano però alcune emozioni di quel sogno che assomigliava sempre di più ad incubo: si svegliava sudato, con respiro affannato, con sensi di rimorso. Ma per cosa si chiedeva lui. Non essere riuscito a far tutto il necessario per salvar la sua donna? Oppure non impegnarsi nella scuola? Oppure per non insegnar quella voglia dio vivere che sua moglie voleva trasmettere agli altri. Un leggero venticello girava all’interno dei corridoi del cimitero, si trattava di un venticello bastardo, facente parte di quei venticelli che urtano la gola, che ti fanno venir il raffreddore prima di starnutire, che ti fanno ammalare prima di dire a qualcuno che ti senti un po’ di febbre. Mirava quella foto di Elena, con i denti bianchissimi, e con il vestito che di più piaceva. Metteva i fiori vicino l’urna, belli freschi, come avrebbe voluto lei; se fosse stato per lui, ci sarebbe stato anche la sua canzone preferita, quella di quel cantante di cui non ricordava mai il nome, e per questo fatto, veniva sempre rimproverato dalla moglie. Anche se non poteva metterla su un disco, quella canzone la sentiva nella mente come se ci fosse stato il cantante a suonarla lì con il suo piano. Una lacrima usciva dal suo occhio destro e una parola dalla sua bocca: “Scusami”.
Ogni giorno era la solita litania e dopo quella “cerimonia” il suo compito era andar a scuola ad insegnar ai suoi ragazzi la storia e la filosofia; il professore era convinto che gli studenti potevano appassionarsi alla storia quando questa era più vicino a loro, preferiva saltar i capitoli più remoti per andar a quelli più attuali, dal fascismo in poi. Era anche convinto che far nascere una sana discussione sulla seconda repubblica avrebbe fatto bene, e che parlar di quello che le trasformazioni della società contemporanea erano più importanti da osservare rispetto a cose del secolo scorso. L’entrata di Berlusconi in politica, il cambiamento della scena politica e il fantomatico bipolarismo, il nuovo scontro tra blocchi diversi, uno volta Usa contro Urss e oggi Occidente contro Oriente; l’ ascesa della Cina a potenza indiscussa, le nuove tecnologie. Lui era l’unico professore che usava anche le sue ore per spiegare ai suoi ragazzi come usare Internet, anche se alle volte era lui a dover imparare u po’. Si chiedeva che posto avrebbero avuto i suoi ragazzi nel mondo, se usciti dalla sua classe, i suoi alunni avessero saputo la storia della seconda guerra mondiale ma non quella che era successo da Tangentopoli in poi? Avrebbero vissuto una vita senza radici, senza la base sulla quale confrontar le loro idee e fare delle scelte, serie, ponderate. Avrebbe voluto che quello che lui stava ora insegnando ai ragazzi, il suo maestro lo avesse insegnato a lui. Questo ormai era il suo ruolo, in una scuola fatta da gante che con pochi soldi deve inventarsi sempre qualcosa di nuovo per affascinare dei ragazzi finti anticonformisti, no global, ma con il cellulare, che combattono McDonald, ma che cercano l’abito firmato fatto da bimbi africano di 10 anni. Ragazzi che vanno la sera al centro sociale, con la barba incolta per poi togliersela l’estate per andar al mare con la barca di papà. Quelli che vorrebbero la pace nel mondo, ma che dimenticano che per eliminare delle ingiustizie, alle volte bisogna venir alle mani forse, quelli che hanno tutto, forse oggetto di invidia di genitori che non hanno avuto nulla e tutto si sono costruito. Ragazzi con dei genitori che spingono le figlie a prostituirsi in televisione per poter loro apparire in una trasmissione e tifare per il proprio figlio. Ragazzi che vivono in un mondo fatto di illusioni, dove ti fanno credere che non serve studiare per diventar famosi, ma basta bellezza e prestanza fisica. Ragazzi che vogliono tutto e subito e non hanno la pazienza di aspettar il loro turno.
Grandi non è che poteva far miracoli, ma tentava almeno di metter una pulce nell’orecchio ai suoi alunni. Non voleva spiattellar informazioni, ma voleva che fossero essi stessi ad aver la voglia di conoscere. Forse qui sta proprio la scuola, metter la sete di conoscenza, più che inculcar a ragazzi distratti dall’ultimo messaggino ricevuto in classe, nozioni che rimangono sospese in aria.
Dopo queste riflessioni, il professore fece in sospiro e si diresse verso la scuola tramite una strada che poteva percorrere ad occhi chiusi.

Lombardi era già partito per Milano con il suo fido Gerosolimo per tentar di capire che volevano i genitori della Elena. In fondo dalla chiacchierata con Grandi, pensava che quella era stata un’ indagine alquanto inutile e che quel tempo era tutto sprecato, ma al comando del p.m. non poteva dire no. Certo che i suoi pensieri erano rivolti anche alla politica, e alla richiesta di candidarsi. Essendo lui un uomo che della strategia fa il suo mestiere, sapeva che per essere sicuro di una sua elezione doveva finire la carriera con il botto e non con un non caso.
Intanto si rivolse al suo fido: “Gerosò, sai chi era il medico della signora Elena?”
“Ovviamente non è stato così difficile, tra l’altro è un suo amico”, rispose lui.
“Ma chi è Ferrarese?”, disse il commissario, potendo indovinare subito.
“Si commissario; ho provato ad intercettarlo, a chiamarlo al telefono, ma non è stato possibile. Era irreperibile ieri”.
“Non ti preoccupare, adesso lo chiamo io, perché se vede un numero che non conosce non risponde perché pensa ad un paziente che rompe le scatole fuori orario”, rispose Lombardi, con l’aria di chi conosce i suoi polli.
“Enrico, mi senti? Lo so che non si sente benissimo, ma sto in macchina. Sto andando a Milano. Tu dici che devo accettare la candidatura? Bè non è facile per me lo sai, sarebbe cambiar vita e abitudini. Credi che potrei sfondare in campo politico? Anche io non credo che sia così difficile. Comunque, senti sto andando a Milano per lavoro, volevo chiederti una cosa: ti ricordi di Elena Grandi? Che mi sai dire? Si lo so che hai comunicato tutte le informazioni a Mariani e alla scientifica, ma dico sul personaggio, sulla persona ecco. Era bellissima? Lo immagino! ma oltre questo? Veniva spesso? Dici di sì? Dici che l’ hai vista un po’ strana nelle ultime visite di controlli? Senti ma perché così giovane, già faceva tutti quei controlli? Dici perché in famiglia ci sono stati casi di embolia? Prendeva medicinali? Nulla tranne l’insulina? Va bene. Senti poi ci mettiamo a cena a parlar di un mio possibile coinvolgimento in politica ok? Ti saluto e salutami tua moglie”. Richiuse la telefonata e si rivolse al guidatore: “Il medico mi ha detto che la signora negli ultime tempi era un po’ strana, era molto ansiosa. Ovviamente Enrico non era il suo confessore e quindi non può sapere l’origine dell’ansia, esclude però un evento di tipo medico. Ora non ci rimane che andar a trovar i genitori, hai imparato la strada?”.
Gerosolimo rispose stizzito: “Dottò e il navigatore che lo abbiamo a fare?”.
“Ehhhh Gerosolimo che c’è? Nervoso? Comunque l’importante è che mi porti da loro”.
Non parlarono per un po’.

Si ritrovarono nella villa dei Signoris, i genitori di Elena Signoris in Grandi. La villa era a dir poco meravigliosa. Entrandoci Lombardi si chiedeva come ha potuta Elena lasciar quella vita agiata per vivere con un professore delle superiori a Sulmona, in un appartamento non molto più grande di quello che abitava lui. Si rispondeva anche: “I misteri della vita!”.
Si misero tutti e quattro, Lombardi, Gerosolimo, i genitori di Elena, intorno ad un tavolo rotondo, imbandito di pasticcini e the al limone o con il latte in puro stile inglese. Dopo i convenevoli, Lombardi fece una prima domanda: “Signori miei ma come mai credete che vostra figlia sia stata uccisa? E perché ve la prendete con Grandi? Io ho parlato con il professore e mi è sembrato una brava persona”.
“Caro Lombardi, la conosciamo di fama, sappiamo del suo intuito che non sbaglia mai. Ma lei non deve dubitare delle intuizioni di un genitore. Noi non sappiamo se qualcuno l’abbia uccisa in effetti, ma Elena è stata qui pochi giorni prima che morisse. Non veniva mai qui su. Sa, noi non eravamo d’accordo con la sua decisione di andar a vivere a Sulmona; Grandi è sicuramente una brava persona, ma Elena forse meritava di più. È sempre stata un po’ ribelle come ragazza e voleva far di testa sua. Noi, nonostante le critiche non le abbiamo mai fatto mancar il nostro affetto”. Il padre era molto fermo in queste sue affermazioni, mentre si notava come la mamma era ancora affranta dal dolore.
“Come mai venne su? Che motivazioni prese?”, chiese lo sceriffo.
Intervenne la mamma: “Io capii subito che c’era qualcosa che non andava, ma non capivo cosa, e lei diceva sempre che era una visita di cortesia”.
“Aveva problemi con il marito che voi sappiate?”.
“Non credo, me lo avrebbe detto, anzi mi disse che stavano progettando di aver un bimbo”, evidentemente la figlia non disse nulla ai genitori dell’incapacità del genero ad aver figli.
“Posso veder la stanza di vostra figlia?”, chiese lo sceriffo e fu accontentato; appena fu lasciato con il suo inferiore disse: “Bene ora cerchiamo Gerosò!”.
Il capitano rispose: “Che dobbiamo cercare?”.
Lombardi sbottò: “Tutto ti devo dì! Qualunque cosa ci possa aiutare nelle indagini, ti va bene così?”.
Non ci fu risposta e cominciarono a cercare e trovarono dentro un cassetto un pezzettino di una scatola di una medicina il cui nome era Tri-Cyclen. Lo trovò Gerosolimo tutto soddisfatto. Il commissario se lo mise in tasca e uscirono dalla stanza. Diede il suo numero privato ai genitori di Elena e salutarono i due che chiesero allo sceriffo d’Italia di concludere al più presto le indagini, anche perché era tutta pubblicità negativa per l’azienda di famiglia.
Appena usciti da villa Signoris, Lombardi telefonò di nuovo a Ferrarese. “Scusa Enrico prometto che non ti disturbo più, ma devo farti una domanda”.
“Dimmi tutto lo sai che per te ci sono sempre no”, rispose il dottore invitando intanto un paziente a spogliarsi e mettersi sul lettino.
“Che cosa è il Tri-Cyclen? È per il diabete?”, chiese il commissario.
“Caro Lombardi, tu saprai tanto di indagini, ma di medicine non ti intendi per nulla. Il Tri-Cyclen è un prodotto recente; è stato già approvato dalla Food and Drug Administration negli Usa per il trattamento di acne in donne che intendono assumere un contraccettivo orale e che non avevano avuto risultati con i farmaci per il trattamento dell’acne. Ma perché mi fai questa domanda?”
“Perché lo usava Elena, lo prescrivevi tu?”, chiese Lombardi.
“Ovviamente no! Il marito era sterile che serviva? A meno che…”, intuì il medico.
“Eh si a meno che! Ora dobbiamo trovar quale medico qui a Milano prescriveva questa medicina alla donna e dobbiamo scoprire chi era l’amante”.
Il commissario Lombardi entrò di nuovo nella villa e chiese alla mamma di Elena qual era il suo medico e la signora, che non aveva proferito nessuna parola, fino ad allora, indicò il loro medico di famiglia.
Passarono direttamente presso lo studio del dottor Berardinucci, non facendo la fila e non passando davanti ai rappresentanti, che di solito hanno il privilegio di passar davanti agli altri. Era stato lui a dar la medicina alla signora, in quanto la Elena le aveva raccontato il problema dovuto all’assunzione della pillola dovuta ai rapporti con il marito. Alla domanda se il dottore sapesse dei problemi del marito, la risposta fu no.
Il dottore era coetaneo della Elena, avevano fatto le scuole insieme a Milano: “Era una mia grande amica, ed anche quando si era trasferita in quel paesino in mezzo alle montagne, avevano una corrispondenza telematica e ci telefonavamo ogni tanto. Ho fatto anche il testimone alle nozze. Cosa penso di Grandi? Bè lui non lo conosco bene, però gli dissi che si doveva considerare fortunato ad aver trovato una donna così solare, benestante, con una voglia di vivere come si trova raramente nelle persone. Se era geloso di me e del rapporto che avevo con Elena? Questo non glielo so dire, forse sì e se lo era ne aveva parlato con la moglie, non con me. Ora scusatemi che ci sono pazienti che aspettano”.
Lombardi salutò ma prima di uscir dallo studio chiese: “Lei che avrebbe fatto se una donna come la Elena l’avesse tradita?”.
“Bè se una donna tradisce lo fa perché l’uomo non riesce a dar a lei quello che vuole, e la donna lo cerca in un altro”.
“Lei giustifica il tradimento?”, chiese il commissario.
“Dottor Lombardi mi vuole metter in bocca parole che non ho detto; dico solo che se Elena ha tradito, e sottolineo se, vuol dire che Grandi era un pazzo perché non dare tutto se stesso a quella donna è da pazzi. Purtroppo se ha tradito o no, da lei non potremo più saperlo, giusto?”.
“Giusto”. Rispose laconicamente.
Nella mente dello sceriffo d’Italia cominciava a formarsi un sottile sospetto, perché la gelosia è uno dei moventi più diffusi all’interno dei reati contro la persona. L’uomo, benché con addosso chili di cultura, di professione e di belle parole, ridiventa un lupo quando vede la sua donna nelle braccia di un altro, alle volte non c’è bisogno neanche di veder, basta un leggero sospetto su quello che la donna avrebbe potuto fare. D’altronde l’amore ha questa doppia natura: felicità, sorrisi e voglia di vivere, dolore, lacrime e sangue; anche il più mite uomo sulla terra avrebbe potuto far pazzie per amore, forse era il caso di Grandi.
Mentre Lombardi e Gerosolimo andavano a Milano, nella sede a Sulmona si erano ricostruiti gli spostamenti delle ultime settimane della Elena e le sue telefonate, molte al numero del dottore; la Elena andava negli ultime mesi a Milano ogni due settimane,
“Commissario, secondo me quel dottore lì, con quei baffetti, non me la racconta molto giusta”, disse Gerosolimo in macchina al suo superiore mentre stavano tornando a Sulmona.
“Gerosò, neanche a me piace assai, secondo me aveva una tresca con la donna”, rispose lui.
“Allora che si fa lo arrestiamo?”, chiese Gerosolimo.
“Proprio no, prima di tutto perché anche se ha messo le corna a Grandi, non ha commesso reato, poi perché, sebbene sia truffaldino d’amore, non ce lo vedo come assassino”.

Il professor Grandi intanto era diventato Preside della scuola, poiché il preside era andato in pensione anticipata. In quei mesi quel professore, invecchiato non tanto per l’età, ma quanto per il dolore causato dalla mancanza dell’adorata moglie, aveva creato tanto entusiasmo tra i gli studenti che era ben voluto; i colleghi lo contattavano per esporre qualsiasi idea che avrebbe potuto essere tradotta in progetti per i ragazzi e per fa crescere il livello di istruzione oltre quello previsto dalla scuola. Si era così parlato di questo professore e delle sue iniziative che erano cresciuti anche il numero degli iscritti al liceo per il prossimo anno. Era il primo ad entrar a scuola e l’ultimo ad uscir, era quello che parlava e si confidava con i giovani, era un buon professore come pochi se ne ricordavano in quella scuola.
L’ultimo progetto era legato ad un seminario sull’educazione sessuale per i giovani, fatto da giovani per i giovani. Un giorno venne richiesto l’intervento anche del nuovo Preside per parlar di amore.
Prima di entrar un aula Grandi vide la volante della Polizia fuori, in piazza. Vide entra Lombardi e il suo assistente. Grandi gli andò incontro e gli disse: “Dottore, posso far la mia ultima lezione?”, disse il professore. Il commissario annuì.
Quando entrò in aula ci fu un grande applauso da parte dei ragazzi.
“Grazie ragazzi, così mi mettete a disagio”, una lacrima uscì dai suoi occhi.
“Sono qui non tanto per parlar di sesso, perché qui ci sono bravi insegnanti che sanno dire bene certe cose, io posso parlar dell’amore. La nostra scuola è intitolata ad Ovidio, un grande poeta, scrisse un libro che parlava dell’arte di amare; mi chiede se veramente esiste un modo unico per amar una persona, se è possibile scrivere e lasciar istruzioni a chi legge su come sedurre e tener a sé una donna. Io questo non lo credo, credo che ogni coppia debba costruire il proprio affetto sulle loro conoscenze, sulle loro esperienze. Io così ho fatto con mia moglie. Le ho dato tutto quello che avevo, peccato però che il mio tutto non era abbastanza, a causa della impossibilità di generare figli. Ma noi ci volevamo bene”, nella sua voce ci fu un attimo di indecisione, “fino a che… fino a che lei non mi disse che aveva un altro, mi disse che l’ossessione mia che lei si allontanata da me a causa di questo mi difetto era sbagliato. Ecco l’amore qui mi ha usato, l’aspetto negativo dell’amore mi ha manovrato e mi ha fatto avvelenare mia moglie con le stesse pasticche che prendeva lei per evitar di avere dall’amante quello che io non potevo darle cioè un figlio. State vicini a chi amate e non fatevi prendere dalla rabbia per cose che nascono da errori vostri. Io in questi giorni ho dormita male, mi sono svegliato con la consapevolezza che ho ucciso mia moglie. Commissario venga”.
Il silenzio fu tetro nella stanza, l’unico rumore era fatto dai passi degli agenti che presero in consegna il professore.

Ci fu una conferenza stampa affollata; le televisioni parlarono di nuovo dello sceriffo d’Italia che aveva colpito ancora. Il Grande Vecchio della politica gli diede l’ennesima pacca sulla spalla, per aver scovato un assassino incredibile. Dopo le numerose domande dei giornalisti, il commissario ringraziò tutti, si alzò e se ne andò.
Il p.m. si congratulò con il commissario e gli chiese: “Ora che succede?”.
Il commissario disse:”Dottore, la devo ringraziare, perché non credevo in questo caso; che succede ora? Succede che mi candido e mi butto in politica. Devo cavalcare l’onda”.
Salutò Gerosolimo e il p.m. e andò a casa.
Lo aspettava Sally.

Id: 26 Data: 05/12/2007

*

Un camionista immaginario

Ogni persona ha una visione della vita, diversa da chi gli sta accanto. Ci sono persone che vogliono viaggiare perché credono che la vita sia troppo corta per viverla solo in un posto fisso. C’è chi pensa tutto il contrario, pensa che la famiglia sia la cosa più importante e che la terra nella quale è nato sia la cosa più importante. C’è chi si dà allo sballo, chi pensa che la vita di adesso sia una preparazione a quello che deve venire dopo; c’è chi vive nella lussuria e chi nella miseria, chi pensa che vivere un giorno da leoni sia meglio di una lunga vita. Stefano però era uno di quelli che non sapeva cosa sapere. Alle domande senza risposta lui sostituiva altro, sostituiva l’affetto non ricambiato con sbronze di altri tempi, sostituiva il lento e inesorabile venir meno della vita, con un andazzo materialista e aderente alla vita moderna.

Stefano ha vissuto la sua vita, quella che lui chiamava la parte restante della sua vita, anche se aveva solo un po’ più di ventotto anni ma ne dimostrava almeno dieci in più, come una lenta agonia. Non guardava al suicidio come uno strumento valido per farla finita, non perché fosse un codardo, ma semplicemente perché era già morto trasformandosi in uno zombie errante dopo quello che era successo. La sua non era più un qualcosa da vivere, ma da far passare senza nessuna emozione. Non riusciva a vivere più, non riusciva più a gioire per il sorriso della sua sorellina oppure per una qualunque festa di famiglia. Era un automa, aspettava solo di finire di vivere la vita da camionista che conduceva; credeva che muovere un camion su quella autostrada poteva farlo sentire bene: non doveva parlare con nessuno, non aveva amicizie e quindi né obblighi con qualcuno, né coinvolgimenti per i suoi sentimenti. Perché dopo quello che era successo, non voleva più che la sua vita venisse stravolta di nuovo in quel modo. Meglio avere colloqui occasionali con dei colleghi conosciuti in autogrill e parlare di come l’azienda sfrutta la categoria e di come sia stressante fare quel lavoro; meglio fare sesso occasionale con ragazze incontrate un giorno e mai più riviste, donne che almeno per trenta minuti ti trattano come un Dio e che poi ti lasciano andare, senza lacrime e piagnistei di alcun genere.
Come una sorte di litania, Stefano era tornato nella sua città a sostare per alcuni momenti davanti a quella foto ad ammirarla; erano passati vari anni ma quel giorno, il due di aprile; andava, ogni volta da lui, non per pregare, perché a Dio non ci credeva, ma era lì per raccontargli quello che lui stava facendo nella vita, come cercava di sopravvivere ad una esistenza oramai misera e gretta e volta solo al pentimento.
Da quando accadde quell’incidente, la sua pancia aumentava, i suoi capelli cominciavano ad essere di meno e la barba diventava sempre più folta. Il prima e il dopo, il sorriso e la lacrima, la voglia di vivere e la voglia di farla finita il più presto possibile; questo cambiamento tutto in una notte, all’ apparenza, calda e accogliente come sono le sere estive, ma in fondo fredde come il gelido inverno prima della fine.
Aveva 15 anni quando ripeté il primo anno del liceo; Stefano non aveva voglia di studiare in quel periodo, era più propenso a costituirsi una certa cultura alternativa a quello che la scuola voleva imporre alla sua mente. Amava leggere Benni e non Manzoni, amava sognare con la beat generation e aveva gli incubi con Pirandello. Odiava la matematica ed amava il suo strumento, quel basso nero a quattro corde: bastava un mi per far tremare la sua stanza e vedere, ogni tanto, sbraitare la mamma perché si era rotto qualcosa che era caduto sul pavimento a causa delle vibrazioni. Amava gli Yes e i Pink Floyd e l’album Animal di quest’ultimo gruppo. Lui amava quei tipi di ritmi che passavano da un tempo ad un altro in maniera improvvisa come avveniva con gli Yes, ma anche quel tipo di suono che i Pink erano riusciti a costruire con scelte anche dolorose. A pensarci dopo tanti anni, aveva compreso che tanto di alternativo in quelle idee non c’era proprio nulla, dato che tutti quanti leggevano quella roba e tanti sentivano cose che non piacciono alla massa, ma questa era la sua vita: la musica e gli scrittori americani, questo era il mondo di Stefano. Pensava che quel mondo che si era costruito poteva rimanere tale per sempre, era il uno stato mentale, soprattutto, dove immagazzinare tutte le sue informazioni, i suoi ricordi e le sue emozioni. Nessuno avrebbe potuto infrangere quel muro di difesa. Nessuno. L’anno 2000 fu un anno di transizione in una nuova prospettiva: fu l’anno in cui incontrò non un amico, ma l’amico fraterno.
Era l’anno del Giubileo, l’anno della redenzione. I genitori di Stefano erano molto cattolici, ed un giorno a tavola gli fecero il discorso che più o meno tutti i ragazzi che non vogliono studiare, si sentono dire. Davanti ad un piatto di tagliatelle al sugo il padre gli disse che se non aveva più voglia di studiare poteva cominciare a lavorare nell’azienda di famiglia. Si erano stufati di avere un figlio così fuori le regole, uno che rifiutava di avere un’istruzione come tutti, uno che voleva far tutto non pensando alle conseguenze e a un futuro da costruire, non considerando il fatto che i genitori lavoravano per farlo studiare . In più, cosa che aveva sempre disturbato Stefano, lo paragonavano sempre al figlio dei vicini, Andrea, coetaneo, ma diverso in tutto e per tutto. Era un preciso niente male, vestiva bene, aveva una buona proprietà di linguaggio e veniva amato da tutti. Ci aveva provato Stefano a lavorare per il padre in uno dei suoi cantieri. Non si sentiva a suo agio, perché, quando l’estate cercava di guadagnarsi dei soldi per la vacanza, lavorare per il papà, significava un sacrificio doppio, poiché in quei mesi, non solo doveva sottostare agli ordini del padre a casa, ma doveva anche sottostare a lui, nel luogo di lavoro. In quei casi doveva anche sentirsi dire quante belle opere, il padre, avesse fatto per la città e, rivolgendosi al figlio, le enumerava e gliele mostrava, aggiungendo che, per come vedeva la crescita di Stefano, nutriva seri dubbi nel lasciare l’eredità al suo successore naturale. “Meglio chiuderla subito l’azienda che infangare il nome dandola a chi potrebbe solo costruire brutte case”. Si capisce, quindi, il perché il buon Stefano, genuino, e poco propenso a far passare inosservato queste accuse, preferiva più un lavoro da cameriere estivo che nell’azienda di famiglia.
Erano cattolici i suoi genitori e, quindi, pensarono che l’unico rimedio per rendere migliore il proprio figlio, era quello di portarlo con loro da Padre Pio; magari il frate lo avrebbe fatto redimere nell’anno del Giubileo. Ma non fu così, anzi fu un rimedio peggio del male; l’unica cosa che riusciva a vedere Stefano in quella città era la mercificazione della religione. Dovunque si girava vedeva quelle foto di Padre Pio di qualunque forma e colore. C’era il bagnoschiuma santo, la saponetta con l’immagine del volto, i santini di tutte le forme e di tutte i materiali. Vedeva poveri sventurati che compravano tutto quello che potevano comprare, pensando che poteva essere un modo per aiutarli nel far sparire una malattia. Immaginava che anche la persona meno credente di questo di mondo e più razionale si sarebbe avvicinato ad un qualunque Dio che gli avesse promesso la guarigione per il proprio caro, zio o fratello. L’umanità è decisa a corrompere i suoi principi e la sua etica, quando sopraggiunge disperazione e dolore. C’era da criticarli? Stefano non poteva, perché comprendeva il disagio e la forza di quelle persone che cercavano o facevano finta di credere in qualcosa che non per loro, fino a cinque minuti prima, non poteva esistere. Non riusciva a criticarli ma questo più che far avvicinare il ragazzo alla religione, lo allontanò in maniera definitiva.
Chiunque nell’età della giovinezza ha incontrato una persona importante, una persona che forse passati i cinque anni delle superiori, non si rivede più, ma con la quale si sono attraversate le esperienze vitali e necessarie di un passaggio da una età all’altra. Questa volta toccava a lui; sentiva già che qualcosa in lui stava cambiando. Del cambiamento aveva paura perché, ben cosciente dell’evoluzione del suo corpo e della sua mente, del mondo che gli girava intorno, non sapeva che direzione avrebbe preso lui con quelle trasformazioni, e quando non si sa cosa dove si andrà, la paura e l’ansia sono i primi sentimenti ad essere conosciuti. Un buio come al poker dove si punta forte senza sapere quello che si ha in mano, consapevole anche di poter perdere tutto quello che aveva guadagnato. Entrare in una classe costituita da ragazzi al primo anno fu micidiale: sentì gli stessi discorsi fatti l’anno prima a lui e ai suoi, ormai, ex compagni, e questo gli fece cambiare idea su quello che poteva essere una sua aspirazione, ben nascosta: l’insegnamento. Lui voleva essere un insegnante alla “attimo fuggente”, salire sopra la cattedra e decantare una poesia di un poeta maledetto, voleva portare i suoi ragazzi a fare lezioni all’aperto, voleva parlare di quello cose di cui l’insegnante non parla mai. Però si accorse dopo quel giorno che sicuramente avrebbe perso gli stimoli dato che avrebbe dovuto ripetere la cosa all’infinito per 30 anni, passando sempre per studenti simili e sempre più annoiati dalla scuola, da tutto ciò che fa istituzione. Salire a 60 anni su un banco, a lungo andare e con l’età avanzante, non sarebbe stato facile! Sarebbe stato di una monotonia micidiale e quindi, a quel punto, pensò, di darsi seriamente alla musica, dove ci si può rinnovare continuamente, senza dover pensare a chi ti sta davanti e a chi ti ascolta. Quella scuola poi…Non c’era nulla di più brutto nel vedere tanti ragazzi fatti con una matrice, come fossero tanti giapponesi, tutti uguali, tutti rappresentativi di un certo carattere umano. Giovani nati con la televisione incorporata, con il chip nel cervello come nei film di Matrix, nati a tronisti e realisti, la cui più importante intenzione e aspirazione è apparire, apparire e apparire ancora, anche non nel primo piano di una telecamera, ma alle spalle di chi è intervistato o inquadrato. Le ragazzine con il pantalone a vita bassa, il perizoma bello in vista quando ci si siede e i maschietti, ancora non sviluppati benissimo, a pompare il pomeriggio in palestra dopo avere eliminati i primi peli dal petto e dopo una bella lampada abbronzante. Nella scuola non erano tutti così comunque: questi erano la maggior parte, ma poi c’erano anche quelli che non si piegavano alla legge unica, al fatto di volere essere un’ icona ed avere aspirazioni di successo. Lui al posto di vedere quell’ambiente fatto in quel modo, supponendo la falsità o la non verità di chi gli stava attorno, preferiva non avere rapporti con i suoi compagni più profondi di quello che può superare l’educazione. Non voleva andare oltre, voleva che loro non molestassero lui e viceversa, essendo poi il ragazzo più grande della classe dettava legge, e le ragazze lo stavano a sentire.
Anche durante la ricreazione si isolava il più delle volte, con la sua sigaretta, la sua camicia e quei capelli composti. Ogni tanto si chiacchierava e si scambiavano battute con i nuovi compagni: non erano antipatici o stupidi, semplicemente non li sentiva sulla sua stessa lunghezza d’onda e per questo si trattava di una conoscenza superficiale al massimo. Il suo banco era pieno di scritte sulla libertà, sul volere essere il giudice di se stesso. Stefano, già in giovane età, aveva una pancetta niente male, causata da ettolitri di birra, la sua bevanda preferita: il sabato così funzionava; sigarette e alcool, senza pensarci due volte. Questo lo faceva forse per farsi male, o per la sua insoddisfazione per la vita, oppure perché semplicemente era un fesso lui. Sotto lo spirito del dio Bacco prendeva il suo basso, metteva le cuffie e suonava fino la mattina. Questo, nonostante i suoi 15 anni, ma in quella città piena di desolazione, di freddo non per il clima ma per i rapporti tra cittadini, per il grigiore più totale, il non essere considerato un figlio modello, rappresentava, in quel preciso momento, l’unica via per ribellarsi. Con senno di poi, Stefano, guidando il suo camion, avrebbe capito che anche quel suo modo di fare era uno stereotipo e che forse più che fingere di essere un ribelle sarebbe stato meglio essere se stessi. Se avesse saputo queste cose a 15 poteva considerarsi un genio o un saggio dell’umanità.
Alla fine come dargli torto? Che si poteva fare di più in una città senza prospettive, senza un futuro davanti? Lui era uno di quei ragazzi che sapeva che il suo futuro non era lì, perché come lui, già altri compagni, amici e nemici, avevano preso un treno e non erano tornati più. La tv parlava di mobilità e del fatto che chi cominciava a lavorare doveva capire che un lavoro come quello dei padri non ci poteva essere più. Basta con la stabilità. Sapeva, Stefano, che parole come flessibilità e mobilità, rappresentavano la morte della famiglia e quindi si chiedeva se era conveniente crearne una. Il suo progetto, a questo punto, era diventare un cantante, girare il mondo, perché a lui, figlio di genitori qualunque, non erano aperte le porte del paradiso.
Essendo un liceo pieno di donne e la sua classe non faceva eccezione, le lezioni di educazione fisica venivano condivise con un’altra classe, classe contigua con la sua, nella quale vi erano tutti ragazzi un po’ moscetti, un po’ insignificanti a prima vista.
Tra tanti ragazzi tutti uguali, anche bassi, in quanto si trattava sempre di ragazzi appena usciti dalle medie, vi era un ragazzo alto, capellone, con un giubbino con tante spille, spillette e dei jeans strappati. Si vedeva subito che era un tipo diverso dal normale e dall’ordinario. Stefano rimase subito affascinato da quel tipo e la cosa fu ricambiata, forse perché inconsciamente, si vedevano come due mondi esclusi dal resto ma così luminosi da riconoscersi subito in mezzo ad una massa di stelle tutte uguali tra di loro e senza nulla da dire.
Luca, così si chiamava il tipo, era un ragazzo con una mentalità aperta. Questa impostazione nell’ approccio alla vita fu un dono ricevuto dal padre viaggiatore. La storia della famiglia Cantorini, era molto bella e lo stesso Luca ne andava fiero, perché così diversa dall’ordinario che poteva essere invidiata dall’ascoltatore. Il padre di Luca era un pittore molto apprezzato in Europa e per forza di cose, doveva spostarsi lì dove il lavoro lo chiamava e lì dove la sua creatività diceva di andare per immortalare nella tela il suo modo di vedere la vita e le cose. In questo girovagare, Luca fu il frutto di una notte d’amore con una donna, modella del padre; i due si amavano e Luca, rimaneva con la mamma, quando il padre partiva per i mesi e lo vedeva solo quando si connetteva da qualche internet café. Purtroppo la mamma morì subito per un ictus, e Luca cominciò a viaggiare con il padre, portando sempre con sé la tela dove la mamma era raffigurata così giovane e bella, senza una ruga, con un sorriso che poi era lo stesso sorriso di Luca. Non poteva finire la scuola in un posto e non riusciva a costituirsi amicizie durature; molte amicizie da fisiche diventavano virtuali, ma non era la stessa cosa. In compenso, con il padre, Luca ebbe la fortuna di visitare i Paesi europei, di vedere come le altre popolazioni vivevano e come mangiavano, come facevano l’amore e quale era il livello d’integrazione di una popolazione con gli immigrati. Stefano vedeva se stesso in Luca, lui che era confinato in quella città che non dava possibilità di esprimersi e che lo respingeva nel ghetto dell’indifferenza.
Fecero subito amicizia anche perché la musica era la cosa che li univa; Stefano stando in piccolo paesino non poteva sapere cosa succedeva in giro, cosa si ascolta a Londra o a Amsterdam. Un giorno Stefano stava studiando Cicerone in taverna quando sopraggiunse di colpo Luca con alcuni album musicali: aveva i Kaiser Chiefs, i Franz Ferdinand, i Bloc Party e gli Strokes. Si trattava del nuovo rock and roll anglo americano. Arrivò e tolse quella musica vecchia e stravecchia che girava ancora nello stereo dell’amico. Stefano gli chiese che stava facendo e lui, con quei capelli colorati, gli disse: “Zitto e ascolta”. Mise “J predict a riot” dei Kaiser e poi aggiunse: “Noi dobbiamo suonare così”. Stefano rispose: “ Io non ho mai suonato in un gruppo, un po’ mi vergogno; secondo te sarei capace? “. Luca prese il viso di Stefano tra le mani e fissandolo negli occhi, affermò a chiare lettere: “ senti se sono riusciti a suonare i Sex Pistols, puoi riuscirci anche tu!”. Poi Luca cominciò a pogare da solo in quella stanzetta mentre l’altro, seduto, con la testa, accompagnava il ritmo della canzone. Decisero di mettere su un gruppo: Stefano al basso e Luca alla voce; canzoni loro e testi in inglese, con un sound ispirato al nuovo movimento inglese rifacente ai Clash e al rock da ballare.
Non fu difficile trovare nuovi adepti e contenti del progetto musicale, perché Luca a scuola era una sorta di simbolo di ribellione ma solo in apparenza, era amato dalle donne per la sua altezza, i suoi capelli scapigliati, il suo saperci fare, il sorriso da canaglia che tanto piace al genere femminile. Non era un grandissimo cantante, ma dai musicisti veniva rispettato per le idee e perché ci metteva l’anima in quello che faceva, anima e sudore. La tecnica la puoi affinare nel tempo, ma il talento e la passione nascono da dentro e sono innate, hanno bisogno solo di una miccia e di un fuoco che li faccia bruciare.Luca era tutto quello che Stefano voleva essere, era il simbolo di una libertà adolescenziale, quel tipo di libertà alle volte frutto di stereotipi, quando si rinnega la famiglia, si vuole l’indipendenza, una indipendenza tutta falsa, fatta con i soldi di papà. I genitori di Stefano, comunque,erano preoccupati da questa amicizia, poco produttiva; essi però non sapendo come tirare su quel figlio, che per il padre era solo un inetto e un fallito, si rivolsero ad uno psicologo, e anche Stefano fu obbligato ad andare alle sedute se voleva mettere in pratica i suoi progetti. Stefano rispondeva alle domande del dottore in maniera poco precisa, dato che la presenza dei suoi lo frenava. Il consiglio dello psicologo fu però rivolto soprattutto ai suoi genitori e questa per lui fu una vittoria, in una esistenza vissuta sotto l’egida di un padre – padrone, bravo solo a criticare e a rimproverare il figlio. Volenti o nolenti, i genitori dovevano limitarsi a dare consigli, ma il figlio non aveva l’obbligo di seguirli, perché la vita, sosteneva il dottore, deve essere costruita da sé, anche con gli sbagli che un ragazzo di quella età poteva fare. Stefano, invece, era tutto quello che Luca voleva essere. Egli aveva trovato una famiglia, un’isola stabile alla quale approdare e non poteva non essere felice per questo. Con il padre assente lavoro, senza la madre naturale, la madre di Stefano, nonostante un approccio un po’ problematico dovuto ai pregiudizi della signora, su un giovane girandolone e che si vestiva in quel modo, l’aveva sostituita, e la casa in via Pertini era diventata la sua casa. Nonostante questa voglia dell’uno di essere l’altro, erano consapevoli, i due ragazzi, delle mancanze dell’amico, e quindi la sola cosa da fare, cosa che fecero, fu quella di far rivivere le proprie esperienze all’altro in modo tale da completarsi. Questo avveniva in maniera molto naturale e continuamente con la parola, con la musica e con l’alcool. In poco tempo quei due ragazzi divennero una sorta di coppia famosa della scuola, ragazzi che non volendo diventavano “famosi”, essendo invitati a suonare alle feste degli amici oppure essendo invitati, semplicemente, alle feste dalle ragazzine con la pancia di fuori e il perizoma che si vedeva.

Quando Stefano viaggiava sul suo camion, aveva la voglia di evadere dalla realtà. Quella strada sempre dritta, con poche curve, rappresentava la monotonia della vita, alla quale lui aspirava. Una vita più monotona di quella non c’era: prendeva il camion, caricava le merci, le portava a destinazione e faceva il percorso inverso. Dei suoi vecchi amici non sentiva più nessuno, se non alle feste comandate, quando tornava per Natale a trovare i suoi vecchi genitori. Egli non credeva da tempo al Natale, alla storia di un bimbo nato nella mangiatoia e riscaldato dagli animali. Era sì convinto di un messaggio compreso in quell’immagine: la voglia di disprezzare i soldi e le comodità, ma non per i voti ad una fede, ma perché la ricchezza distrugge la vita, la inquina e la fa diventare nera, come la notte senza luna. Il vedere i suoi ex amici ambire sempre a posizioni più alte nella piramide sociale, aspirare a redditi per comprare cose inutili lo faceva rabbrividire. Lui che era camionista sapeva il valore del lavoro e che non ha la stessa utilità il lavoro di un camionista con quello di un calciatore. La scelta di diventare camionista, la missione di poter fare arrivare, con la neve, il traffico, gli incidenti, le cose, l’afa e gli scioperi, la merce alla meta era una cosa più utile e più soddisfacente, ma ovviamente pagata di meno. Lui rigettava l’idea di una società basata sull’immagine, su uomini senza idee, uomini nei quali, però si identificavano altri uomini. L’aspirazione verso il nulla, porta al buio della mente. Il buio della mente, porta alla mancanza della creatività e senza la creatività l’uomo è nulla e il genere umano si ripiega su se stesso, si accartoccia, fino ad implodere come una supernova. Il suo essere consapevole della mediocrità insita nel genere umano, la perduta innocenza e mancanza di creatività lo hanno portato a ricercare una via, in questo modo, senza proclami e senza un fine specifico. La sua pancia cresceva e i capelli diventavano di meno, ma la perdita dell’amico più caro e la sfiducia in un domani sereno lo aveva convinto che viaggiare come un moderno Diogene, per l’Italia e per il mondo, alla ricerca dei posti più sperduti, cercando quello che lui aveva perduto, negli occhi di una persona incontrata per caso, poteva essere il modo giusto. Non sorrideva più, non piangeva più, il suo viso era segnato dal triste avvenimento, di cui non si capacitava tuttora. Le sue amicizie durante il viaggio duravano un pranzo insieme o una notte con le donne appostate sulla strada con le tette di fuori, quell’accento straniero, probabilmente dell’est. In quelle donne rivedeva se stesso: il loro sguardo aveva perso la luce della vita; Stefano intuiva che solo loro, donne ghettizzate e sfruttate, sottoposte al duro disegno di Dio o del destino, potevano comprenderlo. Con nessuna però volle approfondire la conoscenza, voleva solo avere un piacere momentaneo, voleva solo qualcuno con cui parlare per le ore di riposo, aveva paura di poter ricadere in quella serata, di essere di nuovo afferrato dalla mano della disperazione.

Bere la prima birra in compagnia di amici, rendeva il gruppo più stretto e faceva di ogni ragazzo un “uomo”. Luca era il leader, era lui che incitava il suo gruppo a bere. C’era Stefano, c’era lo Smilzo, c’era Matteo il bravo ragazzo, e c’era Luisa, la ragazza trasgressiva, quella che si sentiva più maschio che donna, con le sue catene attaccate ai pantaloni e il piercing alla lingua. Stefano, ancora, nella bocca, ripensandoci, sentiva ancora, ripensando mentre guidava il camion a quel momento, il sapore di quella prima Guiness nera, della prima, della seconda, della terza e della quarta. Si alzò barcollando fino a rotolare come una palla lungo gli scalini sui quali vi era il bar più frequentato dai giovani. Prima del ruzzolone furono molte le risate fatte e le scemenze dette. Erano le solite frasi che vengono pensate e dette da un gruppo di semplici adolescenti:il concetto di unione per sempre, l’impossibile distacco e l’eliminazione di ogni ostacolo che, nel futuro, potrebbe porsi alla ripetizione di quelle risate e di quegli intenti. Era quello il tempo in cui Stefano credeva nell’amicizia, era quello il periodo nel supponeva che bastasse la spalla di un altro, per poter evitare di cadere nel vuoto. Era orgoglioso di quei ragazzi, che lo accompagnavano nelle esecuzioni di brani mitici, di quei ragazzi, che seppur stremati, alzavano il calice della felicità passeggera, pronta a scappare via, per far posto ai dubbi, alle indecisioni e a un gran mal di testa. Il ruzzolone fu così violento che Stefano perse i sensi e si svegliò direttamente in ospedale, in osservazione per 24 ore, causa trauma cranico. Nel dormiveglia, vedeva la luce bianca, soffice e che sapeva di zucchero a velo. Poi ad un certo punto il mare e la spiaggia. Avete presente quelle foto dei Caraibi, con l’acqua azzurra, quasi bianca in certi punti, con le ragazze che muovono le loro curve sinuose sulla battigia e quei seni sporgenti, racchiusi in un piccolissimo ed esile costumino, che facevano su e giù. Lui era sdraiato a prendere il sole, e la sua testa faceva su e giù, adeguandosi a quel movimento. Si risvegliò baciando il cuscino, e con la voce del dottore che diceva: “Secondo me sta bene!”.
Quel rifugio paradisiaco era il posto dove voleva tornare nei giorni seguenti, nei quali era stato messo in punizione dalla mamma, la quale ripensava sempre a che figura suo figlio gli aveva fatto fare in città, essendo, la voce, circolata. La mamma si rivolgeva anche alla bimba più piccola implorandola di non fare quelle stesse scelte, tra una litigata e l’atra con il marito, il quale accusa la donna di avere pagato un dottore per nulla e anche incompetente, i risultati erano sotto i suoi occiùhi. La sorella di Stefano, invece, gli fece l’occhiolino come per dire che aveva la sua solidarietà. Dopo pochi giorni di riposo, riprese i contatti con gli amici e con Luca, il quale non aveva il coraggio di farsi ancora vedere dalla sua mamma adottiva.
“Come stai?”, chiese Luca con sms.
“Abbastanza bene, ormai ci sono abituato a queste scenate”.
Luca scrisse di nuovo:”Quando ci rivedremo?”
“Per adesso a scuola”, rispose digitalmente, il malinconico Stefano.
Non ci volle molto a essere ancora più popolare a scuola, dopo quella bravata. Chissà perché i ragazzi tendono a preferire come propri leader questo genere di ragazzi. Stefano non amava molto la popolarità, rimpiangeva quel banchetto in classe, che non veniva considerato da nessuno. Senza volerlo ci era caduto in mezzo, e ora aveva l’opzione di evitare tutto il clamore o cavalcarlo. Scelse questa seconda possibilità, spinto da Luca che gli proponeva di fare: “alcuni macelli”. Luca e Stefano, Stefano e Luca ormai le ragazze facevano a gara per averli. La prima ad andare con Stefano, fu quella che si dà ai più in vista, quella che si propone e che sa quello che piace al ragazzo. Per Stefano fu la prima volta, e in quella prima volta, dovette mostrare quell’imbarazzo che, nel pubblico, non si vedeva e questo a lui non piaceva. D’altro canto, quelle labbra così provocanti, quel seno accennato, diverso da quello visto nei suoi sogni, erano di suo gusto, perché i maschi amano la carne, bianca, nera, rossa, e non hanno problemi se loro si danno liberamente. La ragazza si stancò ben presto di Stefano, perché si era stancata del suo corpo, e quindi il ragazzo passò a quella che veniva dalla buona famiglia, che si vestiva bene, che amava i Gemelli Diversi e le canzoni d’amore. In effetti Stefano, sebbene insieme al compagno di venture, sembrasse un giovane amante delle sfide, nell’ambito privato era tutt’altro e quindi con lei ci stava bene. Luca, era invece il tipico ragazzo che non si innamorava, il ragazzo che fa ridere le donne e lui aveva l’intenzione di farne ridere un bel po’, non credeva, forse anche per la sua esperienza familiare, al rapporto di coppia. Era ancora immaturo, ma questa lezione l’aveva imparata benissimo. Aveva imparato che la stabilità e l’abitudine erano la morte dell’uomo e dell’amore. L’uomo, come suo padre Virgilio, cercava di insegnargli, doveva andare sempre alla ricerca di nuovi stimoli e non abitare sempre sotto lo stesso tetto, con le stesse facce intorno, gli stessi alberi che si vedevano rifiorire ad ogni primavera ed accompagnavano le varie fasi della vita, fino a che quegli alberi che ti hanno visto piccolo, poi grande e poi vecchio non ti vedevano morire nell’anonimato e con un misero annuncio attaccato sul muro di fronte casa. Ogni tanto Luca si fermava a vedere quei manifesti: “E’ morto Giovanni a 94 anni, è morta Stefania a 87 anni, è morto Tizio e ne da triste annuncio la famiglia”. Lui si chiedevano chi erano quelle persone, si domandava quale fosse stato il loro pensiero, l’ultimo, prima di morire. Sono morti contenti, sono morti con il dispiacere nel cuore? Nessuno lo potrà sapere se non qualche confidente, ove ce ne sia stata la possibilità e la voglia. Lui sarebbe stato contento di poter assistere al proprio funerale, poter morire e vedere chi ci sarebbe stato a piangere davanti alla sua tomba. Il padre sicuramente. Stefano e la sua famiglia, anche. Gli amici di scuola? Forse. Le tante ragazze che già a 17 anni poteva enumerare su due mani.

Con la neve non era difficile guidare il camion, perché era così pesante che un po’ di nevischio al nord non lo avrebbe spostato più di tanto; il fatto era che le macchine davano fastidio a lui e al suo camion. Vedeva quelle macchine impreparate al mal tempo, un po’ come i suoi ex compagni, che volevano spaccare il mondo, ma che un po’ di neve li ha impauriti, opprimendoli in una vita grigia, senza storia, né capo e né coda. Alla ricerca di un contratto e un posto fisso, oppure con l’illusione che bastasse una partita Iva a renderli liberi e padroni della loro vita. Le mistificazioni di uno stato dopano la mente dell’uomo, e lo rendono debole. Studiando la storia e la filosofia, poteva ammirare quel gran pensatori che hanno movimentato la storia del pensiero umano: Socrate, Platone e Aristotele, Kant, Niche, Napoleone, Ottaviano, Mazzini, Marconi, Fermi. C’erano gran pensatori negli anni della sua giovinezza degni di essere chiamati con quell’appellativo? Il mondo piatto come una soiola risultava essere mediocre ai suoi occhi. La tv con la sua mania generalista aveva aiutato l’appiattimento e l’uniformità de i cervelli, aveva imposto un pensiero-non pensiero per essere accessibile a più gente possibile. Le università aperte a tutti avevano contributo a creare una pletora di architetti, medici e ingegneri, giornalisti senza creatività, senza professionalità e mediocri nel curare il malato, nel costruire con palazzo e nel fare una struttura che potesse rappresentare la fierezza del genio umano. Anche la musica era intaccata dal virus della mediocrità: erano passati i tempi dei Franz Ferdinand e dei Nirvana, ora tutto veniva inglobato dalle grandi case discografiche che non accettano i diversi, ma solo cantanti griffati che intonano solo “Oh my Baby”. Forse aveva ragione Kurt quando decise di prendere la pistola e farsi in buco, grosso così in bocca. In questo momento della storia nella quale il pensiero uniforme aveva portato ad una sorta di Matrix reale, l’unica via era staccare la spina, non nel senso del suicidio, ma nel senso dell’isolamento del pensiero, far sì che l’individuo poteva rinascere come individuo, riportare l’io al soggetto principale di un discorso. Lui con il camion poteva essere più forte di quelle macchine impazzite che non avevano una meta bene precisa. Lui sapeva l’inizio e la fine del viaggio, poteva nei momenti di pausa, aprire di nuovo quel libro di filosofia, e cercare di capire e soprattutto prepararsi al prossimo esame.
Un aspetto fondamentale dell’essere camionista stava soprattutto nel sapere dove si mangiava meglio, e l’aspetto culinario era un elemento su cui Stefano non transigeva, anche se il suo dottore gli aveva consigliato di mangiare leggero, di farsi l’esame della prostata e stare attento alla pressione. Stefano si ricordava, quando dove scegliere un posto per sostare di quello che gli diceva in padre: “ Vuoi sapere dove si mangia bene, in un posto che non conosci? Trova i camion!”. Se a Stefano avessero tolto anche la tavola e le sigarette, ci sarebbe stato un buon motivo per girare di scatto il volante e buttarsi dal ponte. Quell’oretta seduto a mangiare in tranquillità le specialità delle varie regioni tra carne, verdure e produzioni vinicole lo portava a avere un orgasmo culinario non da poco. Tra i tanti i ristoranti vi era un agriturismo immerso nel verde, dove la pace imperava. La ragazza proprietaria aveva 27 anni. I suoi lunghi capelli biondi sembravano i raggi di sole che scaldano tutto ciò che vi intorno, sciogliendo la neve e i cuori freddi come quello di Stefano. Quei raggi avevano come epicentro due occhi celesti come il mare; lei era l’estate fatta persona, e lui lì ci andava per riscaldarsi da un freddo boia, e dalla gelida vita che lo accompagnava da quell’accidente. Lei era la vita, lei era l’amore, lei era tutto ciò che uomo può desiderare e avere. Quella bellezza fisica era accompagnata dal suo amore per la terra, il suo profumo assomigliava a quello dell’erba umida di prima mattina, le sue mani erano mani di una lavoratrice alla quale piace stare a contatto con il mondo agricolo, fatto di natura, di fatica e semplicità. Fabiana lavorava sola;il padre era un contadino di prima maniera cioè quello che conosce solo il suo lavoro e basta, con pochi rudimenti culturali ma con tanta generosità nel cuore. Quando ai suoi genitori smise di battere il cuore, dopo una lunga storia di amore, lei decise di prendere in mano l’azienda di famiglia anche perché di lavoro, in quelle zone, non mancava. Riuscì a rinnovare il posto, a ristrutturare la vecchia casa e adibirla a ristorante, colse l’opportunità di acquisire dei finanziamenti europei. In poco tempo quel posto divenne un ritrovo per chi voleva fermasi un week end, per chi voleva solo assaggiare la bontà di un’arte culinaria genuina facendo riassaporare dei gusti che si erano persi nel tempo. La piacevolezza del bere del buon vino portava Stefano a equiparare quell’arte di far nascere l’uva buona alla famiglia; ogni chicco d’uva doveva essere trattato come fosse un figlio per determinarne il giusto sapore zuccherino, quell’acidità necessaria che solletica il palato. Una cura maniacale determinata dalla volontà della proprietaria di ergersi rispetto agli altri, rispetto a chi rimaneva per pigrizia o per ignoranza a coltivare, è il proprio il caso di dirlo, il proprio orticello. Quel posto era fantastico: si trattava di un posto in altura, con una casetta di legno con pochi posti a sedere. L’aria era fresca e l’escursione termica era alta. Le prime volte Stefano dimenticava questo fatto e quindi doveva farsi prestare sempre una maglia di lana, che quella ragazza aveva imparato a mettergli sempre da parte. Con prezzo modico Stefano poteva ricordarsi gusti antichi come la pasta che sembrava fatta dalla mamma, poteva rivedere davanti ai suoi occhi, l’anziano padre che curava la carne da fare al forno. Era la cura del gusto e della mente. Fuori dal casale, vi erano ampi spazi verdi, rovinati solo dalle macchine degli ospiti dell’agriturismo. Vi erano i cavalli liberi che correvano, senza briglie, sul tappeto verde, dove la natura faceva il corso. Parlare a voce alta era un sacrilegio, non si voleva rovinare quella pace, e la gente si muoveva con circospezione, come se si aveva la paura di disturbare qualcuno. Stefano erano lontano da quei ricordi dolorosi, da quei momenti bui, dai clacson, dalle corna fatte a chi sorpassava in maniera errata. Sarebbe rimasto lì a vita, ma si conosceva e sapeva che la sua vita era piena di contraddizioni, che lui stesso era contraddittorio e complesso. Sapeva che un giorno si sarebbe alzato da quella sedia dalla quale ammirava l’orizzonte e avrebbe dato addio a tutti e a tutte. Non voleva spezzare il cuore anche a quella donna. Fabiana, con i suoi boccoli, i suoi occhi verdi, che qualcuno aveva ribattezzato gli occhi dell’amore, era sempre lì con il suo sorriso. Forse è stata l’unica donna alla quale Stefano raccontò la sua scelta, il perché, le modalità e quali erano le sue sofferenze. La lasciò di nuovo lì, a far sorrisi ai clienti, a controllare la vigna, aspettando un nuovo ritorno di Stefano, con il suo camion, seppur per pochi giorni.

Stare dietro a Luca cominciava ad essere sempre più difficile. Luca aveva proprio lo spirito dell’artista, di chi con le parole riesce a giocare ed estrarre qualcosa di unico e raro. Erano uno che con le note riusciva ed essere mai banale, uno che ha vissuto immerso nell’arte e che sapeva dare un significato particolare ad ogni colore. Stefano si sentiva umiliato da tutto ciò, perché lui era semplicemente un tecnico, uno che riusciva solo ad ottimizzare un’idea, ma non riusciva mai ad essere originale. Si sentiva inferiore all’amico, e questo senso di inferiorità portava ad una mancanza di comunicazione tra i due, più che mancanza, un difetto di comunicazione perché le loro categorie di pensiero erano nettamente diverse. Stefano forse si sentiva come il maestro di Mozart, o di altri geni, i quali insegnano, ma poi, pur contenti della dimensione acquistata dall’allievo, si sentono mortificati dal superamento stesso. Non riusciva a capire, allora il valore di quell’amicizia, si chiedeva cosa poteva dare di più all’amico, mentre lui avrebbe ricevuto ancora tantissimo. Si chiedeva anche come poteva essere possibile che lui, a 18 anni si facesse quelle domande idiote, mentre c’era una festa alla quale presenziare, mentre c’erano ragazzine calde, calde, da usare e mentre c’era un mondo ancora da vivere. La festa era di tre ragazzi, i quali decisero di festeggiare il compleanno insieme, facendo una festa aperta a chiunque volesse parteciparvi. A quella festa non potevano mancare i maestri delle bevute e delle scopate. Alle volte però Stefano sbagliava, sbagliava come tutti i suoi coetanei. Lui era consapevole che ciò che scriveva, ciò che diceva era errato e che poteva far male, ma lui era un dionisiaco, uno che non rifletteva sui suoi comportamenti, se non pentirsi di quello che aveva fatto e detto, dopo un po’ di tempo. Sapeva di avere bisogno di un grillo parlante, e quello non poteva essere di certo Luca, il re degli eccessi, il re del prova tutto, che domani è un altro giorno e non si sa che fine si fa. Se vogliamo l’ideologia punk era solo questo, una chitarra, un amplificatore e un modo di essere diretto, poche storie, si urla contro il sistema. Lui non sapeva come poteva essere un amico con un approccio più soft e ragionato. Sicuramente non ci avrebbe pensato in quella serata della quale il giorno dopo non rimaneva nient’altro che un gran mal di testa. La stanza dove si festeggiava era composta di pareti bianche e con specchi immensi per farla sembrare più grande. In piccolo palco in legno con annesso mixer, batteria, chitarre e amplificatori posti alla buona per farla suonare il gruppo di Stefano e Luca, prima che un dj aprisse le danze all’interno del locale. Il concerto era pieno di rumore, sudore, salti, urla, teste che si muovevano a tempo e ragazzi che pogavano come nei più grandi concerti. Anche le ragazze che amavano tutt’altro tipo di musica erano lì davanti ad ascoltare, ma soprattutto erano lì per farsi vedere, con una sigaretta stretta tra labbra infuocate, dai profeti nostrani del rock. Fu un successo, come era nelle previsioni, come si sperava dopo tante prove nella stanzetta adibita a sala prove.

Immerso nelle montagne Stefano trascorse un periodo tranquillo e di quiete, libero da vincoli e scadenze. Da piccolo la mamma gli leggeva la favola di Peter Pan, colui il quale decise di rimanere un bambino. Molte volte, nella sua giovinezza, ha sognato un posto del genere, senza dolore, solo puro divertimento. Vedendo le immagini alla tv di giovani torturati, di morti e sangue, di guerre e ambizione, il suo simbolo era un ragazzo che si era messo davanti ad un carro armato; quel ragazzo da solo riuscì solo a catturare l’immaginario collettivo, senza però cambiare il corso degli eventi. si sentiva, lui, come una goccia nel deserto, legato ad una esistenza che poco importa se gli dava un certo piacere e soddisfazione personale, ma che sicuramente non gli dava la possibilità di cambiare la società. Qualcuno ha detto che all’uomo bisogna dargli come obiettivo concreto quello di poter cambiare il mondo, se non è possibile dargli la possibilità, dagli la speranza o l’illusione di poterlo fare. E se il mondo non dà neanche l’ illusione? Da ragazzo ricorda che non era così cinico e pessimista, perché lui ci aveva provato, eccome se ci aveva provato. Gli ultimi anni di liceo furono infatti gli anni del suo fervore politico. A fronte di un amico che non ne voleva sapere, sempre pronto a pensare ad altro, lui elettore, si ritrovò nella possibilità di fare politica nella scuola. Erano gli anni dell’autogestione e della sua carica di rappresentante di istituto. Sempre pronto a combattere con i professori per qualunque manchevolezza, sempre pronto a dichiarare l’autogestione per alcuni mesi contro i provvedimenti normativi del governo centrale. I ragazzi lo seguivano e lui si sentiva, ora leader, senza l’ombra del suo alter ego Luca, sempre più lontano dalla realtà dei fatti. Ma chi era quella gente che lo seguiva? Ci volle poco a capire che quelle persone erano solo parassiti; i più coinvolti erano solo quelli senza prospettive a scuola, quelli che fanno di tutto, tranne che studiare. Si sentiva usato e cominciò a credere che anche fuori delle mura del Liceo Classico Ovidio, la storia sarebbe stata la stessa. Quante persone frequentando il partito vedeva umiliarsi dietro al politico di turno che comandava. Quanti professionisti, al posto di credere nelle proprie capacità, Stefano aveva visto cercare la pista più facile, quella del favore personale e non fare la cosa contraria: diventare più forti da soli ed aspettare che fosse il politico in auge a rivolgersi a lui. Era difficile credere in questo? Forse era l’esame su Nice che doveva dare all’università che lo rendeva così pessimista nei confronti della realtà: si doveva credere nel potere umano? Si deve credere nel genio, nell’intelletto e nelle capacità dell’uomo? Ricordava ancora le scritte sulla libertà e sulla pace sul suo banco e quelli inneggianti al Che e ora, quando vedeva la tv, cominciava a credere che quelle erano frasi da idealista, utopie poco applicabili alla realtà la quale si scontra ogni giorno con elementi diversi. Con la guerra per il petrolio, con la stabilità internazionale, con i musulmani fondamentalisti, con le ricerche sull’uranio impoverito. La televisione era piena di morti, di gente affamata che ha avuto solo la sfortuna di nascere in posti dove la prevalenza dell’uno sull’altro è la cosa più importante da fare, di gran lunga meglio della convivenza civile. Lì la pace non può essere difesa da parole ma solo da armi. Vedeva vuote quelle marce con le bandiere dell’arcobaleno, un arcobaleno che poi era una contraddizione in termini. L’arcobaleno arriva dopo una tempesta, come la pace arriva dopo la guerra. Per non pensarci su Stefano metteva una bella cassetta dei Pearl Jam per cantare a squarciagola canzoni come “Alive”.

Proprio quella canzone gli ricordava una litigata con Luca in una delle prove. La stanzetta dove si provava era una bettola. Era un locale di una donna anziana leggermente dura di orecchio, madre di una amica della mamma di Stefano. Infatti la mamma era stufa di sentire sotto casa sua quel rumore assordante e si decise a trovare un posto per quei ragazzi. Con l’entusiasmo che anima una persona che è preso da una nuova avventura, i ragazzi cominciarono a ristrutturare il locale. Furono recuperati poster di cantanti famosi per nascondere le macchie fatte dall’umidità, furono isolate le pareti con i contenitori per le uova. Un amico di Stefano regalò al gruppo un divano che era da buttare e la mamma di Stefano contribuì con un frigorifero. Il padre di Luca invece pittò una parete, disegnandoci su un gruppo preso dal Dio della musica. Il locale era in aperta campagna e ci volle poco, per renderlo fruibile al pubblico. Per pubblico ovviamente non si intendeva una folla di gente seduta e pagante, ma soprattutto gente di cazzoni ambulanti, cioè di ragazzi nullafacenti che prendevano quella scusa per potersi scolare una birretta, farsi uno spinello, tutto in assoluta tranquillità. Anche le ragazze erano presenti, tutte a seguire Luca, i suoi movimenti e le sue parole: ormai Stefano era diventato un ragazzo serio, aveva detto basta a quelle bevute al limite del collasso, aveva detto basta a quell’atteggiamento messo in atto solo per impressionare una scolaresca. Era diventato un imitazione di se stesso, e come lo era diventato lui, lo era diventato Luca, sempre più lontano dalla realtà e da quelli che potevano essere ideali comuni. Le ragazze erano solo per lui e non per altri, Luca faceva strage di cuori, sempre e comunque e le ragazze si fermavano a sentirlo suonare, raggiungendo il posto con i motorini. La litigata nacque per “esigenze artistiche”. Il punk di Luca mal si sposava con il grunge di Stefano. Al rifiuto di Luca di fare Alive, Stefano buttò giù il microfono: “ basta, mi sono rotto il cazzo a sentire le tue stronzate”. L’aria si fece pesante e il casino che c’era divenne un allucinante silenzio pieno di timore. “ Tu la devi finire di dire quello che si fa e quello che non si fa. Ma guarda dove stiamo, girati intorno, si vedono solo gente che non sa dove è di casa e ragazze che, di solito ascoltano quel pop di merda da radio, e vengono solo per te”. Luca non ci mise molto a rispondere: “ sai che c’è? È che sei geloso di quello che rappresento; ma ti ricordi come eri tu quando ci siamo incontrati? Solo uno comune che si mette nella sua stanzetta a farsi le pippe mentali su ogni cosa e invece ora ti conoscono tutti, tutti ti vogliono, ma tu non sei me, rimani sempre uno sfigato”. Stefano aveva una rabbia in corpo che non poteva trattenere, però non voleva passare dalla parte del torto: “Ecco bravo, io non sono te”. Prese il suo basso nero, lo mise nella custodia e se lo portò via con il suo motorino. Luca come se nulla fosse, chiese se c’era qualcuno che sapesse suonare il basso.

Per non sentirsi solo, spesso, Stefano dava dei passaggi a degli sconosciuti con il suo camion. Sul suo tir in effetti, nel corso degli anni, salirono persone diverse, dal marocchino, al ragazzo in cerca di avventure. Fare un bilancio di tutte quelle personalità gli era impossibile, ma in effetti si poteva concludere che, anche andare in giro per l’Italia e per l’Europa, tutto era microcosmo. Un piccolo universo che prevedeva sempre le stesse persone, caratterialmente parlando. In un pomeriggio umido, quando l’estate è calda e la pioggia non fa altro che aumentare la temperatura con l’umidità, in una strada provinciale, Stefano notò un triangolo sulla strada e subito dopo una macchina color rosso fiammante, che dava nell’occhio, con le quattro frecce di emergenza inserite. Stefano spense la radio che in quel momento passava una stupida canzoncina estiva, una di quelle che viene dimenticata dopo poco tempo, insieme al cantante stesso. A cercare di capire cosa aveva fatto il motore, era un signore attempato, poco mobile nel movimento, e che si disperava per il guasto o per il fatto che non poteva ripararlo. Stefano fermò il motore, e, sceso dal mezzo, si accostò al tizio che lo guardò con aria stupita ed esordì:” Ma guarda, tra tanta gente che c’è, chi mi doveva dare un passaggio!”. Il fisico era cambiato, ma la voce era la stessa di quando, tra i banchi di scuola, faceva il suo nome per essere interrogato in filosofia e storia. Il professor Rupolo era un abile pensatore più che un insegnante ordinario. Il suo sguardo era sempre riflessivo, il suo guardare al cielo senza un obiettivo ben preciso, era come se riflettesse sulla vita, tutto il tempo di questo mondo, senza curarsi di quello che succedeva intorno a sé. Uomo da grandi sogni e dalle grandi idee. Il volere a tutti i costi studiare filosofia da parte di Stefano si fondava proprio sulla convinzione che quell’uomo, grazie allo studio di Platone, aveva tutte le risposte alle domande che la sua vita gli poneva davanti. I due presero un caffé prima di partire con il camion. Nonostante fossero passati alcuni anni, lo sguardo da pensatore, il professore, non l’aveva smarrito per strada. “ Ti ricordi, quando ti chiamavo sempre alla cattedra?”, Stefano nel ridere di quegli episodi, stava quasi per strozzarsi con il caffé bollente: “ Professò, come faccio a dimenticarlo? A causa sua dovevo sempre studiare, anche quando sapevo di essere già stato interrogato da lei. Mica ci si comporta così!”. Un sorriso compiaciuto si stampò sul visto del suo ex insegnate: “ E sai perché ti interrogavo sempre? Perché non solo eri bravo, ma eri intelligente. Anche quando ti beccavo non preparatissimo, sapevi come cavartela nel discorso con me. Non tutti ci riescono a quell’età. Ho pensato che potevi essere un politico da grande, era difficile metterti in difficoltà”. Ci fu un attimo di riflessione, poi il vecchio disse ancora: “ Ora ti trovo così; ma che ci fai qui a guidare un camion? Io sono vecchio e ho visto tanti amici intorno a me scomparire senza aver potuto dire ciao e senza aver potuto esprimere il mio sentimento. Prendi esempio da chi è più grande di te”. Stefano finì la sua bevanda e ci pensò su. “ Dopo quelle che è successo, ho pensato che avere una vita stabile, il classico cartellino timbrato, non faceva per me. La mia fede sta a zero e pensare che esista un Dio da qualche parte che ti ascolta, ti aiuti e ti sostenga nei momenti bui, non fa per me. Cosa ha fato Lui per me? Cosa ha fatto per evitare quello che tutti chiamano incidente? Glielo dico io, nulla! E quindi pensare a come comportarmi qui, per un fine paradisiaco, rimanere bloccato dietro una scrivania, per 40 o 50 anni se tutto va bene, non so è cosa buona e giusta, usando due parole in voga in chiesa”. Il professore aveva sentito tante volte sfoghi di questo genere, e ogni volta non sapeva cosa dire: “ hai ragione, vorrei provarti il contrario, ma come si fa? Sarà credo la tua esperienza a farti porre giudizi e punti di vista, ovviamente diversi da quelli di altri, e potrai dire, alla fine della tua vita, quello che c’è stato di buono e di cattivo nei tuoi comportamenti.”. il professore si alzò dalla sedia: “ credo che a quest’ora il danno sia stato riparato ed è arrivata l’ora di ripartire. Stefano, caro alunno mio, vedrai che un giorno ti sveglierai, e capirai che il tuo senso di colpa svanirà.”

Era una serata calda di molti anni fa; ormai Stefano e Luca non si parlavano da tanto. Troppe le differenze che erano emerse e i personalismi dei due. L’uno godereccio e l’altro intellettuale, essere pensante. Non si parlavano da molto tempo, da quando il gruppo era finito sotto le macerie dell’invidia e del protagonismo di chi crede, a quell’ età, di essere immortale. Lo stesso Luca non riusciva a portare avanti i suoi progetti musicali, perché i testi delle canzoni, a sua firma, non erano nulla, se non supportati dagli arrangiamenti dell’ex amico. Era una serata calda, tanto calda da vedere Stefano, in canottiera, a vedere Mtv, nella sua camera. Una colonna sonora supportata dal piano di una band semisconosciuta accompagnò le tristi parole di una telefonata. Una telefonata che iniziò con il solito squillo, con il solito drin, che però, in quell’istante di sonnolenza, svegliò disperatamente, la mente del povero Stefano. Il suo amico, infatti, era scomparso, ritrovato esanime, per strada. Neanche un arrivederci prima di andarsene, neanche un ritrovarsi su quei pochi anni passati insieme. Stefano rivide tutta la loro vita insieme, nel momento in cui sentì le prime parole, e abbassò repentinamente e freddamente il telefono. Il piano suonava ancora, e le sue lacrime cominciarono a scendere sulle sue gote, bagnando la poltrona dove egli era seduto. Si trovava lì, solo, e quella solitudine si era amplificata, dal momento in cui capì che lui non c’era più, che non avrebbe potuto più litigare con quella persona, che non avrebbe potuto più cantare con quella persona, farsi osannare dalle ragazzine, prendersi una sbronza insieme. Non gliene importava nulla della causa della morte. Sarebbe stato indispensabile? Sarebbe stato salvifico per la sua anima, sapere che non era stata colpa sua e che forse la sua morte era dipesa da assunzione di troppa polvere, oppure perché, in maniera tragicomica, un automobilista aveva stroncato, solo per la causalità della vita, l’esistenza di un attore? Sì, un attore. La sua vita in pubblico era quella di un pagliaccio che faceva finta di sapere tutto e di sapersi divertire. Era quella di un ragazzo che sembrava avere tutto sotto controllo, di avere obiettivi ben precisi nella sua vita, di essere uno che conta. Ma Stefano, in quella notte insonne, tesa a ascoltare i primi dischi, che il povero Luca, gli aveva portato in quella specie di cantina, aveva capito di aver sottovalutato, per la sua profonda immaturità, i silenzi dell’amico, la sua inquietudine, la sua furia nel volere a tutti costi non stare mai fermo, per non pensare, alla mancanza della mamma, alla mancanza di radici vere in una terra, lui che da Firenze, aveva giurato l’Europa e poi finì la sua giovane vita a Milano, in una strada poco illuminata. Davanti a lui una foto quella di lui e Luca insieme ai suoi genitori. Alla fine, pensando alla sua fine, senza un vero perché, spese una riflessione anche sui suoi genitori. In quella foto, Luca guardava sorridente la mamma di Stefano, e nonostante tutto, pensò che nonostante tutto, i suoi genitori, erano buoni genitori e anche Luca lo sapeva. Prese il basso, si asciugò le lacrime e dedicò una canzone all’amico che non vedrà mai se non in una fredda foto, vicino a fiori freschi. Il liceo finì senza un sorriso, sapendo che quella morte aveva spezzato qualcosa dentro di sé, il legame non si era sciolto con Luca, era rimasto sempre sospeso, perché senza un addio, senza un naturale distaccamento, ma invece con un terribile e traumatico distacco, non ci si poteva lasciare.

Dopo aver fatto la visita al suo amico, passò da casa, a salutare i suoi genitori. Li ricordava più giovani dall’ultima volta: i capelli si erano fatti più bianchi, le rughe intorno agli occhi aumentavano e i dolori cominciavano a farsi sentire in maniera non indifferente. Stefano questa volta li vide e sorrise. Non sorrideva da tempo, quel sorriso indicava una riappacificazione tra lui e la sua famiglia. Forse quando si è giovani non si nota che difficoltà c’è a governare un nucleo familiare, ma bastava vedere il suo ormai defunto amico Stefano quanto era attaccato ai suoi genitori, per capire che, nonostante gli sbagli, erano stati per lui, buoni educatori. Luca e il papà non erano persone che parlavano ma erano persone che capivano i gesti dell’altro e i loro significati. Un abbraccio cancellò un periodo fatto di silenzi. Dopo una cena, Stefano ripartì, nella notte; a lui piaceva muoversi “quando il mondo dorme”. All’imboccare della strada, un ragazzo chiese un passaggio. Non sapeva chi era, ma come sempre si fermò e aprì la grossa porta del camion. Entrò.
“Dove ti porto”, chiese Luca.
“Mi faccio gusto una chiacchierata con te, poi ti lascio e stavolta per sempre”, rispose il misterioso giovane.
“Che vuoi da me?”, chiese il camionista, impaurito ed esterrefatto dall’averlo riconosciuto.
“Sei venuto a trovarmi di nuovo. Ti ringrazio, ma voglio dirti che non c’è bisogno. Tu mi ricordi sempre e mi pensi sempre. Non è colpa tua per quello che mi è successo. L’ho voluto io, anzi tu, insieme con la tua famiglia, mi hai fatto passare il periodo più bello della mia vita piccola esistenza.”.
Rispose Luca: “Sì, ma io, avrei potuto non so, non lo so neanche io, starci vicino”.
“Niente ma, vai per la tua strada, vivi e ricordati che ti ho voluto bene”, quest’ultima frase la si disse, mentre la sua canzone preferita passava in radio e Luca tornò a quando suonavano insieme alla prima festa dei 18 anni di una amica. Ora aveva detto addio al suo amico.

Id: 18 Data: 05/12/2007

*

Piccolo scritto su un cambiamento


Thomas davanti alle donne è stato sempre molto chiuso, si è finto sempre qualcun altro, una volta allegro, alle volte faceva il misterioso, il tenebroso. Nonostante i cambiamenti camaleontici, ha avuto sempre picche dal sesso femminile, nella sua ricerca dell’amore, di una donna che lo facesse sbattere per terra per il piacere e per la sofferenza, per il godimento e per il dolore. Anche quando la trovava non andava mai bene, una volta amico, una volta antipatico, una volta…c’era sempre una volta. È arrivato al punto di non credere nell’amore e forse ciò lo porta ad essere più libero. Adesso incontra Lea e non sa come comportarsi, quale personaggio esibire oggi? Quale parte del proprio carattere decide di far vedere? Forse per la prima gli viene in mente una idea, bella quanto rischiosa; questa volta Thomas sarà se stesso, quello che fino ad ora non è mai stato e che ancora non è convinto di essere. Dice “ciao sono Thomas”.
Lea: “ciao che fai di bello?”.
Thomas: “ quello che faccio? Nulla non faccio nulla, per aver un sostentamento finanziario, non lavoro, mi godo il tempo che passa fino quando potrò e non troverò un lavoretto, senza ambizione, che mi dia la possibilità di far quello che mi piace”.
Lea: “cosa ti piace fare?”.
Thomas: “mi piace dar la scossa alla gente, far cadere la maschera che ognuno di noi ha, impegnarmi in politica, perché con i menefreghisti che ci sono in giro, serve gente come me, aspetto che qualcuno mi coinvolga in iniziative, voglio un gruppo dove suono le mie canzoni alla batteria, voglio che non si dica, che se uno lavora, e non riesce ad essere scrittore o sfondare nella musica, debba smettere queste attività, oppure piegarsi alle critiche e a chi ti dice, ma chi te lo fa fare. Voglio essere sempre io, senza dover spiegar alle volte il perché di un mio gesto, di un mio pensiero, cazzo capitelo voi!Mi piace il cinema impegnato, quello superfluo, mi piace dire ad una ragazza che mi piace anche se lei è con la testa su altri mondi, mi piace pensare che non mi devo per forza trovar una ragazza perché tutti si sono fidanzati, non la voglio se è solo per scopare, perché poi c’è anche da parlare e discutere, e non piace sacrificar il mio ego per una della quale mi interessa solo alcune parti del suo corpo”.
Lea vedeva davanti a sé un fiume in piena: “cosa ti piace di una donna?”
“ non sono ipocrita da dire che mi deve piacere come è dentro, della donna mi piace tutto, gli occhi, come parla, le tette, il sedere, come cammina, cosa ascolta, come promuove le sue idee, come decide di vivere la sua vita, come fa l’amore, i suoi pensieri nascosti, come mangia, come beve, come la pensa una famiglia”.
Lea fece un’altra domanda: “c’è qualcuna nella tua vita?”.
Thomas: “ nella mia vita? Anche qui, dopo tutte le cantonate che ho preso, le risposte negative che ho ricevuto, non credo nel fatto di trovar qualcuna, anzi ho deciso: non sarò io a trovar l’amore, ma lui me!”. Per la prima volta ha detto quello che voleva dire.

Id: 17 Data: 05/12/2007

*

Stare alla finestra

Cos’è l’amore? E’ una domanda un po’ idiota, ma che tutti, ad un certo punto della loro

misera esistenza, si fanno.Fin dall’antichità questo folle sentimento è stato fatto oggetto

di numerose tragedie, trattati, canzoni, studi psicologici;in televisione appaiono sempre

più spesso, i famosi esperti dell’amore, per non parlare di quante persone, ormai allo

strenuo delle forze, si rivolgono ai maghi.
Manuel anche si è chiesto qual è la natura dell’amore e di quali elementi è costituito.La

sua idea è che si può arrivare ad una definizione di amore solo dopo aver vissuto numerose

esperienze,attraverso un processo induttivo.
Manuel è figlio unico e la sua compagna di gioventù è stata la televisione;la sua

educazione deriva, non solo da ciò che i suoi genitori dicevano, ma anche dai messaggi e

gli slogan che il Manuel bambino apprendeva dal tubo catodico.La televisione gli diceva

come e cosa mangiare, come dormire, cosa dire, come vestire e come far l’amore , anche se,

per quest’ultimo affare, quel fanciullo doveva ancora aspettare, ma intanto imparava da

quel signore della televisione, come usare il preservativo, qual è la posizione ideale ma

soprattutto come far godere la donna.
I filmacci americani anni ottanta, quelli che parlavano di spiagge,di associazioni

universitarie, interpretati da attori che negli anni novantaa erano considerati

attori”impegnati” contenevano un vademecum importante da questo punto di vista; l’idea era

quella di godere il più possibile come il marchese de Sade, come i personaggi di

Miller.Vedeva il petto delle sue amiche crescrere sempre di più e i suoi ormoni,soprattutto

nell’ora di educazione fisica, impazzivano.Il suo sguardo fissava i seni di Mary,la più

prorompente della classe, e ,mentre lei correva, la sua testa andava su e giù per seguire i

movimenti di quelle dune fissate sul petto dell’ amica e giorno dopo giorno, scopriva una

nuova sensazione:il desiderio di vederla nuda, di toccare le sue sinuosità.
Manuel,per attenuare quegli istinti animali,andava molto spesso al cinema con un suo amico:

Morgan.La cosa bella di quella coppia è che si completavano in quanto erano ai poli

opposti: Morgan era uomo della sinistra giovanile, assiduo bevitorre, sostenitore della

legalizzazione della droga leggera; Manuel era considerato un po’ troppo serio per la sua

età: non beveva e non fumava.
Morgan passò alla storia come l’unica persona che riuscì a far ubriacare Manuel, impresa

difficile come far recitare un’Ave Maria ad un talebano.Il fattaccio si compì a Capodanno.
Il ragazzo ha sempre sofferto di quasi disturbo mentale: quando c’è un giorno di festa lui

diventa triste ed infelice; forse fu questo che lo portò a proferire queste parole: ”

Morgan, stasera sei il mio mentore, a tavola mettiti vicino a me e rendimi felice”.Quel

“rendimi felice” stava a significare che doveva essere spronato dall’amico a bere bevande a

lui non troppo familiari.A Morgan non sembrava vero; molte volte aveva provato a portate

l’amico sulla cattiva strada, soprattutto per scioglierlo un po’, poiché Manuel era sempre

timido, ma non riuscì mai in quella impresa; quindi, senza chiedere nulla, si sedette

vicino a lui e gli riempì il bicchiere ogni volta che Manuel lo svuotava; in questo modo,

in un lasso di tempo di due ore, il novizio bevitore entrò, almeno per una sera, nel tunnel

dell’alcool.Alla fine della serata collassò. Il giorno dopo non riusciva a ricordare nulla,

ma dalle testimonianze potè ricostruire la serata: nel momento più allegro, Manuel ballò

sui tavoli e diede fastidio a tutte le donne presenti, soprattutto con abbracci molto

stretti, baci appassionati ed alcune volte con battute non sempre felici che avevano tutto

uno sfondo sessuale.Prima di collassare,riuscì anche ad imbrattare la casa della ragazza

con il suo vomito, lasciando tracce di ciò che aveva mangiato dalla sala da pranzo fino al

bagno.
Morgan era iscritto all’Università e, come Manuel, aveva deciso di rimanere ad Arcadia, la

loro città natale.
Questa graziosa città, nata dalle ceneri di un centro abitato medioevale, con un passato

storico di cui essere fieri ma di cui si è perso il significato nel corso degli anni.Le

uniche testimonianze sono date da alcuni studiosi, che non vogliono affrontare la realtà di

una zona che non ha più niente a che fare con lo splendore tramandatoci dagli antichi

scrittori.Il presente si basa soprattutto su una depressione economica che farà diventare

quella terra, l’Albania d’Italia.
Manuel, ad Arcadia era nato e vissuto e lì si erano verificati tutti gli eventi che avevano

condizionato la sua vita; quindi faceva fatica a pensare ad un futuro prossimo lontano da

quella città: non riusciva a pensare ad un futuro senza la propria famiglia e i suoi

amici.Questi ultimi avevano un’idea dell’amore che Manuel fece sua:l’amore non

esiste,esiste il sesso e più se ne fa e meglio è.
Manuel comunque chiedeva sempre un consiglio a Morgan anche su questo argomento: ”Senti, ma

tu credi che così bisogna tratterle le ragazze?come sacchetti usa e getta?Ogni mezzo è

buono per una sana scopata?Come se fosse un machiavellico gioco?Io non ho avuto alcun

rapporto fin d’ora, al contrario tuo, quindi suppongo che tu possa dirmi qualosa in più”.
“guarda, io non posso dirti come comportarti con il gentil sesso, ma io cerco di non farmi

coinvolgere mai nelle storie ,perché la verità è che il sesso debole siamo noi.Gli uomini

sono bravi solo a parole, ma nei fatti sono le donne che comandano, che ci fanno soffrire e

che fanno il bello e il cattivo tempo.Io cerco di usarle solo ai fini sessuali anche perché

non ho ancora trovato la donna che mi faccia girare la testa”.
Era una serata umida e fredda e quindi non era possibile continuare quella interessante

conversazione; anche i cani che giravano la città sentivano freddo e Manuel, vedendoli,

sperava di non diventare mai,un giorno così:in giro da solo, nell’oscurità della

notte;sperava di poter almeno condividere la solitudine con qualcuno.
Già dalla nascita il nostro protagonista aveva fornito prova di quelle che erano le sue

peculiarità: era un bambino silenzioso, timido e calmo.Essenso figlio unico i suoi genitori

riversarono su di lui tutte le attenzioni possibili e immaginabili, rendendolo un moccioso

alquanto viziato.Una volta divenuto più grande Manuel maturò anche dal punto intellettuale

ed ogni giorno che passava ringraziava Dio di avergli fatto la grazia di avere ricevuto due

genitori di quella qualità; nonostante i problemi economici,mamma e papà facevano i salti

mortali per assicurare al loro figlio tutto quelllo che erano in grado di offrirgli.Il loro

amore però non era rappresentato solo da regali materiali, ma Manuel apprezzava anche il

fatto che i suoi genitori si emozionavano, si commuovevano senza nascondere nulla al loro

figlio.Fino ad un certo punto quell’amore gli sembrava potesse bastare ma non sarebbe stato

così tra un po’.
Manuel non era il ragazzo migliore del mondo giacché la miopia, le allergie, la calvizia

incalzante, la smemoratezza lo resero un giovane insicuro e timido.I suoi difetti lo

facevano apparire davanti agli altri come un debole ed anche le donne non lo trattavano

granché bene; tutto questo faceva del nostro amico l’uomo più infelice di questa

terra:provava a reagire ma non ne aveva la forza.Sognava di diventare, un giorno, un uomo

potente con i soldi,tanti soldi con i quali, non solo avrebbe aiutato i suoi genitori verso

i quali era devoto,ma avrebbe potuto anche vendicarsi con chi lo prendeva in giro per la

perdita dei capelli, per la pesante miopia che lo affliggeva, per essere ancora vergine,

per non riusci mai, se non per grazia di Dio,ad eseguire due palleggi di fila col pallone

da calcio.
Nella sua mente, Manuel era anche un grande amatore: s’immaginava come un moderno casanova

che, con un solo gesto, con un’unca parola sussurata riusciva ad ammaliare ogni donna.
Questo succedeva solo nei suoi sogni perché la realtà era composta di molti rospi da

ingoiare: era una pecorella senza gregge, un Dante senza il suo Vate.
Il sabato sera cominciava ade essere non giorno di svago, ma un brutto momento passato non

con una ragazza ma con i suoi amici di sempre a parlare di calcio: Morgan, Mark, Andrea,

Alex.Queste discussioni erano aperte a tutti, anzi era il modo migliore per conoscere

qualcuno naturalmente solo di sesso maschile!Intervenivano il gestore del pub dove di

solito si riunivano, l’ubricone di turno: insomma gente di tutte le età.
Non era mai riusciuto a corteggiare una ragazza e, le poche volte che si esponeva ,si

sentiva rispondere com’era bella la loro amicizia e che una relazione più stretta sarebbe

stata deleteria.
Questo discorsetto Manuel l’ha sempre odiato poiché rappresentava la massima ipocrisia

femmile: non è bello avere una persona accanto che, oltre che amante, ti è pure amico?che

cos’è un amante?un soggetto muto?che respira?

Manuel ebbe la sua prima ragazza quando lui frequentava il quarto ginnasio e lei era più

piccola di un anno.In quel periodo il giovane in questione preferiva ancora la sala giochi

alle ragazze ma lei voleva conoscerlo a tutti i costi; per eliminare le pressioni da più

parti accettò di mettersi con Giuliana(così si chiamava) senza averci mai parlato prima.
Poste queste premesse la relazione non poteva durare molto ed infatti non durò: finì per

mano di lei che si era stufata di stare con uno che non parlava.Quando un’amica di lei gli

disse della decisione presa da Giuliana lui non si scompose più di tanto,anzi, si levò un

peso dallo stomaco.Manuel però pensava sempre a Giuliana soprattutto alle notizie che gli

arrivavano: si diceva di lei che aveva il cuore in frantumi che non voleva più uscire di

casa;sembra che lei si fosse innamorata di lui.
Cosa volesse dire innamorarsi lo capì solo più tardi.
Nella sua mente permane tutt’ora il ricordo della gita di terza media:era seduto

nell’autobus e tutto ad un tratto fu catturato da una visione celestiale.Un angelosotto

forma di una ragazza entrò e si mise seduto alla poltrona davanti a quella di Manuel.
Aveva i capelli castani, due smeraldi incastonati in un viso che presentava due dolci

fossette sulle guance.Classici furono le conseguenze che quella visione comportò sul corpo

di Manuel:fiato corto,il cuore raddoppiava i suoi battiti e gli era difficile riuscire a

far uscire dalla sua bocca una frase compiuta.Lei, agli occhi di lui, era perfetta e questa

sua perfezione gli impedì di cercare anche un banale approccio.La cosa buffa è che al liceo

classico se la ritrovò compagna di classee questa per Manuel, più che una cosa

entusiasmante era una catastrofe: stava seduta nella stessa fila e lui dalle otto e trenta

di mattina fino all’una ed un quarto, facendo una breve pausa per la ricreazione, la

scrutava millimetro per millimetro, sapeva anche quali vestiti avesse a casa ed imparò

anche a riconoscere i tipi di profumo usati; la contemplava come fosse una divinità ma la

sua timidezza lo frenava ed oltre ad un semplice saluto non riusciva ad andare avanti.Nella

sua testa vi erano tante parole che avrebbe voluto dirle, molte frasi ammucchiate da

sussurarle nel momento giusto, frasi che avevano un suo contenuto di coerenza sebbene

l’amore per definizione è illogico ed irrazionale: in qei pensieri il soggetto principale

era lei, Carmen, la sua venere.
Passavano i giorni le settimane i mesi ed ogni giorno il rituale religioso si ripeteva e

più tempo passava e più si convinceva che quella ragazza doveva essere sua e più il tempo

scorreva e più riusciva ad accumulare la forza ed il coraggio per parlarci

seriamente.Manuel si convinse che quella situazione che gli provocava un senso di

infelicità e depressione non poteva continuare.Fu un momento fulmineo:si trovava con gli

amici all’interno della sala giochi e appena la vide da sola pensò”ora o mia più”.Andò

verso Carmen e la salutò e lei sorrise mostrando anche dei denti perfetti:davanti a quella

bellezza luio stava per svenire non riusciva a rendersi conto di quello che stava

facendo.Dalla sua bocca doveva uscire un verso di una canzone a luio molto caro e che

diceva sempre ogni volta che pensava a lei, ma al suo “Cia o Manuel cosa c’è?Ti vedo come

….smarrito.Dimmi”.
“Carmen…senti….dunque”l’incertezza era palpabile”Guarda sono impacciato…voglio dirti solo

una cosa….Ti voglio bene e sarei felice di essere il tuo ragazzo”.Nonostante il vociare

all’interno della sala Manuel non riusciva a sentire nulla, solo un lungo silenzio, prima

di sentire la decisione, si sentiva come in gioco a premi prima di sentire se la sua

risposta era giusta.
Ormai Manuel conosceva bene i tratti del viso Di Carmen e quella smorfia captata non era un

buon segno ed infatti la sua risposta fu un secco no denso di dispiacere ed imbarazzo.
Senza dire nulla Manuel si girò dall’altra parte e tornò dai suoi amici.
Quando ad una persona vengono demolit le sue illusioni, perde gran parte di sé:la sua

esistenza gli sembra vuota , non si riesce a trovare uno scpo per andare avanti.Nei giorni

seguenti rimuginava su ciò che vaveva combinatoe nella sua mente vi erano sempre le stesse

domande:”Ho sbagliato tutto.L’approccio non era buono, ho fatto la figura dell’imbecille.Se

potessi modoficherei il mio viso e riparterei da zero,ma in questo modo sarebbe come

arrendermi a quello che non sono non sentirmi libero.Avevo il diritto di fare quello che ho

fatto ma non sono riuscito a dilre cosa sento.Ora il problema è che non so come comportarmi

in classe”.
La sua vita era distrutta ed anche i genitori lo vedevano diverso dal solito: taciturno,

non rideva come sempre.
Manuel pensava di essere già al punto peggiore della sua misera vita ma forse quello era

solo l’inizio.
Carmen dopo pochi giorni si mise con Tito, non una persona qualunque ma proprio Tito!Questi

era un ragazzo che abitava vicino Manuel in una via adiacente dalla sua per la

precisione.Ogni anno si organizzavano partite di calcio tra i rappresentanti delle due vie

ma più che partite, erano veri e propri scontri ,che in alcuni casi degeneravano in

rissa.Tra i più rissosi c’era questo ragazzo biondo col nasone, che di nome faceva Tito:era

lui che per primo accendeva la miccia, era lui che per primo insultava , era lui che il

primo si nascondeva dietro i compagni al momento di picchiare.
Pensate come poteva sentirsi il nostro amico quando seppe della notizia: l’amore della sua

vita insieme alla persona che incarnava di più l’odio; ogni volta che usci da casa per una

passeggiata se li ritrovava davanti agli occhi come se lo facessero apposta: per il corso,

in chiesa e naturalmente nella sala giochi principale della città dove Manuel assistette ad

una scena tremenda; mentre stava giocando al Tetris sentì una voce conosciuta che usciva da

dietro un videogioco:”Non hai mai baciato nessuno?”.
“No…”, disse lei.” Non ti preoccupare amore, ci sono io…Sarà bello…”.
Manuel sentì tutto il discorso e, mosso dalla curiosità, si sporse per avere conferma di

quello che il cuore suo gli sussurrava: vide Carmen avvinghiata a lui e rimase come

pietrificato tanto che perse anche al Tetris dove stava sfiorando il suo record

personale.Successe, anzi, che appena Carmen staccò le labbra da quelle di Tito incontrò lo

sguardo di Manuel; in quello sguardo che, nonostante le luci basse del locale, per Manuel

brillava di luce propria, il nostro amico lesse un senso di dispiacere.Lui non riuscì a

rimanere un attimo di più in quel posto soffocante e, dopo avere passeggiato un po’,

ritornò a casa, mentre la luna rischiarava il buio nero della notte e la città si preparava

al dolce riposo.
Manuel era deluso, amareggiato, con un senso di vuoto che lo circondava;Carmen era

felice,lo si vedeva anche in classe dove non poteva contenere la sua contentezza anche in

presenza di Manuel il quale, naturalmente non gradiva;lei era diventata una delle ragazze

più in vista della scuola, sia grazie alla sua bellezza sia perché stava insieme ad un

ragazzo che, in quella misera scuola, adorato da tutte per le sue doti amatorie e da tutti

perché rappresentava una figura carismatica all’interno della struttura scolastica.
Manuel cercava in tutti in modi di dimenticare quella ragazzaa , ma non riusciva ad

odiarla:lui l’amava profondamente come non aveva mai amato e come non avrebbe potuto amare

nessun ‘altra donna; nella sua testa,quando andava a letto, quando andava al bagno, quando

si lavava, quando studiava, quando andava a giocare a calcio un’unica e sola domanda

rimbombava al ritmo ossessionante della musica tecno:”Che cosa aveva quel personaggio che

lui non aveva?Tito , dal punto di vista estetico non era un granché; il suo naso

prorompente, i suo capelli biondo platino la sua pelle martoriata dai brufoli, non lo

facevano apparire un modello.Tito sapeva però parlare alle donne, sapeva cosa dire loro,

quali corde toccare…la sua arma per conquistare le ragazze era, quindi,il linguaggio.
Manuel, da uomo pratico qual era, non possedeva quell’arte oratoria al contrario di quel

ragazzo che aveva gli atteggiamenti e le movenze di un serpente ma ,sotto sotto, era un

verme;lui era uno sciupa femmine che considerava le donne come le lenti a contatto usa e

getta: doveva solo capire se la ragazza poteva durare un giorno, una settimana o un mese;

questa era la sua unica preoccupazione.
Con la sua espressione, con un proprio sussurro riusciva ad eliminare le difese delle sue

vittime e quindi poteva colpire come fanno i cobra.Tutte le ragazze consideravano Carmen

una vincente, per Manuel lei era solo una vittima, una delle tante.
Carmen non era perfetta, aveva i suoi difetti anche se Manuel non riusciva proprio a

vederli: nella realtà quella dolce ragazza era soprattutto ingenua e superficiale ed i suoi

giudizi e il suo modo di comportarsi si basavano essenzialmente sull’apparenza e non sulla

realtà delle cose.Tito con lei ebbe vita facile, sapeva come trattarla e conosceva il modo

di approfittare di lei.
Il ragazzo triste, così era chiamato Manuel in quei giorni, sapeva che sarebbe arrivato il

momento in cui Tito avrebbe spezzato il cuore della sua amata e quindi promise a se stesso

che l’avrebbe aspettata;intanto avrebbe pensato a curare il proprio fisico e la mente per

essere preparato a quel giorno.
I giorni e i mesi passavano molto velocemente e il ragazzo triste si dimostrò un perfetto

studente modello, districandosi in maniera egregia, tra compiti in classe ed

interrogazioni;scelse di andare in palestra per rinforzare il fisico, eliminare quel grasso

superfluo ed acquisire anche un po’ di sicurezza; cominciava ad interessarsi a cose a cui

prima non dava il minimo peso come la politica o l’arte.Carmen stava ancora con Tito ma lui

soffriva sempre meno una volta che scoprì che c’è una vita anche senza la sua Carmen; aveva

deciso di non soffrire più per una donna,l’amore doveva scordarsi di lui; piano, piano, da

passionale qual era si trasformò si trasformò in sorta di pezzo di ghiaccio, nulla avrebbe

potuto scalfirlo , nessuno avrebbe potuto sconvolgere , di nuovo, la propria esiestenza.La

sua condotta divenne atarassica.
Tra i nuovi interessi, un posto importante era dato alla musica sia consumatore, sia come

musicista, in particolare era interessato alla batteria; a 17 anni formò il primo gruppo

che prendeva il nome dal cartone animato di “Kiss me Licia”.
La scelta di essere un batterista non fu una scelta a caso: il percussionista, di solito,

sta nascosto dietro al cantante, al bassista, ai chitarristi, al massimo è il tasterista

che lo affianca; le luci del palco sono poi indirizzati verso sempre la figura carismatica

del gruppo per cui si crea l’effetto in base al quale il batterista non vede il pubblico ed

il pubblico non vede lui.
In città vi era un solo negozio che vendeva strumenti che, di nome faceva Marco e di

cognome…non si è mai saputo!la sua vita era coperta dal mistero, ma si vociferava,

nell’ambiente musicale, che la sua esistenza sia stata costellata da molti episodi: era un

ex sessantottino, inoltre si sosteneva che fosse stato per lungo tempo un drogato e che,

dall’oblio, riuscì a strapparlo solo un suo presunto socio di cui non si è mai saputo

nulla.
Quest’uomo aveva essenzialmente due caratteristiche: la prima era la parlantina senza

fine;una volta entrati nel suo negozio era difficile uscire per un’ora decente poiché

l’uomo aveva una capacità oratoria fuori dal comune; riusciva a portare un discorso dove

voleva lui partendo da premesse impensabili.
Manuel conserva ancora il ricordo del primo incontro:”Scusi, mi può dare un paio di

bacchette nuove?”.
Marco trovava tutti i modi per rinvangare la propria vita passata poiché ormai non viveva

più nel presente, confinato dalla mattina alla sera il quel negozietto, per paura di

cominciare a farsi nuovamente, e, quindi per fuggire la realtà, faceva rivivere nella testa

i ricordi di gioventù.
“Mi ricordo quando, da ragazzo, prendevo due pentole e ci suonavo su”, queste furono le

prime parole che uscirono dalla faccia scavata di Marco,”Ma cosa volevi?”.
“Guarda, mi servono solo un paio di bacchette e vado via”.
“Ho capito…due bacchette…ma hai visto che chitarre ci sono qui?Hai visto questa

Gibson?Quest’altra è la stessa che usa Petrucci, il chitarrista di quel gruppo…come si

chiama?Ah, i Dream Theater!Fumi?”.
Manuel cominciava a dare segni di impazienza:”Non fumo!Ho bisogno solo di un paio di misere

bacchette, magari anche economiche, se vuoi faccio da me:dimmi dove sono, le scelgo, vedo

il prezzo e te le pago”.
Marco disse: ”Bè se volevi le bacchette stanno lì al primo scaffale a destra, ma, senti,

conosci un bravo bassista?”.
Il discorso durò a lungo,spaziando dalla musica alla politica contemporanea,essendo un

membro del famoso popolo di Seattle: Manuel entrò nel negozio verso le dieci e trenta e ne

uscì verso le dodici.
La seconda caratteristica di quel commerciante, che , in parte compensava quella perdita di

tempo, era il suo meraviglioso senso per gli affari.A Marco,i soldi non interessavano e

molto spesso le cose le vendeva senza farsi pagare tutto il prezzo per intero ed, infatti,

poteva vantare molti crediti nei confronti della maggior parte di Arcadia.In altri casi

consigliava uno strumento con prezzo inferiore rispetto a quello scelto dal cliente.Di

tutto ciò la moglie di Marco non poteva essere contenta ed è per questo motivo che era

sempre più presente al negozio, ed era lei quella predisposta a trattare il prezzo degli

strumenti; a causa di quest’attitudine, Marco era considerato un allocco prossimo al

fallimento, ma Manuel lo considerava un amante della musica fine a se stessa che cercava di

creare un qualcosa di nuovo ad Arcadia, di far nascere stimoli nuovi avvicinando i giovani

alla musica, attraverso qualunque mezzo, anche rimettendoci in fatto di soldi.
Il nostro ragazzo triste era coinvolto in maniera totale nella musica, anzi cominciò ad

avere le prime esperienze in radio come conduttore,ma non trascurava per nulla lo studio;

tutti lo vedvano più sereno, i suoi compagni prima di tutti gli altri: per loro, Manuel

aveva dimenticato Carmen, ma non era così.
Lui l’amava ancora, ma non sentiva più il bisogno fisico di averla accanto; nei momenti poi

di sconforto, quando la fissava all’interno della classe e poteva pensare solo a ciò che

aveva passato, bastava che chiudesse gli occhi;nel buio della sua mente poteva

immaginarsela accanto a lui e prenderla ogni qual volta lo desiderasse: questo gli bastava,

almeno per il momento.
Già da un po’ di tempo Manuel andava in palestra ed i risultati si vedevano: i bicipiti

erano scolpiti, gli addominali cominciavano a vedersi, la ciccia cominciava a scomparire;

il sudore versato a litri servì, tanto che una ragazza del liceo volle conoscerlo; queta

poteva essere una buon’occasione per dimenticare la sua prima delusione e far vedere che

anche lui con le donne ci sapeva fare.
“Ti osservavo da tanto tempo, ma non ho avuto mai il piacere di parlare con te; mi vergogno

molto sai…”.
Lui non poteva immaginare che quella ragazza,stesse parlando proprio con lui; non era

neanche brutta!Manuel si accorse immediatamente dell’imbarazzo provato da lei ed allora la

rincuorò:”Non c’è bisogno che ti agiti tanto…cominciamo dalle cose principali…il tuo

nome!”.
“Cristina”, rispose lei.
“Cristina? Uhm, mi piace!”, naturalmente lo disse per farla stare a suo agio e continuò,

“Devo assicurarti del fatto che sono piacevolmente contento di conoscerti anche se mi

sembra strano, non molte donne fanno la coda per conoscermi!”.
Lei allora si dichiarò:”Tu non mi hai mai notata, ma io sono amica di Manuela, usciamo

sempre insieme; la prima volta di ho visto quando siamo andati tutti al cinema a vedere –il

silenzio degli innocenti- e tu stavi vicino a me e non fu per caso.Guarda, io sono molto

timida….”.
Manuel non riusciva a parlare, era come pietrificato; non si capacitava del fatto che anche

lui poteva piacere; si trovava anche in difficoltà anche perché non si ricordava di quella

ragazza poiché, quando andarono al cinema lui aveva in mente solamente Carmen e non

riusciva a scorgere oltre il suo naso che non è neanche tanto grande.
Posto il silenzio di Manuel, Cristina riprese il suo dicorso:”…Comunque…volevo dirti che…”.
“Volevi dirmi che…?”, pendeva dalle sue labbra.
“Ti vedo sempre scontroso ma non sei così, secondo me, sei molto dolce; lo sanno tutti qua

a scuola quello che ti è successo e forse è per questo che non sprizzi felicità da tutti i

pori, ma quella sera, al cinema e poi al –McDonald- sorridevi, eri divertente, mi hai fatto

divertire…insomma mi sono girato un film nella mente dove io e te…mi piaci”, lo disse senza

guardarlo negli occhi.Cristina continuò affermando che doveva dirglielo e che lui poteva

prendere qualunque decisione.
Manuel rimase colpito da quelle dichiarazioni e decise di uscirci insieme.
Si frequentarono.Parlavano molto e di tutto: Manuel ascoltava con attenzione le esperienze

passate di lei e lui le confidava le proprie incertezze.
L’occasione per mettersi insieme ufficialmente si presentò da lì a pochi giorni: una festa

di diciotto anni, l’ennesima poteva dare la svolta alla situazione che si era creata.
Quando Cristina accettò l’invito, Manuel già pregustava in silenzio come poteva svolgersi

la serata: bisognava festeggiare il compleanno dell’amico, divertirsi e ballare con

Cristina, riaccompagnarla a casa e baciarla; tutto questo, nella più gran semplicità,

poiché lui già si considerava il suo ragazzo e non doveva aver paura a baciarla.
Manuel e Cristina fissarono l’appuntamento direttamente all’interno del locale dove si

sarebbe svolta la festa.
Manuel si era fatto la doccia, si era improfumato, si era vestito bene contrariamente a

quanto faceva poiché lui era solito vestirsi sempre con gli stessi indumenti fino a che,

naturalmente, questi non si sporcavano; era arrivato al locale anche molto presto ed,

infatti, fino a quel momento, c’era solo il festeggiato, alcuni parenti e gli amici di

scuola più stretti: tutto questo per Cristina.
Passava il tempo, gli invitati cominciarono ad affollare il locale, la musica pompava

l’ultimo successo discografico; sembrava una festa ben riuscita; Manuel era impaziente di

vedere Cristina, ma non la trovava ed intanto, per passare il tempo, faceva finta di

parlare con la gente, mentre l’occhio cercava di individuare la ragazza; per il nervoso,

dovuto un po’ all’incontro ed un po’ al fatto che il suo angioleto non si vedeva, il

ragazzo triste si fermava ogni dieci minuti al bancone per mangiare una pizzetta o bere una

Coca.
Dov’era finita?Era quasi il momento della torta e Manuel diventava sempre più agitato:

”Dove sta Cristina?E’ impossibile che si sia dimentica della festa…Ah!Ecco Manuela.Adesso

chiedo a lei”.
Manuela rispose che erano venute insieme, ma subito dopo, si erano separate: dunque lei non

sapeva o faceva finta di non sapere.
Era arrivata l’ora della torta e Manuel era ancora nervoso e per trovare Cristina si mise

al centro del locale senza farsi notare, ruotando di tercentosessanta gradi.Il locale non

era tanto grande e dispersivo e dal centro poteva individuarla facilmente sempre che la

ragazza ci fosse.
Era l’ora della torta e, come in un rituale, si spensero di colpo le luci e si passò da una

canzone molto ritmata ad un’altra molto dolce; si accese un faretto( il famoso occhio di

bue!) e il fascio di luce venne indirizzato verso il festeggiato; dall’entrata principale

comparve la mamma con la torta con candeline annesse; il papà cominciò a fare le foto,

costringendo chiunque a mettersi in posa; tutti i ragazzi si avvicinarono presso il banco

della torta tranne due personaggi avvinghiati un torbido bacio passionale sulle

poltroncine.
Manuel, che era trasformato in falco per adoperare la sua vista, ebbe la visione di quei

due e pensò:”Non ci posso credere: Cristina!”.Era lei quella seduta sul divanetto e stava

parlando con un tizio che frequentava,anch’egli, il liceo classico; questo tipo, il cui

nome era Nicola, veniva spesso nominato dalla ragazza nei discorsi che faceva con il

ragazzo triste; Cristina lo dipingeva come una persona dolce che, però, gli aveva spezzato

il cuore,ma che piano piano stava dimenticando, anche grazie alla maestria di Manuel che,

si immedesimava in Cristina in quanto, quella vicenda, assomigliava alla sua storia con

Carmen.
Si può intuire facilmente lo stato d’animo di Manuel: era rimasto di sasso a quella

visione; fu svegliato dal flash della macchinetta fotografica che l’acceccò per alcuni

secondi; ripresosi non sapeva come reagire: doveva fare una scenata per salvare

l’onore?Molti ragazzi sapevano che Manuel e Cristina si frequentavano, compreso il

festeggiato,il quale aveva invitato Cristina, per lui perfetta sconosciuta, appositamente

su richiesta di Manuel, suo caro amico.
Il ragazzo triste era amareggiato, senza saliva ed impotente alla reazione.Il festeggiato

si avvicinò e lo scosse: ”Manuel!Manuel!”.Vedendo la mancata reazione, prese, con le mani,

il viso del ragazzo e parlò guardandolo negli occhi: “Ho visto anchio, ma te l’avevo

ricordato che era una stronza.La gente così è meglio lasciarla stare.Vieni con me”.
Lo abbracciò, ma Manuel, senza proferire alcuna parola, lo respinse e se ne andò;un’ altra

illusione distrutta:doveva essere una festa con lieto fine ed invece sembrava essere

all’interno di quegli sceneggiati italiani dove c’è sempre la sorpresa (negativa).
Questa volta era stato proprio umiliato: perché quella cattiveria, e, soprattutto, perché

la sfortuna si era mossa contro di lui?Manuel non sapeva darsi una risposta: aveva sempre

pensato che la vita se la prende prima o poi con chi ha fatto qualcosa di cattivo e di

malvagio.Lui si era seduto e rifletteva sulla sua vita: aveva compiuto un’azione

malvagia?Aveva fatto soffrire qualcuno?La sua unica colpa era quella di aver amato ragazze

che non lo hanno corrisposto e,quindi, era in credito con la fortuna e con la vita, non il

contrario!Decise di non rimanere inerte al destino: bisognava reagire, aggredire la vita;

come era la frase?Homo faber suae fortunae?Una cosa del genere…forse…
Andò a casa ma non dormì per niente, doveva pensare a come reagire a ciò che gli era

successo.
Il giorno dopo telefonò a Cristina e fissò un appuntamento.
“E’ stato un errore; non so come giustificarmi però possiamo rimanere amici”.Cristina

parlava con voce candida, come se non fosse successo nulla; Manuel rimase sconcertato da

tale ingenuità.
“Amici?Ma come si fa a dire una scemata del genere?Ti avrei glorificato per tutto l’anno,

avevo trovato in te una ragazza speciale.Sei venuta tu, da me, non il contrario;ero venuto

qua per offenderti, per oltraggiarti, ma cosa ne guadagnerei?Assolutamente nulla , anzi

andrei nella parte del torto”.
In un gesto d’impeto prese Cristina e la tenne forte.La guardò negli occhi in tal modo da

farle vedere come poteva essere grande l’odio che ora lui provava,; un sentimento così non

era mai stato domiciliato pressomil cuore del ragazzo che ora piangeva: una lacrima piano,

piano era nata dai suoi occhi verdi e stava scendendo lungo le guance lasciando dietro di

sé una scia umida.
Cristina in attimo riuscì a carpire questo misto d’odio e disperazione che per colpa sua

albergava il cuore e l’anima dell’ormai ex spasimante, e si ritrasse dalla morsa di

Manuel.Lei capì di aver fatto un gesto malvagio: colpire un ragazzo così dolce e sensibile;

solo ora si rendeva conto delle conseguenze della sua azione e per questo motivo non

riusciva a proferire parola.
Anche Manuel non parlò, bastava la sua espressione e la consapevolezza che la sua immagine

di disperato sarebbe rimasta impressa nella mente della ragazza; ormai era tempo di andare

e di lasciarsela dietro le spalle: prese il motorino, lo accese e partì e ,mentre

percorreva la strada diede uno sguardo ,per l’ultima volta,a quella ragazza che aveva

rappresentato un qualcosa per lui che non sapeva spiegare,un qualcosa di bello e sereno, e

che ora,si era trasformato in elemento negativo;in quel momento desiderava solamente che

Cristina rimanesse sempre così: seduta su una panchina senza nessuno che la consolasse fino

alla fine dei suoi giorni.

Era finito il liceo;l’esame di maturità arrivò come se lo aspettava: una semplice

formalità.Tutti i suoi amici si erano rinatanati a casa per studiare o far finta di

studiare per preparare chissà che monumentale esame finale; solo Manuel rimase impassibile

:usciva come sempre, andava a giocare a pallone come sempre, andava al cinema come sempre.
Davanti alla commissione si presentò nel miglior modo possibile: ben vestito, sorriso

stampato sul suo viso, con un buon profumo ed una discreta parlantina.
L’unico fuori programma fu la lacerazione del pantalone mentre accavalla le gambe, durante

l’interrogazione su ovidio nasone.Avrebbe voluto discutere sul fatto che la professoressa

d’italiano giudicò il suo tema insufficiente e fuori traccia; avrebbe voluto risponderle

che il suo era uno scritto di protesta contro prove che contiene tracce assurde,

anacronistiche e ipocrite, senza nessun riguardo alla realtà che ci circonda; ma cosa

avrebbe ottenuto?Assolutamente niente.Non poteva ottenere nulla da una generazione di

professori che viveva fuori dal tempo,che dei temi sapeva solamente individuare e contare

gli errori da segnare con il blu ed il rosso.Pochi erano gli insegnanti che andavano

rispettati e tra questi non c’era quella professoressa.Fece, dunque, buon viso a cattivo

gioco, liquidando il guidizio della donna con un sorriso ed un:”Va bene così!”.
Naturalmente Manuel non era tipo da inseguire voti stratosferici ed, infatti, non volle

neache andare a vedere i voti finali, anzi partì subito per il mare.
La scelta di partire subito era data dal fatto che non voleva vedere alcuni studenti con i

loro genitori sindacare su il voto finale,ammettendo che il proprio figliolo non poteva

stare allo stesso livello, di altri.Manuel fu contento nel costatare che, per quanto lo

riguardava, i suoi genitori erano contenti del quarantasei preso dal figlio e con

un:”Bravo”,chiusero la vicenda.
Il mare gli servì soprattutto per pensare a tutto ciò che gli era successo nel corso di

quegli anni: Carmen, Cristina, i suoi amici, nel bene o nel male,rappresentavano pezzi di

un mosaico della sua misera vita e quindi non si potevano dimenticare, ma ora c’era da

voltar pagina e pensare ai prossimi quattro o cinque anni all’università.
Doveva capire che il periodo del liceo clasico era finito ormai e tutto questo lo rendeva

infelice.Non poteva scordare quegli episodi che erano acaduti all’interno di quel piccolo

edificio situato nella piazza principale della sua città.
Quella scuola aveva subito negli ultimi anni due autogestioni, un numero indeterminato di

scioperi con motivi diversissimi:dalla lotta contro la riforma, alla solidarietà ai

metamelccanici in sciopero e chi ne ha più ne metta.
Quell’ edificio poteva rappresentare l’archetipo della scuola del centro sud: mura

fatiscenti, strumenti tecnologici ridotti all’osso e comunque sorpassati ed un lassismo di

buona parte dei professori che, secondo Manuel, in qualche modo poteva essere giustificato:

quei poveracci devono ripetere per trent’anni sempre le stesso cose a persone che non

volgiono star a sentirli; se questa non è una punizione, allora come deve essere

chiamata?In questo modo si allontanano da quello che è lo scopo della scuola: non insegnare

come si traduce una stupida frase di Senena o di Cicerone ma la scuola ha il compito di

diventare una palestra di vita , dar agli studenti la possibilità di acquisire i mezzi

necessari per realizzarsi e far loro scoprire le loro vere attitudini.
Manuel ricorda , con affetto, una delle sue ultime interrogazioni con la professoressa di

chimica.Lei gli chiese, dopo l’ennesima mancata risposta sull’ossidoriduzione :”Cesaretti,

che vuoi far da grande?Che facoltà sceglierai?”.
“Veramente professoressa non lo so, ancora non ho le idee tanto chiare”.
La professoressa tolse lo sguardo dal libro di chimica, levò gli occhiali da presbite che

portava e gli lanciò un’espressione dal tono alquanto inqwuisitorio e proferì codeste

parole: “Secondo me, tu puoi fare solo legge perché a te non tiene di fare niente,

quest’interrogazione n’è la prova!”.
Manuel non sapeva se la scelta fu dettata da aattitudini personali oppure da ciò che le

disse quella professoressa, ma fu così che si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di

Teramo, ma non volle sentir parlare di frequentare le lezioni.Aveva l’intezione di rimanere

a casa; i genitori acconsentirono e così cominciò il sodalizio con Morgan.
Uscire però la mattina, con il suo cane, e, non rivedere più i personaggi della scuola e

gli amici più stretti, era difficile da digerire e per sentir un po’ di calore umano, si

fermava a parlare con i bidelli della scuola che aveva frequentato, rivangando i vecchi

tempi.

Il fatto di non frequentare l’università, d’altro canto, dava la possibilità al nostro

amico d’avere assoluta libertà in tema di viaggi; i suoi amici ed ex-compagni di scuola

erano sparsi per tutta l’Italia, quindi lui aveva a disposizione stanze singole o doppie

nelle maggiori città italiane, dalla Capitale, a Pavia passando da Bologna; il viaggio più

lungo lo intraprese per raggiungere un suo amico a Torino, città a cui lui era legato non

solo perché lì era presente la sede della Juve, ma soprattutto perché in quella metropoli

cominciava, suo padre, a lavorare presso la F.I.A.T..
Manuel, nonostante avesse questa libertà, riconoscuitagli anche dalle più autorevoli

autorità (i suoi amati genitori), era restio a spostarsi giacchè, la pigrizia,

rappresentava una delle caratteristiche inalienabili dell’essere persona; per trovare

la”forza” per muoversi doveva individuare un motivo cocreto: viaggiare senza finalità non

gli era mai piaciuto.Questo motivo, di solito, era rappresentato dalla possibilità di

vedere gruppi musicali,soprattutto stranieri.
Tra i concerti a cui ha assisitito, Manuel non ne potrà mai dimenticare uno in

particolare:quello dei Pearl Jam a Roma il dodici Novembre 1996; aveva sempre sognato di

stare davanti il palco sotto Eddie Vedder che cantava “Alive”.La possibilità di poter

andare a vedere il concerto a Roma, era anche una scusa per vedere come le sa passava

Carmen, che frequentava la facoltà di guirisprudenza della Sapienza.
Il viaggio fu turtuoso poiché il nostro povero ragazzo perse la concidenza del treno nel

quale lo aspettava Samuele, colui il quale era considerato una sorta di idolo in quanto

rappresentava tutto ciò che Manuel non era: era il suo amico più trasgressivo, quello che

sperimenta le cose prima degli altri all’interno del gruppo; loro due si proteggevano a

vicenda: l’uno metteva in gioco la sua fama di bravo ragazzo per difendere l’altro, mentre

quest’ultimo dava la possibilità a Manuel di far qualcosa che lui ,da solo, non avrebbe mai

avuto il coraggio di provare: si può dire che erano in simbiosi.
Si trovarono direttamente a Roma presso la fermata Policlinico della metropolitana e

,subito dopo, si recarono al Palaeur per cercare di trovare due biglietti per il concerto.
Manuel era a dir poco elettrizzato: all’interno del palazzetto, migliaia di persone si

accalcavano alla ricerca del posto migliore, tutti in possesso di zaini, maglietta del

gruppo ed alcuni con un po’ d’erba nascosta.
Era il primo concerto per Manuel, il primo di lunga serie e gli faceva un certo effetto nel

vedere e sentire persone di qualunque età, di diversa estrazione sociale parlare la stessa

lingua in altre parole quella della musica.Lo stesso concetto di musica per lui era un

mistero: lì sopra il palco c’erano quattro persone che nella vita potevano essere anche gli

sfortunati di turno, ma che, una volta imbracciato uno strumento, erano considerati, in

quel preciso momento degli dei.Forse il cantante era un drogato, magari il chitarrista

picchiava la moglie, cose che nella vita di tutti i giorni avrebbero portato quelle persone

al pubblico ludibrio,ma in quel momento semplicemente non importava.
Dopo il concerto, uscirono dal palazzetto dello sport, sudati e mezzi sordi a causa del

volume delle casse altissimo perciò la seconda regola che Manuel trasse da quell’esperienza

è che il fischio all’orecchio dopo il concerto, quel fastidioso suono, sarebbe stato un

comune denominatore anche per i prossimi.Una volta preso l’autobus, si recarono presso casa

di Carmen che, in gesto di bontà, aveva deciso di ospitarli per la notte.Carmen aveva preso

in affito un appartamento in piazza Bologna insieme ad altre due ragazze di Arcadia che

Manuel e Samuele conoscevano proprio bene. Viola e Rosa.
Quando Viola aprì l’uscio della porta si ritrovò di fronte due ragazzi che sembravano

essere partiti per il fronte:in particolore si presentavano sudaticci e con le magliette

allargate sull’orlo della lacerazione.
Manuel non vedeva Carmen da molto tempo, ma lei divenava sempre più bella.
Viola e Rosa andarono a dormire che era notte fonda o mattina presto;Samuele entrò nel

bagno per togliersi il sudore sputato dal suo corpo durante il concerto.Carmen e Manuel

rimasero in cucina e dopo aver parlato del più e del meno lei gli sparò una notizia che lui

non si sarebbe mai aspettato:”Lo sai che non sono più fidanzata?”;.
“Ma con che cazzo di coraggio mi dici queste cose?”,pensò il nostro amico, il quale non

fece trasparire nulla dalla sua espressione, un po’ come quei giocatori di poker che

puntano una somma sontaziosa senza aver nulla in mano.
Lei continuò:”Ho capito che Tito era sono un collezionista di ragazze, non aveva più senso

rimanere con lui, anzi devo dire che sono stata ingenua a mettermi con lui, ma che ci vuoi

fare…può succedere!”.
“Solo adesso te n’accorgi, brutta cretina?”, anche questo Manuel lo pensò solo.
Mentre Carmen faceva il caffè, chiese a Manuel come andava l’Università.
“Sai, lo studio va da sé, dopo i prinmi tempi ho preso il cammio giusto; non voglio dire

che sia facile, accidenti! Facciamo una facoltà dove si deve pensare poco, si deve solo

ricorda questo o quell’articolo”.
Carmen gli diede la tazzina col caffè non zuccherato, come lo preferiva lui, e di questo

particolare Manuel si accorse;mentre lui beveva quel caffè nero e bollente lei gli fece una

proposta”senit, dato che ci vediamo poco e ci sentiamo ancor più raramente, ci vogliamo

scambiare gli orologi?”.
“Vuole scambiare gli orologi lei!Avrà un significato simbolico tutto ciò?Con il mio

orologio vuole un pezzo di me?Carmen basta che tu sia esplicita ed io mi gettrò ai tuoi

piedi, ma ora niente più giochi!Devo fare il duro, mi sono ripromesso di non cadere in

questi tranelli”.
Manuel non si fece intenerire, e con la sua risposta si manifestò un po’ acidino:” Sai, il

mio orologio costa un po’!”.
Dopo quella risposta calò in quella stanza, che a dir il vero era un po’ trascurata, come ,

tra l’altro è ogni stanza in mano a giovani universitari, il silenzio che fu rotto

dall’entrata di Samuele che con due delle sue battute alquanto sciocche riavvivarono la

serata o la mattinata, dipende dai punti di vista; poco dopo si misero a dormire.
L’indomani ripartirono e Manuel tornò nella sua città e alla monotonia che sgorgova da ogni

dove come le cascate del Niagara.
L’unica cosa che lo spingeva ad uscire ad Arcadia era il sapere che, se non c’era nessuno

in giro, poteva sbattere presso la bottega di un suo amico: Carlo aveva un negozio d’intimo

per donne; vedere quei perizomini, quei tanga, per Manuel era un divertimento , soprattutto

quando, con la sua immaginazione alquanto distorta, abbinava un tanga a ragazze che

entravano nel negozio e che al posto del sedere si portavano un rimorchio dietro!Con Carlo

il rapporto era speciale: lui era più grande di Manuel, era un ragazzo che con le donne ci

sapeva fare e ad aveva un’esperienza incredibile; si può anche dire che il nostro

protagonista lo venerava; i loro discorsi erano molto sinceri eil fatto di poter criticare

l’amico per un suo brutto vestito, per un comportamento non molto educato o conveniente in

una data situazione non era un ‘offesa, ma un modo per poter migliorare l’altro, e, di

solito, alla fine si arrivava ad una conclusione comune.Forse era sul terreno della cultura

calciofila che tra i due vi era una certa distanza, o meglio ancora, un abisso, a causa

della faziosità radicata nei personaggi: Carlo era milanista, un tifoso che aveva fatto suo

il credo berlusconiano della grandezza nel pallone; l’apoteosi del Milan sacchiano, e della

cultura del lavoro e dell’attacco, come miglior difesa, rendevano i discorsi di questo

commerciante privi di senso: solo il Milan faceva la cosa giusta e chi non era milanista

poteva considerarsi un eretico del pallone; quando parlava del Milan, Carlo usava sempre il

termine: “ Noi qui e noi là!Noi siamo andati a giocare al San Paolo, abbiamo faticato, ma

poi abbiamo vinto meritatamente”.Era come se facesse parte della squadra, parlava dei

giocatori chiamandoli per nome; Carlo rispettava Manuel come persona e gli riconosceva

anche molte doti, ma quando parlava di calcio apostrofava quel blasfemo juventino di Manuel

con questa frase: “Incompetente!ma che ne sai tu di calcio!”, zittendo sul nascere ogni

discorso che avrebbe portato ad una rissa verbale tra i due.
Il suo negozio, che si trovava al centro di Arcadia era, comunque, il posto di ritrovo di

chi non aveva nulla da fare, oppure di chi usciva per il Corso e, dopo una breve

passeggiata, non incontrando nessuno con cui discorrere, oppure nessuno con cui andare a

prendere un aperitivo, andava a da Carlo, magari a commentare il fisico della ragazza

appena entrata nel negozio o l’ultimo video passato sulla commerciabilissima Mtv o a

prendere in giro il giovincello che era deciso a comprare, per la prima volta, alla sua

ragazza un qualcosa di intimo.Carlo si inquietava con questa tipologia di clienti, i quali

entrano a comprare, ma non sanno né cosa, né, tantomeno la taglia.Con i più reticenti a

divulgare informazioni sul fisico della ragazza, Carlo non aveva un bell’atteggiamento

propositivo, quindi quando per esempio chiedeva la taglia del reggiseno e, a tale domanda,

non c’era risposta, lui apertamente diceva: “Ha le tette grosse o piccole?”.
Manuel gli parlò del concerto, con invidia mal celata dell’amico, e della strana

conversazione che ebbe con Carmen.
Carlo disse la sua: “Secondo me, la storia dell’orologio eraa solo un pretesto; dovevi

andar più in profondità, vedere dove lei voleva andar a parare.Lasciamo dire però, che solo

tu potevi uscirtene con una frase idiota come quella!E poi, scusami, tu vuoi lei?Allora

cosa te ne importa dell’orologio?Poteva essere un mezzo per arrivare a qualcosa che va

oltre l’aspetto mareriale”.
“ Bè, Carmen è una ragazza un po’ ingenua, magari le sue intenzioni erano quelle che

apparivano a me cioè un semplice scambio di orologi; ora, comunque, quello che è fatto è

fatto e se anche ti dicessi che avevo capito che forse lei voleva da me qualcosa in più di

un semplice orologio, allora ti posso anche aggiungere che avrei avuto paura di dirle sì;

non vorrei ripiombare in un’altra delusione, oppure in un’altra figuraccia con lei, avendo

frainteso le sue purissime intenzioni”.
L’amico commerciante chiuse il discorso: “Caro il mio Manuel, se vuoi far parte del club

degli ignavi fai pure; hai fatto il liceo, te lo ricordi dove li aveva posizionati, quelli

lì, Dante?Vai a rileggerti l’Inferno, vai…In cosa posso esserle d’aiuto?”.Entrò un cliente

e, quindi, quel discorso cadde nel vuoto.
Forse ad Arcadia i mesi terribili potevano considerarsi i mesi invernali.Ci si può

immaginare una piccola cittadina col suo centro storico medioevale vuoto, con i negozianti

intenti nella loro attività più importante, cioè il fumare nell’attesa di un cliente, e con

un clima rigido a causa delle maestose montagne che circondano tale ridente, si far per

dire per un giovane pieno di ambizioni e voglia di vivere, cittadina.Quando la neve copriva

la montagne, comunque, la città diveniva meta obbligata dei turisti; di solito di gente

romana o napoletana che disponeva di una seconda casa in montagna; quei soggeti erano

riconoscibili non solo dalla parlatama anche dal fatto che ostentavano la loro ricchezza in

mezzo alla gente del posto, ma soprattutto perché andavano in giro per negozi calzando

scarponi da montagna per la neve, che in città non arrivava mai, e tute per la neve

coloratissime; Manuel era dell’idea che quei colori sgargianti servivano per individuare

nel centro storico di Arcadia la comitiva scesa dalle montagne e dispersasi nelle

stradine.Nonostante la città era pine di questi signori e signorotti, lui si sentiva solo:

cosa serve una marea di gente se non puoi scambiare una parola con nessuno di loro?Manuel

si rifugiava nella palestra per dare un senso almeno estetico alla propria misera vita,

oppure presso l’amatissimo cinema dove però i film arrivavano sempre molto più tardi

rispetto alla pubblicazione; lui, peraltro, per la sua abnegazione nel frequentare quella

sala, ebbe un riconoscimento, non formale ma solo di fatto, di un posto nella sala

cinematografica tutto per lui, con tanto di nome scritto a penna sulla schienale.Quella

poltroncina lo faceva sentire un giovane importante e questa onorificenza rendeva, lo stare

seduti su quella sedia, meno scomodo.
La cosa positiva di tutto ciò, se ne rese conto solo in un secondo tempo, dando un occhiata

al suo libretto universitario, era il fatto che non avendo nessuna distrazione, tranne, in

maniera estemporanea, le proposte geniali di Morgan, riusciva a studiare perfettamente; non

trovava più difficoltà nello studio della legge, come all’inzio, ma, anzi, gli esami

venivano superati con una certa facilità.Manuel era compiaciuto di ciò, forse si rendeva

conto che qualche pregio o attitudine ce l’aveva, forse bastava credere un po’ in sé

stessi.
In quei giorni di pura noia telefonò la solita Carmen: “Ehi Manuel, come va?”.
La voce di Carmen era incondibile: “Ehi ciao…Come mai sei qui?”.
“Ti ho sorpreso?In effetti sono dovuta tornare da Roma per sbrigare alcune faccende, ma

nulla di preoccupante.Sapevo di trovarti…ormai sei diventato il mio punto di riferimento ad

Arcadia”.Manuel non era affatto dispiaciuto da tale affermazione, anzi…
Lei fece una proposta: “Andiamo al cinema stasera?C’è un bel che mi va di andar a vedere;

vuoi farmi compagnia?”.La sua voce era quella di sempre, allegra, serena, vitale, la sua

voglia di muoversi era contagiosa, e tale contagio Manuel lo subì attraverso il telefono.
Manuel si fece venir a prendere da lei in macchina; non è molto signorile questa cosa, o

da”cavalieri” come si usa dire comunemente, ma egli odiava guidare la macchina, preferiva

stare al fianco dell’autista o, meglio ancora, nei posti di dietro; si potrebbe pensare che

tale attitudine era una conseguenza al fatto che, nel cervello di Manuel, è nascosto il

ricordo recondito di suo padre, il quale portava il figlio in macchina per farlo

addormentare, quando lui faceva i capricci.L’appuntamento era alle 21,30, sotto casa, ma

Manuel conosceva bene le abitudini di Carmen e quindi si fece trovar pronto solo alle

21,45.
Al cinema egli si sedette sulla poltroncina personalizzata.In quella sala si materializzò

un’atmosfera alquanto strana.La coppia di amici andò a vedere uno di quei filmoni

strappalacrime dove l’amore vince su tutto.Lei è alcostista?Perderà questo vizio.Lui si

drogava e picchiava i figli?Per l’amore verso la sua famiglia, dopo numerose sofferenze,

tutto si sistemerà e vivranno felici e contenti come nei finali dei fumetti su Topolino,

dove anche perde è contento, sempre!
Chi va a vedere questi film?Le donne emotive, con i fazzoletti in mano, accompagnati da

uomini corrotti, forse, da una notte di sesso o chissà da cosa, soprattutto se si tratta

della domenica sera, quando c’è in televisione il posticipo della partita.Manuel non fece

difficoltà a scegliere, non perché a chidergli di andar a vedere quel film fu Carmen, ma

perché in posticipo non giocava la Juventus: passano gli anni, passano le donne, le gioie e

i dolori, ma la Juve è una fede e, come tale, sta al di sopra di qualunque essere umano.
È un momento importante, per un uomo, acconsentire ad andare al cinema e soffrire sia per

il film sia per le scomode poltrone; negare ad una donna tale uscita potrebbe significare

mettere in dubbio la loro unione sentimentale: dalla mancata vsione del film, si può

passare alla rivisitazione di episodi passati sui quali lei aveva soprasseduto fino a quel

momento, ma che avrebbe tirato fuori nei momenti più propizi come strumento di

ricatto.L’episodio finali di questi discorsi possone essere affermazioni del tipo: “Allora

non mi ami più!”, oppure: “ Ormai non mi capisci più”.Magari da questi scerzi si finisce la

coppia si lascia!
Era prevedibile che a Manuel quel film non piacesse, ma cose gli importava se a suo fianco

aveva il suo amore?Quella ragazza che, appena vide entrare sull’autobus nella gita della

terza media, sapeva che gli avrebbe sconvolto la vita?
In quella sala le coppiette, di solito poste negli angoli più bui della sala, si baciavano,

si dicevano cose graziose all’orecchio dell’altra e facevano sorrisini che più intimi di

così nono si può; gli unici intenti a guardare il film erano proprio Manuel e

Carmen.Chiaramente né al cinema né dopo la visione del film successe qualcosa, ma lei

disse, prima che Manuel potesse scendere dalla macchina per raggiungere la porta della

propria casa: “Ho deciso che per gli esami studio qui.Ci sentiamo?”.
Lui annuì con il capo.
Lei non aveva finito e continuò: “Stiamo facendo lo stesso esame, magari possiamo darci una

ripassatina insieme; che libro usi?Io il testo di Temistocle Martines”.
Manuel disse che anche lui stava studiando su quel testo, ma non era una coincidenza, come

molto potrebbero pensare, in quanto sapeva che quel testo era uno dei più utilizzati nelle

varie facoltà italiane di giurisprudenza.
Un bacio sulla guancia e Manuel scese dalla macchina.
Nei giorni seguenti studiarono insieme, si telefonarono, scherzarono su quando Manuel senza

giri di parole, le chiese di essere sua.
Questo bel quadretto durò il tempo di un fiammifero acceso giacchè lei ripartì, oltretutto

senza avvertire, per Roma; fu un periodo lundo nel quale non si videro, né sentirono.
Quando Manuel si sveglia la mattina gli viene sempre in mente una scena di un’opera di

Eduardo Dè Filippo, quando lui viene svegliato la mattina.Non ricorda bene ciò che disse,

ma il senso era che uno non fa in tempo a chiudere gli occhi che subito li deve riaprire;

pensò lui che sebbene quella fosse una battuta, un fondo di verità c’era:perché la cosa più

bella del mondo, il dormire, non può essere sentita dall’uomo?La persona non ha la

consapevolezza che ha dormito, il fatto viene dedotto solo guardando la sveglia sul

comodino; solo da lì l’individuo può accorgersi quanto ha dormito, inoltre può dedurre se

ha dormito bene o male, facendo il calcolo matematico delle ore.
Perché non possiamo accorgersi di questo piacere simultaneamente nel momento in cui il

piacere è in essere, mentre lo stress e il dolore non porta alle stesse conseguenze?Tutto

questo per dire che il nostro amico, ogni giorno, sente la sveglia per alzarsi alle otto di

mattina , fare colazione e poi cominciare a studiare.
Che strana cosa è il diritto!Manuel aveva passato senza difficolta, i primi tredici esami;

tutti, naturalmente,avevano un punto in comune, cioè, spiegavano le regole di quel settore

del diritto specifico.Il nostro studente ne trovava altri di fili conduttori nelle varie

materie: il fatto che tutti davano per scontato l’uguaglianza del soggetto davanti alla

legge, la giustezza della pena, il fatto che tutti devono contribuire per lo Stato con i

propri mezzi ed in maniera progressiva, secondo le norme tributarie.Tutto ciò era e

continua ad essere giusto in linea di massima, ma nessuno di quei testi diceva:

“Attenzione, nella realtà non è proprio così!”.
Lui si chiedeva il perché del condono fiscale.Perché chi dovrebbe pagare di più, poi alla

fine, paga di meno?Perché viene sempre graziato?Perché se un’imputato famoso, se viene

condannato,va pure in televisione per dire che i giudici contro di lui hanno sbagliato e

magari, guadagna di più rispetto a prima?Perché il cittadino comune, se viene addidato come

colpevole, ma poi viene riconosciuto dagli stessi giudici innocente, non se ne parla e,

magari, diventa più povero, rispetto a prima perché fottendosi, tutta la società, del

principio di innocenza, è ormai screditato?
In effetti l’unica risposta che si ruisciva a dare è che le caste ci sono state, ci sono

tutt’ora, ci saranno sempre!Bah!Le libertà, i diritti, sono tutte cose che noi, gente

comune dobbiamo sudarci sul campo, c’è invece chi ha un incremento ingiustificato di

diritto; Manuel, poi, mal sopportava, quei soggetti, soprattutto attori e cantanti, che si

vedevano sui palchi delle grandi platee a blaterare sulla libertà, sulle manovre del nostro

governo contro i lavoratori, contro i magistrati, contro l’Europa, contro tutti!Questo tipo

di qualunquismo scellerato, senza un fine vero, se non il sentir parlar di sé, poi comporta

un influenza sui giovani che stanno di fronte a quei sedicenti leaders carismatici; Manuel

non voleva che tutti quei giovani la pensassero come lui, ma che almeno la propria idea

politica passasse attraverso esperienze proprie di interesse nei confronti della materia, e

non per sentito dire!Perché nessuno di quei cantanti, attori, calciatori, non cacciano la

moneta e sostengono un barbone?Un bambino russo?Una ricerca sul cancro?Cosa fanno questi

soggetti?Mettono la loro faccia e dicono a noi di fare uno sforzo nei confronti dei più

deboli.Bah, bah e ancora bah!
All’ennesimo perché, Manuel chiuse il libro e, giacchè la giornata lo permetteva, decise di

andar a farsi una passeggiata per rischiararsi le sue idee.
La zone nella quale abitava il nostro futuro avvocato non era molto vicina al centro della

città, ma, nonostante questo, era un quartiere trafficato per la vicinanza con la stazione;

la sua casa si trovava in un ibrido tra un quartiere residenziale e ambiente agricolo.
Quando voleva farsi una passeggiata, Manuel preferiva sempre andar verso la zona rurale,

dove la mattina la foschia ricopriva ancora i terreni dei contadini, senza dar la

possibilità di distinguere le varie coltivazioni, la foschia, alla fin fine, è come la

vita: non puoi veder cosa ti attende, puoi essere cauto nei movimenti che fai, ma non si

può prevedere le consuguenze delle tue azioni.Quel giorno, però, la foschia, non si trovava

davanti a sé, non copriva le coltivazioni, ma si trovava dentro di sé, nella sua testa.
Qualche tempo fa, si sarebbe chiesto: “Cosa mi riserva il destino?Che mi devo aspettare

dalla vita?Io cosa voglio che la vita mi offra?”.Sapeva che non erano queste le domande

giuste da porsi, piuttosto bisognava chiedersi: “Cosa voglio fare?Come voglio rendermi

utile alla società?”
Le persone tendono sempre ad aspettare che gli eventi si facciano da soli.Egli, invece,

aveva la consapevolezza che se voleva cambiar qualcosa, doveva esser lui stesso a far

scatenare gli eventi e a dominarli.
In questo contesto rivalutò l’unico gesto di coraggio della sua vita, fatto, ormai chissà

quanti anni prima, nei confronti di Carmen.
La foschia si stava diradando; manuel, forse, ci vedeva più chiaro,e, in questo caso, gli

occhiali da vista non c’entravano.Ritornò a casa, e dopo essere andato al bagno, giacchè il

movimento gli stimolava l’apparato digerenre, ri rinchiuse nella camera.
Quelle quattro mura erano da considerarsi la sua vita; magari le sue idee politiche erano

per una società più giusta, ma nel suo spazio esiguo, egli non si faceva mancare nulla:la

televisione, le stereo dei suoi genitori, il telefono sul comodino, la batteria blu.A

Manuel piaceva arricchire le mura con le foto dei suoi amici, col biglietto di un concerto

mitico, oppure con cimeli particolari presi in qualunque posto andasse.
In questa collezione di cose, che la mamma aveva etichettato come roba da buttare, non

potevano mancare i calendari famossisimi con le tette al vento: quello era l’anno della

Ferilli e della Marcuzzi; Manuel non se la sentiva di poter scegliere tra una mora e una

bionda: si prese tutte e due!Quando uno può!
Col passare del tempo e, quindi, maturando, anche la sua libreria divenne più

competitiva.Fino a poco tempo addietro, leggeva Topolino, ma un giorno decise di comprarsi

un libro serio, per passare così nel cerchio degli adulti.Ricorda con piacere il primo

libro letto: il viaggio allucinante di Asimov, rappresentava un capolavoro per lui.Quel

modo minuzioso di mostrare le varie operazioni con termini tecnici,ma in maniera anche

chiara, per un neofita, era un talento enorme.Era convinto che erano questi i libri che un

giovane studente dovrebbe leggere a scuola.Tutti si sarebbero interessati di più.
Da Asimov, passò a Miller e suoi racconti erotici, a D’Annunzio.Ormai ci aveva preso gusto!
La vita, come tutti sanno, è bella perché, nel bene o nel male, non è mai monotona, regala

sempre quella sorpresa che attende tutti dietro l’angolo, appena svostato, della nostra

esistenza, che, seppur effimera nella lunghezza, comparandola a quella che è la storia

dell’umanità, è sempre emozionante.Tutti abbiamo bisogno di una dose di emozioni: si può,

infatti, definire l’uomo, come drogato da emozioni e, essere in crisi, di astinenza, ci fa

sentire vuoti e senza valore.
“ Buonasera vorrei un Fiore”.
“Quale tipo di Fiore?”.
“Uno qualsiasi, mi basta che sia profumato e vivace”.
“Vivace?”, chiese la fioraia, “non avevo mai sentito parlar di un fiore come vivace!E’ per

un’occasione particolare?No? Allore le do questo qui”.
Manuel lo prese in mano e lo annusò; non chiese quale poteva essere il nome del fiore

perché non voleva apparire come un ignorante (per queste cose era fissato!), ma i colori

accesi lo avevano conquistato.La fioraia chiese gentilmente: “Vuole scrivere un biglietto

d’auguri? Qui n’abbiamo di tutti i tipi e per ogni occasione: eleganti, semplici, colorati

o tutti bianchi, col fiocchetto o senza.”.
Manuel era seccato dalla invadente gentilezza della fioraia e, quindi, troncò subito il

discorso, prima che la commerciante, potesse entrar nei particolari: “Questo bel fiore, con

questi petali così colorati, con questo prfumo inebriante dal far ubriacare un astemio è

per me!Il biglietto non mi serve, a meno che io non voglia farmi gli auguri per qualche

evento che riguardi la mia vita, ma ora in questo momento, che io sappia, nessun

appuntamento mi coinvolge, né un compleanno, né il mio onomastico di cui ignoro anche il

giorno!Quindi, senza patemi d’animo, non si prodighi nel cercare un biglietto carino;

magari, però lei sa qualcosa di me che io non so!”.Manuel, la mattina, non è mai gentile,

ed è per questo che, il più delle volte, non proferisce parola; questa volta, però, la

fioraia aveva esagerato.
Quest’ultima aveva l’abitudine di farsi gli affari degli altri, facendoli poi conoscere

agli altri.Questa corpulenta signora chiedeva, sempre, i particolari di una storia,

rispondendo, a chi criticava, tale atteggiamento che, questo, era l’unico modo per fare

ottime composizioni; sapere il perché di un mazzo di fiori era importante, spesso ripeteva

che i fiori sono parole aggiunte a quelle dell’alfabeto, con cui si possono dire che le

parole stesse non possono descrivere.La sua era una semplice indagine psicologica sul

cliente per far rendere al meglio la sua attività.
Nonostante le dure parole di Manuel, la signora, armata di forbici, appese ad un cinturone

legato alla sua immensa vita,dopo un primo gesto di nervosismo, non si tirò indetro e

continuò a fare domande personali, come fosse una mitraglia a caricamento automatico.”E’

sicuramente una lei…è un fiore particolare quello che lei ha scelto…ne deduco che è anche

una giornata particolare quella di oggi vero?”.
“Se ci tiene molto a saperlo le posso solo dire che si tratta di un mio ricordo, ma se ha

finito, adesso, vorrei prendere il fiore, pagarlo e andar via.Grazie!”.
In effetti quel fiore rappresentava un ricordo, un frammento di vita; si tratta di

istantanee che sepolte nel nostro cervello riaffiorano grazie ad una causa scatenante quale

un profumo, un suono, un luogo; in molti film, si vedono psichiatri che attuano tale

principio, ossia il ricordo legato ad un elemento sensoriale, volontariamente; il fiore

serviva a Manuel per far rivevere nella sua fervida mente, che rappresentava un po’ un

mondo a parte, il ricordo di una ragazza conosciuta qualche tempo fa.
Nonostante quella ragazza avesse un nome proprio, come del resto hanno tutti, tranne i

brasiliani, dei quali, Manuel, non capiva il funzionamento del soprannome e non capiva se

essi avessero un nome proprio, per il nostro amico, lei era un fiore, dal quale riprendeva

la fragilità da una parte ma l’eleganza dall’altra.
Lei era Fiore, il nome non aveva importanza.
Manuel ne era fortemente attratto, ma non voleva compiere il passo deciso; troppe le

scottatture prese in passato, troppe le sofferenze patite, per un ragazzo che poi tanto

forte non era, ma anzi, lamentava una certa debolezza caratteriale: il non essere compreso

nei suoi gesti, nel non trovare, tra la sua cerchia di amici ed oltre, una persona che

potesse comprenderlo.Quelle esperienze passate sottrassero dal suo essere persona,

quell’instintività e avventatezza nei confronti delle donne e lo resero più cauto

nell’affondare un approccio benchè minimo.Ormai egli tendeva a diventare un amico delle

ragazze più che un corteggiatore.
A chi gli faceva notare che diventare troppo amico di una donna avrebbe potuto pregiudicare

un rapporto intimo con la donna, in questo ci si riferiva al suo rapporto con Fiore, lui

rispondeva stizzito: “Posso aspettare anche tutta la vita, ma sono convinto che lei si

accorgerà di me.Voglio che sia lei ad avere quella sensazione che ti fa capire di essere

davanti al ragazzo giusto.Voglio che, quando lei si giri intorno per trovare un compagno,

il suo viso veda per prima me, e questo può succedere solo se io divento suo amico.Questa

ragazza è molto importante per me e non vorrei che diventi una nuova Carmen”.
Fiore era affezzionata a Manuel, timido, scontroso che rende la situazione più complicata

di quanto realmente sia.
La ragazza era diversa: più che preoccuparsi delle sue azioni e delle consuguenze, come

faceva Manuel, focalizzava la sua attenzione sui suoi desideri e sulle esigenze che la

riguardavano, senza pensare alle conseguenze; agiva per il presente e non per il futuro.
Fiore era ancora una liceale, poiché sebbene Manuel la reputava persona degnissima e

intelligente (forse era l’amore che gli offuscava gli occhi sulla verità), lei non si

concentrava molto sui libri.
Secondo Manuel, aveva un pessimo gusto per i ragazzi, ma questo da una persona

interessata.Si può dire, con certezza che, più l’aspetto fisico, ciò che lo attirava di lei

era, soprattutto, il fatto che era quello che Manuel non era e che avrebbe voluto essere.La

considerava il suo complemento.
La religione insegna che dalla morte nasce la vita.
Pioveva forte quando Manuel ritornò a casa tutto bagnato.
Era uscito col motorino e, quando lasciò casa, accellerando, come fosse un pitola di

motociclismo, il sole era alto in cielo e splendeva in maniera rigorosa, come una palla

fiammeggiante; come nele più classiche giornate estive, vi è sempre in agguato il temporale

che non ti aspetti, quello che dura cinque minuti e butta litri su litri d’acqua.Tornato a

casa ricevette una telefonata.
Quella voce così formale, fredda che giungeva dall’altra parte del telefono, non prometteva

nulla di buono: “ Manuel, è successa una cosa spaventosa…Non ho capito bene…forse un

incidente…Tommy ha avuto un incidente…è morto!”.
A quella notizia così inaspettata, Manuel rimase, inizialmente immobile, ma poi si riuscì a

sedere sulla poltroncina vicino al telefono.Sentì un brivido che lo attraversò tutto, forse

era il brivido della morte.Rimase spaventato da tutto ciò.
Tommy non era proprio un suo amico, non poteva considerarsi uno che col neo defunto avesse

avuto chissà quale rapporto speciale. Dalla sua prima emozione, passò ad una situazione di

stallo nella quale lui non sapeva come comportarsi, non sentendo i suoi comportamenti

simili a quelli del gruppo dei suoi ex compagni di scuola.Sentiva un certo dolore per la

dipartita di Tommy, ma si abbandonò a scene di isterismo;nono modificò i suoi comportamenti

e suoi gesti nei confronti della vita come avveniva nei suoi amici; in questo senso si

sentiva in imbarazzo e si chiedeva, in cuor suo, se magari lui fosse un mostro, per non

sentir nulla di profondo dentro di sé, o fossero gli altri ad avere dei problemi.Si sentiva

in imbarazzo, per questa situazione.
Quel ragazzo, veniva dalla stessa sua scuola e non c’era nessuno che nell’edificio non lo

conosceva.Era il classico ragazzo popolare e che faceva parlar di sé, amava stare davanti a

tutti.
Morgan, Carmen, Mark e Viola, ed ancora altri compagni liceali, si riunirono a casa del

Sindaco.Quest’ultimo non era il vero sindaco, ma era il suo soprannome: era militante

politico, amante della politica, che di politica si sfama.Era triste fare una riunione di

ex compagni per una sutuzione non allegra, ma triste nella quale è difficile strappar un

sorriso per aver rivisto un amico!
“Sono venuto appena ho potuto…ero tutto bagnato…ditemi tutto”.
Il Sindaco, avendo la mamma che lavorava nell’ospedale della città, raccontò tutto quello

che si poteva sapere per una disgrazia che lasciava una famiglia senza un erede e preda di

un dolore che non può essere codificato da altri, fino a che non si perde una parte di sé,

come un figlio o un genitore: “Guarda, non si sa di preciso; dovranno fare l’autopsia, ma

sembra che Tommy sia stato sorpreso dal temporale con la moto; è scivolato sulla strada

bagnata ed ha sbattuto la testa.Non era ancora morto, quando arrivò all’ospedale; mia madre

mi ha detto che farfugliava parole come : mamma, mamma…è entrato in coma e poi è deceduto”.
“Ma il casco?Non lo portava?”, chiese Carmen che nonostante fosse scossa per l’accaduto,

era bella come in giorno di festa.
Manuel, invece, non era scosso, ma lucidamente si chiedeva il perché delle cose

accadute.Perché si è fatto morire un ragazzo di 24 anni?Quel Dio che governa le cose del

mondo perché non lo ha salvato?Tommy non era uno stinco di santo, ma non era un gran

peccatore, non doveva essere punito in tale maniera.Se muore un vecchio, pensava Manuel, si

trova la giustificazione: ha vissuto la sua vita ed ora è arrivato il suo momento.Non si

può capire,ivece, razionalmente, il perché della morte di un giovane come Tommy.Non basta

aggraparsi alla fede, che domande di questo tipo non se le fa: il tutto rientra nel disegno

del Grande Manovratore.Tra l’altro, la morte di Tommy fu veramente tragica poiché egli morì

senza aver detto un ultima parola ai genitori, oppure senza che i genitori potessero vedere

i suoi occhi pieni di quella vita che da lì a poco se ne sarebbe andata; non si è potuto

congedare da nessuno e in nessun modo.
Vedere quel corpo freddo dentro la bara, fu un episodio della vita della sua vita che

Manuel avrebbe voluto cancellare dalla memoria: in completo jeansato, freddo, ricordava una

statua di cera, una di quelle presenti a Londra; Manuel non aveva mai visto un morto,

neanche quando morì suo nonno si sentì di avvicinarsi alla casa del parente defunto; fu un

colpo allo stomaco.
La corona venne comprata dalla stessa fioraia dove Manuel aveva comprato quel meraviglioso

fiore alcuni giorni prima.
La fioraia, naturalmente, aveva già saputo della tragica notizia, giacchè Arcadia è una

città piccola, dove le notizie si diffondono come una macchia d’olio, soprattutto se si

tratta di notizie dolorose o di pettegolezzi su qualcuno.
In quei giorni Manuel, come del resto gli altri amici, non era molto allegro; lui infatti,

quando stava insieme ai suoi ex compagni di classe, riusciva sempre a sdrammatizzare, ogni

volta che ce ne fosse bisogno; quella volta non fu possibile.
Un salvagente, a fomr a di telefono, fu la sua salvezza; rispose la mamma: “Manuel!E’ una

ragazza!”
Lui rispose e capì chi vi era dall’altra parte del cavo.
“Come stai?Ho saputo della disgrazia.Ti ho anche telefonato prima e ieri ma non sono

riuscita mai a trovarti”.
“Sai, Fiore, Tommy non era propriamente un mio amico,anzi dopo un primo momento di

dispiacere e smarrimento, non sono tristissimo; oggi però l’ho visto dentro la bara, in

mezzo a tanti fiori, col suo giubbino preferito e colla foto di Bob Marley, il suo cantante

preferito; quel momento è stato veramente triste, soprattutto perché sei contagiato, per

osmosi, dal dolore degli altri e, quindi, anche se te sei forte, la tua fortezza è

destinata a cadere sotto il piante di un gruppo per u ragazzo che non si meritava queto

destino”.
La ragazza cercò di tirarlo su di morale: “ Senti io sono a piedi, perché non passi e

usciamo un po’?Così ti distrai, che ne dici?”.
Uscirono insieme e decisero di andar in qualche locale del centro: oramai si conoscevano da

un po’ di tempo, ma Manuel riflettè che, da quando si erano conosciuti, non erano mai

andati in un locale da soli, ma sempre in gruppo.
Seduti davanti a due birre si confidarono.
“Come è stato il funerale?”, chiese lei.
“si può dire che è stato bello, c’è stata una grande partecipazione spontanea della gente,

il prete poi mi è piaciuto perché ha fatto una bella orazione funebre…senti vorrei

chiederti una cosa che non posso più rimandare”.
Fiore aspettò che Manuel parlasse.
Manuel fece un respiro molto lungo per poter dire tutto senza doversi fermare: “ Tu sai

qual è la mia vita quotidiana: mi sveglio alle otto, studio, mangio, guardo la televisione,

ristudio e poi esco un po’.Questa è la mia vita monotona di tutti i giorni.All’interno di

questo schema ci sono stati delle variazioni, soprattutto a causa di ragazze che poi, alla

fine, mi hanno sempre fatto soffrire, facendo sì che mi chiudessi in me stesso”.
Lei non capiva ancora dove lui voleva andar a parare.
Manuel continuò senza fermarsi: “Dopo la morte di Tommy, mi sono chiesto se valeva la pena

veivere nel modo come vivo io.Un amico mi ha detto una volta che Dante mi avrebbe messo tra

gli ignavi, i peccatori più deprecabili.Tommy aveva la mia stessa età, ma lui ha vissuto

molto più di me; se ci fossi stato io al posto nessuno mi avrebbe ricordato come hanno

fatto con lui.Poi, però, ho incontrato te, l’unica persona che è riuscita a migliorarmi

sotto l’aspetto del carattere, l’unica che mi abbia fatto uscire dai miei schemi.In questo

momento, in questo preciso istante tu rappresenti ciò che c’è di meglio in questo

miserabile mondo.Viviamo in mondo cinico dove l’ambizione va per la maggiore e tutti

cercano di ambire a posti di comando a scapito dei più deboli.
Viviamo in un mondo dove non esiste più la comunicazione tra persone, non si parla per

paura di provare emozioni, si preferisce mandare un messaggino con telefonino, si ha paura

di esprimere di persona i propri sentimenti.Io posso ritenermi fortunato ad aver incontrato

te. Tu mi hai dato tanto senza chiedere qualcosa in cambio.Io voglio darti me stesso e il

mio amore ora, senza aspettarmi qualcosa in cambio; il mio amore per te è senza confini e

non ha bisogno di essere alimentato dal tuo.Tutto questo perché mi hai reso migliore”.
Lei rimase stupita da quell’inaspettato monologo detto tutto di un fiato.
Siccome Manuel vedeva che lei non parlava lui, per metterla aproprio agio, disse: “Guarda,

non c’è bisogno che tu mi dica di sì; il mio è sintimento che volevo manifestarti, ma non

ha bigno di essere ricambiato”.
“Sono rimasta colpita e sorpresa, mi hai emozionata…Posso dire che non aspettavo che

questo, non ho mai detto nulla su questo argomento perché non riuscivo a capire le tue

intenzioni…Ora penso si saperlo!”.
Manuel rimase un po’ confuso, perché Fiore non aveva usato quelle frasi di circostanza

che, da Carmen in poi, tutte le ragazze gli avevano ripetuto nel corso degli anni e, quindi

rimase spiazzato,ma si fece impavido: “Senti non sono pratico di queste cose, ma penso che

forse adesso un bacio serva per suggellare la nostra unione”.
E bacio fu!
Adesso era in grado di pronunciarsi su cosa è l’amore.Morgan aveva torto, aveva capito che

ci si può impegnare con una donna.Manuel lo aveva fatto, era riuscita a cogliere il Fiore

più bello tra i tanti coltivati.
Non aveva avuto il benchè minimo momento di ripensamento su di lei; certo bisogna aspettare

ma , con costanza, si può ottenere un po’ di felicità!

Id: 12 Data: 05/12/2007

*

Vivere e dormire

Un giorno lui si alzò dal letto. Era pieno giorno. La luce entrava dalla serranda e lo accecava. Forse è stata la luce o forse il caldo a svegliarlo. Quando aprì gli occhi non capì se si era svegliato o stava ancora dormendo. Lui si ricordava ragazzino, con folti capelli e un tira baci sulla fronte, fastidioso a guardarlo. Si ricordava il suo corpo poco sviluppato, con la pelle liscia come la seta. Fece colazione, come sempre e poi si guardò allo specchio. Era diverso dal solito: pochi capelli, barba lunga e muscoli delineati. Era come cadere in un baratro, perché non ricordava che erano passati così tanti anni dall’ultima volta che si era visto allo specchio. Era cresciuto e non lo sapeva, era maturo e non lo sapeva, erano passati gli anni…e non lo sapeva Forse aveva dormito tutto quel tempo, oppure stava vivendo, ma dormendo. Forse è una cosa che avrebbe capito più in là, perché ora, guardandosi allo specchio, solo una cosa aveva inteso, in quel momento capì, guardandosi in quegli occhi verdi, che il suo sangue pulsava, che il suo naso si muoveva per il respiro…capì che era vivo e che da ora avrebbe vissuto.

Id: 11 Data: 05/12/2007

*

Quella volta di Kurt su RAITRE – II

Mario fermò il mio impeto e mi disse una volta finita la sua sigarettina: “Se magari provi a fermare il sarcasmo disarmante che ci imponi con la tua bocca fetida, vediamo se Luca ha in serbo un ‘idea”.
“Bè…dato che in macchina non riuscivo a dormire mi sono informato sul posto dal barista qui all’angolo; conosco anche la via dove ci siamo accampati, bastava leggere…quindi basta dare queste coordinate ai Carabinieri o alla Polizia e siamo a posto con la coscienza”.
“Chi telefona!”, chiesi sapendo già la risposta.
“naturalmente tu!Chi ci ha convinti a intraprendere questo viaggio?Sicuramente non io!L’ onore spetta a te, caro.”
“Va bene è deciso, dobbiamo solamente sgombrar questo posto, dato che non è esattamente un luogo adibito al campeggio”.
Lorenzo dormiva ancora e non aveva inteso quello che stavamo facendo
Il suo sonno gli impediva di comprendere e, quindi, stancamente, uscì dalla tenda e si buttò all’interno della macchina vicino ad Andrea, anche lui, beatamente nel mondo dei sogni.
“Pronto Polizia?Qui vicino c’è gente che sta litiga e urla in piena notte.Si sentono anche rumori di bicchieri rotti perché immagino se li stiano tirando dietro…Un attimo”.
In quel momento uscì una sedia volante dalla vetrata. Il rumore fu fragoroso e diffuso tanto che l’interlocutore della Polizia non fece domande su chi ero e che stavo facendo, ma disse solo : “Interveniamo subito”.
Noi ci mettemmo nella Punto anche se fu difficile sistemare il peso morto di Lorenzo che si trovava in stato di catalessi.
In tre riuscimmo a spostarlo nelle postazioni di dietro, dalla parte del guidatore.
Mettemmo la macchina in modo che non si potesse notare e aspettammo, inquieti,l’evoluzione degli avvenimenti.
Non vedemmo la macchina della Polizia bensì la sirena.Si udì un – Fermi!- e vedemmo un signore che in fretta e furia uscì dalla vetrata rotta come nei film di Sergio Leone e tentava di prendere la via di fuga.L’uomo non riuscì nel suo progetto poiché un volenteroso e atletico poliziotto lo prese per una caviglia prima che il potenziale fuggiasco potesse scappare.
Il poliziotto mise ai polsi le manette e gli urlò in faccia parole che non si riuscivano a comprendere benissimo a causa della situazione concitata.Sembrava di essere al cinema ma quegli attori non erano immagini proiettate su un muro ma erano solidi…non erano neanche attori!
Non avevano la voglia di aprir di nuovo la tenda, per cui ci limitammo a rilassarci in macchina.Fu l’unico momento in cui io riuscii a dormir un po’ e recuperar un po’ le forze.
Ci svegliò il suono di una mano sbattuta sul vetro della macchina. Un signore con i capelli bianchi ci intimava di andarcene da quel parcheggio.Anche lui urlava: forse era una prerogativa di quella località.Mi chiesi se si trattava di uno di quei requisiti che le guide turistiche mettono quando parlano della comunità di un determinato paese. Una cosa di questo tipo: “ La popolazione di Pincopallina tra le sue caratteristiche è nota nel mondo per la loro parlata simile ad urla di persona incazzata!”.Pensai, come seconda opzione , che si trattasse di una causa genetica dovuta ad inquinamento ambientale per cui tutta la popolazione ha subito un notevole calo dell’udito; da qui l’aumento del volume della voce.C’era anche un a terza opzione: quell’uomo urlava perché stavamo occupando, come i gitani un luogo non adatto.Nooooo, non può essere questo!
Prendemmo la macchina e ripartimmo per una nuova meta: un lago nei dintorni doveva aspettarsi il nostro arrivo.L’unica cosa che dovetti fare e informare Lorenzo di ciò che era successo quella notte.


Il tragitto per arrivare a Sulmona stava per concludersi, ma vi era ancora una notte prima di quella manifestazione e quindi, vi era tutto il tempo possibile ed immaginabile per andare a vistare questo lago fantasioso poiché era molto vicino.
“quale cosa ti da più fastidio?e cosa più piacere?”, chiesi a Mario.
“Mah l’indifferenza forse è la cosa che mi rende più nervoso; quell’indifferenza per la quale entro in posto, un locale e nessuno si accorge d ime!Quando in pratica nessuno ha preservato il ricordo di me in una data situazione.La cosa più bella?Questa è una domanda più difficile: stare insieme con una donna?Farsi una canna?In effetti un’affermazione seria è d’obbligo ora: avevo già riflettuto a questo quesito, prima che tu me lo rivolgessi e sono arrivato ad una conclusione…”.
“quale?”,alla conversazione partecipò anche Lorenzo; la sua faccia un po’ tirata dalla fatica per un viaggio che si stava dimostrando più duro del previsto faceva pensare che non era in fondo tanto interessato al discorso.
“La questione è nella differenza che forse c’è tra la nostra generazione e quella successiva; certo, noi siamo giovani e quindi non pensiate che questo sia un discorso da vecchi! Vi ricordate la domenica cosa facevamo?Andavamo presso quel posto ancora in costruzione dove prima la nostra città confinava colla campagna e dove ora invece è tutto un insieme di cemento e mattoni, c’è il centro commerciale, c’è la rivendita delle macchine.Vi ricordate quindi? mi ricordo che prima del fischi d’inizio delle partite, quando c’era il sole, andavamo tutti lì e pensavamo ai giocatori che avevamo acquistato al fantacalcio e tifavamo per loro,tutti insieme all’aria aperta, con dietro il pacchetto di sigarette,direi immancabile, anche se poi mancava sempre l’accendino.Ricordate alla fine delle partite?Avevamo sempre voglia di tirar due tiri al pallone e si organizzava una partita,seppur scandalosa!A me manca questo, come a tutti voi…quei ragazzi di adesso non hanno mai potuto far una cosa del genere,sempre davanti al computer oppure a casa a veder la partita.Tutto questo calcio televisivo ha ridotto, non solo lo stimolo all’aggregazione, ma anche l’immaginazione viene a mancare; era bello poter vedere nella propria mente quel giocatore che faceva un gol,te lo potevi immaginare in mille modi diversi partendo dalle descrizioni che il radiocronista faceva.Questo mi piacerebbe rifare e mi piacerebbe non perdere la possibilità di annusare l’odore dell’aria aperta non infestata dall’inquinamento, gustare cogli occhi i colori della natura, poter dar linfa vitale all’immaginazione che secondo me è la base della vita…Ecco, questo volevo dire e mi piacerebbe anche poter visitare i molti luoghi di questo mondo, le loro genti e le loro usanze, ma il mio cruccio sta nel fatto che questa è una possibilità che hanno solo pochi eletti, quei pochi figli di papà.”.
Lorenzo rispose: ”Parli d’immaginazione?usala allora! Prendi per esempio alcuni pittori: loro non sono stati fisicamente in tutti i posti che hanno raffigurato ma con l’immaginazione hanno creato dei luoghi che poi rappresentano la speranza per un mondo migliore,oppure una tomba dell’umanità.Loro con i colori i tratteggi, pennellate dolci o dure,possono essere oggi nel Tibet e domani in Spagna.Magari noi non possiamo arrivare al loro livello, non siamo geni, non siamo talentuosi,ma possiamo usare i nostri pensieri, la nostra immaginazione per vivere in luoghi diversi oppure vite diverse, perché no?”.
“Forse hai ragione, forse più che girare il mondo con il corpo si potrebbe girarlo con la mente attraverso foto, video, internet; ma come si fa ad avere l’entusiasmo in una città che ti tarpa le ali?Una città dove i ragazzi per divertirsi si mettono in un angoletto con in mano una birra e un po’ di fumo?La nostra città uccide chi ha un po’ di arte e chi ha l’immaginazione; noi forse siamo morti perché non abbiamo la fantasia; quanti libri leggiamo? Abbiamo mai fatto qualcosa di creativo? Io mi ricordo di non aver mai fatto nulla di tutto questo!Sapete qual è la cosa che mi dà più fastidio?”, concluse Luca “i calzini che se ne calano, quelli colla molla lenta e che ad ogni passo che fai, dal polpaccio scendono fino alla caviglie.Questo è quello che non sopporto!”.Ci fu una risata generale, il discorso stava diventando troppo serio.


Ci imbarcammo su una navetta che ci avrebbe portato su una isoletta all’interno del lago; si navigava su un piatto enorme composto da particelle d’acqua dal sapore dolce e leggermente ondulato per colpa della prua della nave che tagliava quella calma zen; un posto ameno aspettava il nostro calpestare dei piedi appesantito dagli zaini formato settimana in montagna che riuscivano a piegare la schiena come un giunco dal vento.Quell’isoletta era così affascinante poiché dava la sensazione di eterna bellezza naturistica la mattina, ma di notte, tra i viottoli posti per indicare la stradine, in discesa e in salita da compiere, si poteva ammirare la porzione meno entusiasmante, almeno per me, della natura: quella parte oscura abitata dal popolo della notte, come i gufi e i pipistrelli e da suoni che non fanno paura in quanto suoni ma in quanto non riconoscibili all’orecchio umano; si tratta di quei suoni che, magari non siamo abituati a sentire spesso o quasi mai, forse perché coperti dai motori della macchine o dai rumori proveniente dalla televisione; l’ignoto fa paura!
Ci trovammo a salire fino ad una torretta sulla quale l’affaticamento, muscolare e mentale, causatoci dal sole era mitigato dalla brezza che rendeva tutto più leggero.
Forse c’eravamo calati troppo nel ruolo di quelli che facevano un viaggio per capire chissà cosa, che non fu difficile fermarsi a veder la bellezza della natura e, di come il tutto gravita intorno ad un equilibrio perfetto.Avete presente quei numeri da circo dove il provetto circense, per stupire tutto il pubblico attonito, si pone con la punta del piede su un filo sospeso in aria?Questo è quello che intendo io per equilibrio: basterebbe un minimo sussulto per rovinare quel piacevole senso di stupore e trasformarlo in un’orrenda sensazione di sgomento.
Quel favoloso paesaggio, dove lo specchio d’acqua dolce rifletteva la luce della palla infuocata appesa nel cielo blu cobalto, e rimbalzava contro i nostri occhi indifesi, avrebbe potuto ispirare romanzi, poesie, drammi di una vita se solo, tra noi cinque poveri esuli, ci fosse stato un degno scrittore che, avrebbe potuto mettere in parola, quello che noi sentivamo su quella torretta.Parole usate come mezzi per esprimere quello che c’è dentro di noi, è una chiemera per gente che usa l’italiano come fosse un pallone da calcio: a pedate!Incapace di dire quello che il nostro cuore vuole comunicare, quello che la nostra mente percepisce dall’esterno e traduce in stimoli nervosi: bisogna invidiare gli scrittori, i reali scrittori, quelli che possono compiere questa traduzione da percezione a parola; grandissimi sono quelli che saltano la percezione perché se la costruiscono dentro di loro e fanno finta, quindi, di percepire informazioni esterne e pongono la parola; si prenda ad esempio Dante, il quale aveva una gran maestria nel comporre i suoi poemi, tanto che la gente crederebbe, in maniera assolutamente veritiera, in un suo viaggio nell’inferno.
Quell’atmosfera, o forse la birra, ci fece perdere un po’ la cognizione del tempo, tanto che fu faticoso riscendere giù, con gli zaini e riprendere il battello.Giunti al porticciolo di partenza Mario ebbe un’idea: “Perché nono rimaniamo la notte sull’isolotto?”.Il gelo fu presto fatto nelle nostre reazioni ed io non potevo permettere ulteriori ritardi nel viaggio: c’ era una persona che mi stava aspettando a Sulmona; non potevo perdere quell’appuntamento.
Luca senza saperlo, fece il mio gioco: “Non possiamo rimanere, siamo ancora lontanucci da Sulmona e dobbiamo ancora trovare una sistemazione per stanotte, dato che domani inizia la manifestazione!”.
Mario era già la seconda volta che provava a scappare: si può chiamare un giovane del genere spirito libero?Cerca forse, di carpire il momento, non aspettar quello che potrà essere in futuro, ma quello che è adesso; se quello che ora è, gli è piacevole, vuole viverlo fino all’estasi; questo è modo elegante per dire che di lui non si può far affidamento per i viaggi.
Fortunatamente, la navetta ripartì senza di lui a bordo e quindi non rimaneva che andar a vedere la famigerata Sulmona;non era così distante dal lago, ci trovavamo a pochi chilometri.





13
L’entrata nella città fu difficoltosa poiché la manifestazione era pronta per partire con il corteo.Vi erano divieti a tutti i pizzi e le automobili erano parcheggiate nei posti più impensabili.
Parcheggiata la macchina, dovemmo subito ambientarci nella città e soprattutto trovar un posto da dove veder questa manifestazione; la città sembrava una bomboniera: piccola ma si poteva dedurre che in passato fu una città importante per quella zona d’Italia.
I suoi palazzi medioevali, la statua di Ovidio, che rinvangava tempi ancor più antichi,le imponenti mura e le porte di accesso che cingevano la città, facevano di questa località un posto accogliente dove sarebbe stato piacevole trascorrere alcuni giorni.Pensai che Sulmona doveva essere stata molto ricca in passato.Ci mettemmo seduti sulle scalette di un palazzo con un campanile.
Seduti, potevamo notare un flusso vitale di persone che come fossero un’unica cosa fluiva per il lungo Corso. Il vociare assordante era una cosa che nella mia città non si era mai sentito e per questo mi dava leggermente fastidio:era come se avessi una zanzara che mi ronzasse intorno.
I colori che transitavano davanti al mio occhialuto sguardo, attiravano la mia attenzione e mi ponevano delle riflessioni; tanto difficile è elevare dal grigiore una città?è impresa improba concedere ai propri cittadini almeno una vista più rilassante e distesa con colori e movimenti, del proprio luogo natio?
E’ impossibile!Almeno quando in una città, chi gestisce la cosa pubblica, non è né un saggio, né un eroe, ma solo un medio cittadino che pone le sue priorità davanti a quelle degli altri.
Io ero pronto con la mia macchinetta fotografica per immortalare i momenti più significativi della manifestazione;volevo però che il mio viso non fosse nascosto dalla macchinetta, in maniera determinante, poiché il mio pensiero andava sempre alla ragazza che dovevo incontrar, a Valentina.
Il rumore dei tamburi cominciava a sentirsi dalla profondità della villa comunale e quel flusso di persone che transitava davant,i cominciava a diradarsi fino a scomparire aiutato, in questo, anche dalle forze dell’ordine.
In lontananza era chiaro anche il suono delle chiarine che intonavano un inno medioevale; girandosi verso la musica potevamo scorgere i primi figuranti e dietro di loro i gonfaloni e i loro diversi e variopinti colori.Davanti cominciarono a passar i rappresentanti della città e le varie delegazioni provenienti dall’Italia e dall’estero.
Quest’ultime portavano con loro tradizioni che da me erano considerate leggenda come i nibelunghi, il dio Odino, i vichinghi, i cavalieri della tavola rotonda, l’Orlando furioso. Erano tutte cose che tra loro non avevano nulla in comune e a cui le singole delegazioni non si richiamavano ma che, in me, riaffiorarono come se ne avessi sentito parlar il giorno prima.
Erano di vario genere i vestiti portati dalle varie figurine,anche profani, come lo eravamo noi, potevano intuirlo: alcune delegazioni mostravano la loro ricchezza con le pietre preziose al collo e con vestiti le cui stoffe dovevano essere, a occhio nudo, molto costose; avevano anche una certa nobiltà nel passo fieri di far vedere le origini ricche della propria città natale e, un certo autocompiacimento nel sentir l’applauso del pubblico rivolto a loro; altre delegazioni avevano origini più umili e ciò si rifletteva nei vestiti poveri e nella mancanza di orpelli; vi erano i tedeschi che avevano un fisico possente e lunghi capelli biondi e una folta barba.Erano proprio dei vichinghi in carne e ossa; vi erano poi svedesi, cechi, spagnoli.
Era un corteo lunghissimo,e mentre i miei amici accompagnavano con applausi il passar ordinato dei vari figuranti, io cercavo con la macchinetta fotografica di trovar bei personaggida immortalare; all’improvviso il cuor cominciò a batter forte: cercando di metter a fuoco un figurante l’obiettivo catturò il viso di una fanciulla che era tra il pubblico alle spalle della persona oggetto dell’inquadratura iniziale; quel viso lo conoscevo benisso ed evocava in me ricordi contrastanti, belli e brutti nello stesso momento.
Pronunciai il nome di Lorenzo e gli passai la macchinetta indicandogli il posto dove puntarla e dissi: “Cosa vedi?”.
Lorenzo puntò con attenzione e poi mi guardò e pronunciò queste parole: “Silvio, non vedo assolutamente nulla!”.
Mi ripresi la macchinetta e puntai di nuovo io: “Non c’è più!”.
“Chi non c’è più?Perché ti stai agitando così?”.
“Lì c’era Erica o una ragazza che assomigliava a lei”.
“Scusa ma può essere Erica?Io non credo!Lei sarà a chilometri di distanza ora chissà a che fare…”.
“Bè forse hai ragione tu.Quel viso però è scolpito nel mio cuore, non l’ho dimenticato; i suoi lineamenti , le sue gote; quegli occhi così espressivi che avrebbero fatto invidia a qualunque attore del cinema muto; quelle labbra così carnose da sentir la voglia di poterle assaggiare, l’esigenza di poter appoggiar la tue labbra sulle sue”.
Luca mi diede una spallata amichevole: “Silvio senti, senti la sua mancanza, ti piace ancora; questo non lo puoi ignorare; non ne puoi far una questione di principio. Ormai un po’ di tempo è passato e comunque non puoi giudicare una persona senza sapere il perché ha compiuto un gesto del genere; ora però guarda dietro di te, chi vedi?”.
Mi girai e c’era Mario; capii a quale conclusione Luca voleva arrivare: “Lui l’hai perdonato no?”.
Il mio amico aveva ragione.
“Ragazzi dobbiamo trovar un posto per mangiar e per dormire”,Andrea, dicendo questo, stancamente si alzò e fece una proposta: “adesso andiamo a veder la gara,ma intanto che arriviamo presso la piazza guardiamoci attorno per vedere cosa c’è; ho anche una certa fame…quindi il motto è: diamoci una mossa!”.
Il corteo era finito e per arrivare nel luogo della contesa ci facemmo trasportare dalle corrente umana;nel cammino individuammo il locale dove poter andar a mangiar e ci affrettammo a prenotare un tavolo per cinque.
Arrivati nella piazza il colpo d’occhio fu incredibile; vedere una così grande piazza adibita a luogo di contesa sembrava esser tornati veramente all’età del medioevo;un signore seduto vicino ebbe la gentilezza di dirci le regole del gioco e il ruolo degli anelli, di varia grandezza,posti in vari punti del percorso di gare.Ci spiegò che quella sarebbe stata la prima giornata e la finale ci sarebbe stata l’indomani.
I cavalli fremevano all’interno del recinto e i cavalieri si aggiravano in solitudine per trovar la concentrazione prima della gara.
La gara cominciò, ma il mio entusiasmo era temperato dal fatto che ero ancora scosso dall’apparizione di quel viso; ero sicuro di averlo visto; montai il teleobiettivo sulla macchinetta e guardai in giro; nulla! Non c’era!
La gara finì col parziale successo della delegazione di Pistoia gemellata con la delegazione tedesca.


14
Finita la gara ritornammo presso la pizzeria nella quale avevamo prenotato il posto; era venuto il momento di dire ai miei amici la verità, della vera ragione per la quale avevo insistito per recarci a Sulmona.
Una volta che presi la parola, dissi tutto: come avevo conosciuto la pantera alias Valentina, il suo nome, come era caratterialmente, ovviamente non come era fisicamente.
Preso dalla concitata narrazione dei mesi che avevano preceduto questo viaggio, non mi accorsi che Lorenzo non aveva il suo viso rivolto su di me, come è normale che sia, quando una persona sta narrando una storia, ma era rivolto altrove.Poi mi guardò e disse: “Avevi ragione tu!”.
Era Erica!Lei si girò e ,con modesta sorpresa si accorse di noi.Si avvicinò al nostro tavolo e ci salutò in maniera calorosa; aveva cambiato un po’ il suo look: meno trasgressiva e più elegante; anche nell’incidere della camminata pareva diversa, era più donna, più matura. Aveva cambiato la pettinatura allungando i capelli e scurendoli, non portava più scarpe da tennis e magliette con i gruppi musicali disegnati sopra, ma scarpe da vera donna e magliette strette e molto scollate.
Alcune cose erano rimaste uguali: il sorriso che faceva scoprire quei denti bianchi e regolari, quegli occhi che facevano trasparire il fuoco della vita, il profumo della sua pelle che riconobbi nel momento in cui, con lieve imbarazzo, si chinò per salutarmi.
“Erica, sei l’ultima persona che credevamo di incontrare qui!”, disse Andrea tra un boccone di pizza e l’altro.
“Anche per me è la stessa cosa, certo il mondo è proprio strano!Non ci siamo visti più e adesso le nostre vite si incrociano di nuovo senza averlo richiesto; sentite, ma dove alloggiate?”.
Io fino quel momento non proferii una parola, ma la domanda era rivolta a me.
“Ora come ora stiamo ancora guardandoci in giro, non abbiamo una meta fissa ma sta sicura che troveremo una sistemazione”.
Erica disse: “Ragazzi io ho una possibilità per voi; io alloggio in una casa in pieno centro di proprietà di una mia amica; è adibita a contenere molte persone dato che la sua famiglia è molto ampia, è una casa in cui vengono solo per i giorni di festa; per lei non ci sono problemi”, guardava sempre dalla mia parte, perché sapeva che era una situazione che avrebbe potuto pesare soprattutto ad un tipo, non molto forte caratterialmente, come me.
La mia risposta fu vaga dato che il posto per dormire non l’avevamo trovato,ma non le volevo dare la soddisfazione di considerarsi la salvatrice di quei poveri ragazzi: “Sai abbiamo una cosa in mano…nel caso ci vediamo più tardi…tanto Sulmona non è grandissima…”.Lorenzo mi smentì subito: “Erica dicci dove sta questo posto che paghiamo il conto e ne prendiamo subito possesso.Ahi!”.Gli tirai un calcetto da sotto il tavolo.
Luca propose: “Dato che grazie a Erica abbiamo la casetta e quindi un tetto sotto il quale dormire, proporrei un brindisi”.
Nel tragitto per recarci presso questa casa, Erica non si avvicinò mai a me o io a lei; parlavamo insieme agli altri ma non direttamente tra noi.
Una volta sistemati e lavati un po’,forse il nostro odore non doveva essere molto gradevole, ci facemmo guidare da Erica in un borgo o sestriere; se non sbaglio doveva trattarsi del Sestriere di Porta Bonomini; era molto carino nella sua struttura: aveva un cortile non molto grande nel quale erano sistemati i tavoli; un ragazzo metteva i dischi mentre al centro i più preparati si dimenavano in balli di gruppo.Sopra l’animatore vi era incavata in un muro una madonnina che vegliava su tutti quelli che stavano festeggiando.
Tutti i miei amici si diffusero tra la gente:Mario e Lorenzo si ritrovarono nella pista da ballo per cercar di imparare la coreografia dell’ultima canzone più suonata in radio. Erica portò Andrea e Luca presso il banchetto per le vivande; io, invece, rimasi a scrutare la situazione.
Misi le mie braccia poggiate sulla staccionata posta intorno al cortile e facevo finta di guardare le belle presenze all’interno della pista da ballo che dimenavano il loro di dietro bello sodo, ma non era così: cercavo con le mie palle oculari sbiadite la cui correzione rimane affidata ad un bel paio di occhiali, di vedere Erica, cercare di trovarla tra la folla dopo che me l’avevo persa di vista per un microsecondo, perché un omone grande e grosso mi venne a sbattere, mentre lei si dirigeva con Mario e Luca presso il banco degli alcolici.
Mentre il mio sguardo scrutava tra i borgatari danzanti, dietro di me una voce: “Tieni!”.Erica mi aveva portato una Smirnoff bella fresca e pronta da ingurgitare.
Io ringraziai e lei si posò vicino a me: era il momento giusto per confrontarci dopo il periodo passato lontano.
Si vedeva che era lì per parlare: i suoi occhi dicevano quello che le parole non volevano ammettere; lei mi amava ancora e quei suoi sguardi e quel suo gesticolare le mani in maniera nervosa era una cosa che io avevo imparato a conoscere benissimo; forse voleva riaprire con me, il discorso sentimentale chiuso in maniera troppo repentina ed erronea.
“Senti come va?”, esordì lei.
Io volevo pesare bene le mie parole prima di parlare e quindi sorseggiai prima un po’ della mia bevanda; non posso dire che mi era indifferente quella ragazza:l’ amavo ancora purtroppo, ma non volevo apparire come quello debole pronto a dirsi subito.Con i suoi gesti mi aveva fatto del male e le ferite erano ancora sanguinanti, non ancora rimarginate.
“Bè cosa posso dire?Non posso negare che giorni migliori ci sono stati, non posso dire che quello che mi hai fatto è stato dimenticato, non posso dire che ti ho rimosso dalla mie mente”.
“Non lo potrei pretendere…Senti ti posso portare in un posto, qui è difficile parlare in maniera tranquilla”.
Mentre passeggiavamo per andare presso il luogo scelto da Erica per parlare le chiesi: “ Senti come mai questo cambio d’immagine?”.
“Sono brutta?”, disse lei facendosi vedere da me con una girandosi su se stessa.
“No, assolutamente”, dissi imbarazzato, “sei diversa, sei…come posso dire? Più donna, prima magari ti facevi notare soprattutto per il tuo abbigliamento eccentrico e il tuo modo di fare che certo non passava inosservato”.
“Ed ora?”.
“Ora sei diventata consapevole della tua bellezza e non ti vergogni di questo; prima nascondevi le tue forme, ora come si può ampiamente notare e come gli occhi di tutti i ragazzi confermano, sei splendente e splendida, chi non potrebbe vivere della tua luce riflessa?”.
Una voce all’interno della mia testa mi stava dicendo che stavo parlando come un pesce lesso, come uno che non vede l’ora di poterla tenere stretta a sé e non farla parlare.Ci sarebbero stati da parte mia solo baci e ancora baci.Troppo smielato?Non capivo neanche io come mi stesse succedendo in quell’istante.Dopo mesi di analisi personali per capire il mio stato d’animo, per individuare la cusa di tanta infelicità e rimuoverla stavo sempre lì: al punto di partenza e soprattutto con la stessa donna di prima!
Arrivammo in posto che rispecchiava il momento: avete presente quei film romantici nei quali ci sono luoghi aperti con il cielo stellato, gli animaletti che sembrano stiano aspettando il primo bacio tra i due fidanzati, il venticello caldo che accarezza il viso della ragazza?
La scena del film era quella e noi in quel momento eravamo gli attori principali; io non so cosa mi disse lei, ma mi ritrovai con le mie labbra appoggiate sulle sue, le due bocche si aprirono e le due lingue si rincontrano dopo lungo tempo; ci allungammo sul prato e rimanemmo abbracciati a baciarci.
In questo scambio di saliva, in questo scambio d’amore Erica mi apostrofò con un appellativo che avevo sentito o meglio letto poiché si trattava di quel soprannome datomi da una certa persona: ragazza della chat che dovevo incontrare.
Da quel sogno cinematografico ci fu un brusco risveglio: mi discostai improvvisamente da lei e la guardai dritta negli occhi; la sua espressione aveva fugato i miei dubbi: era lei quella che dovevo incontrare.
“Mi devi una spiegazione”.
“Silvio, perché ho fatto questo? Perché ti amo è semplice, avevo capito il mio errore e non sapevo come rimediare”.
“Hai fatto tutto da sola?”.
“Bhè in effetti no, i tuoi amici hanno preparato tutto”.
“Scusa in che senso?”.
“Nel senso che grazie al loro interessamento ci siamo trovati qui. Sapendo dei tuoi interessi storici ti hanno portato qui e mi hanno contattata.Anzi è stato Mario a chiamarmi; lui non ha nessuna colpa per quello che è successo vari mesi fa.Ero io che avevo una personalità autodistruttiva, nel senso che dopo varie esperienze non credevo fosse vero aver un ragazzo come te, che mi rispettasse, che mi facesse sentir importante e non mortificante per gli altri.In quel periodo non riuscivo a trovare quell’equilibrio che ho ora; pensavo sempre, ogni giorno che passavo con te sarebbe stato l’ultimo perché il giorno dopo non mi avresti voluto più”.
Tra un pianto e l’altro lei continuò: “Io pensavo che,comunque si trattasse di un qualcosa che riguardava solo me.Il fatto è che io analizzo ogni azione, ogni momento della giornata,ogni cosa che mi succede pensando sempre alle conseguenze e al futuro e, quando stavamo insieme, non mi rendevo conto che il presente poteva scivolarmi via velocemente.Quel presente eri tu, ed io ero convinta che non si poteva stare insieme perché mi avresti abbandonata e, allora, per non soffrire,cho reciso in rapporti con te”.
Questa confessione mi fece capire che del carattere umano non capivo né capisco qualcosa tutt’ora;mi sono sempre vantato di poter comprendere gli animi della gente, come sono, quali sono i loro pensieri più nascosti, cercarli di portarli fuori; dopo quella sparata di Erica capii che della persona che più mi interessava in quel momento avevo visto giusto la superficie, mentre dovevo afferrare che dietro quella maschera di gioia senza freni, dietro quella originalità nel vestire, nell’intendere la vita c’era qualcosa che la tormentava.Io non sono uno psicologo, né uno che studia il comportamento umano, ma sono convinto che bisogna sforzarsi nel cercare di capirsi in un rapporto;senza pregiudizi, accettando quelli che sono i difetti dell’altra metà.
Dopo che io porsi un fazzoletto per asciugare le sue gocce di infelicità che scendeva giù per le sue gote, continuò la sua confessione: “Stare insieme sarebbe stato in quel momento una cosa non positiva, sia per me perché mi deprimevo nel pensare a quello che sarebbe potuto succedere tra noi, sia per te che stava con una ragazza che fingeva non di volerti bene, ma di essere convinta di essere la tua compagna, ma che un giorno ti avrebbe fatto del male.Cercai un modo per allontanarmi da te, non sarei riuscita a dirti in faccia queste cose allora; dovevo trovar un modo per allontanarti in maniera traumatica e in maniera tale da non farti venire dei rimorsi di coscienza; senza far ricadere su di te nessuna colpa”.
“Mario si è offerto?”,chiesi io.
“Mario poveretto non c’entra nulla, nel senso che il bacio glielo ho dato senza il suo permesso: parlavo con lui mentre ti avevo visto arrivare da lontano.Fu un attimo, capii che così potevo ottenere il risultato sperato: farmi odiare da te!Mi dispiace solo aver messo in difficoltà Mario, ma gli chiesi di stare zitto, glielo chiesi per me, ma soprattutto per te”.
Io l’avevo compresa e chiesi: “Ora cosa è cambiato da allora?”
“Bè un certo cambiamento l’hai notato pure tu,almeno nel modo di vestire.Ora mi sento più sicura di me e dopo tanto ho capito che non potevo perdere l’occasione di riprovare con te, io ti voglio bene e voglio ricominciare con te, con i miei difetti e i miei pregi”.
“Per te è sempre così facile?Prima mi butti nel baratro della disperazione più assoluta e ora sei qui davanti a me che dici che è stato uno sbaglio che non eri pronta…Mi hai messo pure in disaccordo con Mario, non si fa così, questo non è giusto nei miei confronti.Non sono un burattino con il quale giocare, non sono uno che si può manipolare in questo modo né tanto meno sono un ragazzo insensibile è impreparato che non avrebbe capito i tuoi dubbi e i tuoi problemi: i tuoi momenti di depressione li avremmo superati insieme”
“Tu adesso mi chiedi di ricominciare, ma come posso io?Chi mi dice che ora non stai fingendo, oppure che tra pochi mesi non ricomincerai a pensare a quello che sarà il futuro, cosa succederà quando finirò l’università; io non sono il tipo che si mette a rinfacciare tutte le volte in cui tu hai rovinato i nostri momenti intimi perché stavi passando un attimo di tristezza.Io non voglio essere come quelle persone che attaccano per difendersi; sapevo di dover accettare quella che sei, come tu dovevi accettare me; dovevi fidarti e non farti fregare da quei dubbi infami che ti mangiano la mente.Non ti dirò null’altro che ti possa ferire ma rifletterò sull’accaduto e me ne farò una ragione.Con te non parlerò mai di ciò che penso io,di ciò che ho passato in questi mesi senza la tua presenza.Il tuo atteggiamento forse voleva dire che non sono il tipo giusto per te!”.
Lei si mise a piangere comprendendo che il suo progetto era andato in frantumi: aveva davanti a sé un ragazzo che era stato ferito nell’intimo; Non potevo non essere contrariato, lei non aveva fiducia né nella mia capacità di comprenderla,né nel mio amore nei suoi confronti.La cosa che a ripensarci, mi ferisce tutt’ora, è che lei non mi aveva aperto completamente la porta del suo cuore, dovendo arrivare ad usare dei mezzi infimi per superare l’ostacolo.Fuggire e non affrontare uno psuedo-ostacolo che gli opponeva davanti.
“Piangi pure Erica ma penso che non verserai più lacrime di me”.Presi il coraggio di andar via e lasciarla lì.


15
Non rimaneva che prendermela anche con i miei amici, che durante il viaggio mi avevano fatto credere che ero stato io a organizzare tutto; al contrario ero stato vittima di un oscuro progetto, mi sentivo come la pedina del gioco della dama: si intreccia una ragnatela di mosse per arrivare al risultato e alla vittoria finale; certo tutti o quasi i giocatori di quella partita persero: Erica perché non riuscì a convincermi, i miei amici che avevano organizzato il tutto; avevo perso anche io, perché non avevo capito Erica all’inizio e non avevo compreso la situazione del viaggio.
Tutte quelle cose dette da me sulla ragazza che mi stava aspettando, su quello che significava per me, erano quindi buchi nell’acqua, e pensavo che i miei interlocutori, cioè i compagni del viaggio, silenziosamente si erano burlati della mia persona e di quello che dicevo.
Quella notte decisi di non andar a dormire nella casa dove vi era anche Erica, volevo star da solo; mi incamminavo per Sulmona senza aver una meta precisa,aspettavo solo che sorgesse il sole per far calare un velo pietoso su quel giorno cominciato bene e finito nei peggior dei modi.
Passeggiando per il paese a piedi, ramingo, cercavo di immaginarmi come poteva essere ai tempi dei cavalieri: le strade illuminate dai pochi fanalini messi vicino alle locande, i pipistrelli che svolazzano , schivando all’ultimo momento l’ostacolo che gli si pone davanti; poche persone per lo più ubriache cercavano di rincasare, perdendosi tra i violetti di Sulmona.Io ero in cerca, non so di cosa, ma avevo una brutta sensazione, un amaro nella bocca, quel gusto acre che rimane quando finisce il momento della rabbia e arriva il momento della riflessione; non solo il dispiacere per aver dovuto agire in quella maniera, ma anche l’amarezza per non aver trovato a Sulmona, la ragazza dei miei sogni, la ragazza che avrebbe capito ogni mio gesto e ogni mia azione.La ragazza a cui appoggiarti nel momento del bisogno e con la quale dividere tutti i bei momenti.
Non vedevo l’ora di tornar a casa mia e rintanarmi nella mia camera, l’unico posto sicuro che ho sempre conosciuto e che non mi mai tradito, coi i suoi pupazzi a farmi compagni; quegli stessi bambolotti che mi tengono compagnia fin da piccolo, che non criticano quello che fai, che non cercano di truffarti, che non danneggiato la fiducia nei tuoi mezzi e negli altri.
Non vedevo di poter riprender la mia chitarra, attaccarla al mio computer e poter perder tempo nel far canzoni stonate e mal suonate.
Non vedevo l’ora di staccar completamente l’allaccio ad internet che mi aveva solo complicato la vita e quella dei miei genitori con l’aumento del prezzo della bolletta.
Non vedevo l’ora di svegliarmi da quel terribile incubo.
Passeggiando per strade a me sconosciute, mi imbattei in una zana alberata e piena di verde; in quella si festeggiava, dato che si sentivano urla di gioia, musica e risate.C’erano tende poste all’interno del parco, fuochi accesi e uomini vestiti come nel medioevo.Pensavo che la mia immaginazione era andata troppo oltre; era arrivata alla fase della schizofrenia, dato che vedevo i cavalieri e i cavalli davanti a me!Mi avvicinai e non parlavano l’italiano e pensai: “Ecco la lingua che si parlava allora, forse ho viaggiato nel tempo senza accorgermi di nulla!”.
Con i gesti mi invitarono a stare con loro, a mangiare con loro; l’invito non era malvagio dato che stavano cucinando la cacciagione sul grande fuoco al centro dei festeggiamenti.
Mi diedero dei vestiti, del tempo, colorati e non eccessivamente profumati, ma d’altronde io ero profumato?Non potevo rifiutare il loro grazioso invito e mi misi acconto a loro.Vi era un giovane che rallegrava tutti, forse si trattava del giullare da campo; si mise al centro della scena e cominciò a ballare con un pazzo cercando di coinvolgere la sua gente; la scena più divertente fu quando prese una grassa donna con due seni giganti per ballare, ma la donna era troppo grossa per muoversi come l’uomo, tanto che cascarono; il giullare di campo finì sotto e cominciò a inveire contro la donna, tra le risate generali.Io non capivo quello che diceva, ma i suoi gesti erano già molto espliciti
Mi offrirono da bere e io bevvi, mi offrirono da mangiare e io mangiai.
Mi svegliai la mattina seguente, grazie all’intervento di una donna che mi scosse.
“Dove sono?Ho un gran mal di testa”.
“Evidentemente ha bevuto un po’ ieri, ma scusa tu non sei tedesco?”.
La ragazza parlava italiano, forse avevo rifatto un viaggio del tempo al presente: “Non sono tedesco, ma tu come mai parli italiano?”.
“Forse ancora non ti svegli o ieri ha bevuto troppo.Comunque per tua informazione, e per rispondere alla tua precedente domanda, sei nell’accampamento che noi abbiamo organizzato per la delegazione tedesca che è venuta per partecipare alla giostra”.
“Allora non ero nel medioevo!”.
“Cosa dici?”.
“Non ti preoccupare, è che ancora non mi sveglio…Gli altri dove sono?”.
Gli altri si stanno preparando per la seconda giornata della giostra.I tedeschi sono in vantaggio se vincono oggi, vincono il palio.
“Bene, tifo per loro perché sono simpatici e perché è gente accogliente, ora però mi rimetto a dormire”. Mi girai dall’altra parte.
“Mi dispiace, ma non puoi”.Disse la donna dai lunghi capelli biondi, con titubanza.
“Non posso?Perché?”.La guardai in malo modo, come per dire: “Ci mancavi solo tu ora!”.
“E’ successo un fatto increscioso: un tedesco ubriaco ieri notte doveva andar in bagno, era in giro per la città; dato che non trovava un bagno pubblico si è calato i pantaloni e l’ha fatta in mezzo ad una via.In quel momento è arrivata una pattuglia della polizia municipale che, ovviamente, lo ha arrestato per atti osceni e vagabondaggio.Ora a questa delegazione manca un uomo per completare il corteo.Dato che con te ieri sono stati gentili, allora direi che è arrivato il momento di contraccambiare, che ne dici?”.
Se mi fossi rifiutato l’altra opzione sarebbe stata quella di veder i miei amici e soprattutto di rivedere Erika, cosa che, al momento, non era psicologicamente consigliabile, quindi accettai.
Il vestito era molto povero: senza orpelli o gioielli; avevo solo una lancia ed ero molto colorato, tutto il contrario di come si potrebbe pensare che fosse un tedesco; quest’ultimi sono sempre considerati gente grigia, senza fantasia; un po’ come i giocatori: i sudamericani sono estrosi, i tedeschi concreti e professionali.
“Senti ma ora che mi sono vestito che devo fare?Io ho dato un’ occhiata ieri ma non so come mi devo muovere”, dissi alla ragazza che mi aveva svegliato.Scoprii che il suo nome era Beatrice, era una studentessa università a Pescara ed era una volontaria; studiava il tedesco e quindi curava i rapporti tra la Giostra Cavalleresca e le delegazioni germaniche.
“Tranquillo tu dovrai stare dietro di me e quindi fai quello che faccio io.Se ci sono problemi ci penso io”.
Il corteo partì dalla zona di accampamento e proseguì fino alla cattedrale da sola, lì ci incontrammo con i rappresentanti dei borghi di Sulmona e con le altre delegazioni: c’erano svedesi, cechi ( quelli della Repubblica, non i non vedenti!), spagnoli e francesi; vi erano anche molti rappresentati delle città italiane come Pistoia, Arezzo,Bucchianico.
Passare per il corso di Sulmona tra i suoni dei tamburi, le chiarine era emozionante; più emozionante era il fatto di passare in mezzo a due schiere di turisti e abitanti che non smettevano di battere le mani.
Vecchie signore lanciavano petali di rose rosse dal balcone sui cavalieri pronti a darsi battaglia.
I miei amici tedeschi erano i più gettonati tra il pubblico dato che si mostravano come il lato divertente della manifestazione: al contrario di altre delegazioni che ci tenevano all’etichetta e al massimo regalano un sorriso a chi faceva notare la bellezza del vestito o della persona che lo indossava, loro accennavano un inchino e poi togliendosi il cappello gridavano con accento puramente germanico: “Evviva Sulmona!”.
Dato che nessuno mi conosceva, anch’io mi feci prendere dalla voglia di far baldoria e quindi mi venne in mente di far come loro e di inneggiare anch’io alla città e ai suoi abitanti con accento tedesco.Capitò il caso che l’accenno di inchino avvenne proprio davanti ai miei amici ed ad Erika seduti proprio alle scalette della chiesa dell’Annunziata come il giorno prima; la loro espressione fu tra lo sbigottito e lo stupito, ma anche io in quel momento ero diventato piccolo per la vergogna.
Fu un attimo di evasione partecipare a quella manifestazione senza dover prendere in considerazione la mia situazione amorosa; dover analizzare ogni mio e suo gesto, dover rileggere e reinterpretare i suoi pensieri; dover far lavorare il mio cervello fino alla saturazione più completa e portarlo alla rovina; quell’attimo di divertimento, me lo ricordo come fosse ora, in questo momento, vivo e attuale intorno e dentro la mia mente, soprattutto perché sapevo che, prima o poi l’attimo di euforia sarebbe finito, e sarebbe iniziato il momento della cosiddetta “paranoia galoppante”.
Ero consapevole che sarei tornato nella mia casetta a rimuginare al tempo perso con Erika, a quanti sbagli si possono fare nella vita, al fatto che concedere la propria fiducia ad altri non è mai una buona idea; far sapere a tutti i tuoi sogni più nascosti, liberarsi dei tuoi pesi inconsci, non è una cosa da fare a cuor leggero, soprattutto poi quando questi sogni vengono raccontati a persone specializzate che stanno lì per ascoltare te e basta e che espongono domande marzullesche come se fossero capienti di intelligenza,ma invece sono solo cariche di retorica e che, alla fine,nel momento in cui si intavola un discorso, dicono di fermarsi perché l’ora è scaduta e ti mettono sotto il naso la loro profumata parcella; credetemi io ci sono stato!Avere davanti a te una giovane dottoressa, magari alle prime armi che ti chiede perché mai tu fossi lì, come va in famiglia, se ho gli amici e sul perché io, secondo il suo modesto parere, mi dovrei sentire perseguitato, non è una cosa gratificante per la propria persona.
Mi gustai ogni ora, minuto, secondo di quella giornata; la delegazione tedesca aveva vinto la gara,e tutti i componenti del gruppo si tuffarono nel campo di gara per festeggiare il cavallo e il cavaliere, per applaudire il pubblico caloroso, per posare nelle tradizionali foto dopo la vittoria;erano pronti bidoni di birra tedesca presso il loro campo, litri su litri da consumare nel più breve tempo possibile.Beatrice fu la più festeggiata, perché era la straniera del gruppo e perché sembrava ci sapesse fare con la gente; anche io ero in mezzo alla pista a festeggiare la nostra vittoria; della giornata mi gustai anche la sera quando, sotto effetto alcolico, riuscii a trovar una mezza specie di approccio con Beatrice e lei fu così felice di venir con me sotto la tenda dove avevo dormito la notte prima a giocare; era la prima volta che mi trovavo a toccare, baciare e ammirare il corpo di una donna che non fosse quello di Erika: il corpo di Beatrice era totalmente differente; il profumo inebriante investiva i miei sensi, la sua caviglia fina, dava alla gamba un senso di snellezza e leggerezza; i suoi seni e suoi addominali davano la sensazione di una persona che ci teneva all’aspetto fisico, il corpo sembrava scolpito;solo il pensiero di poter di nuovo riscaldarmi con il calore di una donna mi portava a raggiungere altitudini di magnificenza mai provati: forse fu la conseguenza della mia astinenza; capii nello stesso tempo in cui raggiunsi l’apice del mio piacere sessuale, che oltre a lei c’era un mondo fuori che mi aspettava, soprattutto c’erano un numero esagerato di donne che potevo conoscere nel loro intimo;alla fine la mia città piena di nebbia e dove nulla si costruisce se non per interessi privati, non era così grande e, pensai, che nel mondo di persone come Erika ce ne sarebbero state tante.

16
Il giorno dopo non ricordo bene cosa successe, ma mi ritrovai già in macchina.
Andrea, in seguito, mi ha raccontato che lui e gli altri compari mi ripresero dalla tenda e mi trascinarono con fatica nell’automobile come si porta un sacco di patate. Ero solo, non c’era nessuna donna che dormiva con me; forse, la notte d’amore con Beatrice, non c’è mai stata, forse si era trattato solo di uno stupendo sogno, ma era stato così reale, che, a volte, mi chiedo, se non sia meglio vivere in un mondo di sogni piuttosto che in questa luogo fatto, più che altro, di sofferenze e delusioni; poi però, riflettendo meglio, penso che oltre ai sogni, facciamo anche degli incubi, che non sono, nient’ altro che i fantasmi nascosti nel nostro armadio: alle nostre responsabilità e alle nostre paure non possiamo sottrarci purtroppo! Io avevo collassato, mentre i tedeschi era già tutti in piedi, compresi i bimbi, per smantellare l’accampamento e ripartire.
Era rimasta intatta solo la mia tenda con me dentro; i miei amici mi presero e mi buttarono nella macchina, mentre io ero inconsapevole di quello che stava accadendo intorno a me.
Alla prima fermata sull’autostrada fermarono la macchina e mi buttarono un po’ d’acqua sul capo per fare riavviare il mio motore celebrale.Feci in tempo a rigettare dalla mia bocca, quello che il mio stomaco non aveva digerito la sera prima.
Il viaggio di ritorno sembrò meno lungo rispetto a quello d’andata.Certo che però erano cambiate varie cose: eravamo partiti felici e puliti, eravamo ora sporchi e puzzolenti, ma soprattutto non si respirava più l’armonia iniziale; questo cambiamento si notava anche musicalmente parlando, dal fatto che lo stereo della macchina non passava più una musica veloce e divertente come lo è il punk rock, ma una cosa più, per dirla all’inglese maniera, più easy.
Ci eravamo abbassati a sentir la radio,forse perché dopo alcuni giorni di destabilizzazione, mamma radio, assicura la gente: ti manda canzoni senza pretese, fa un po’ di gossip, c’è il solito comico che ironizza sul fatto del giorno, c’è il solito direttore di un misconosciuto giornale e o di una televisione che vede solo mia nonna, e che sottolinea in chiave giornalistica il fatto del giorno, c’è il motivetto mandato dal d.j. che vuol far riflettere sul fatto del giorno.
Ci fermammo in un posto per finire il rullino fotografico e svuotare la vescica e ripartimmo.
In quel momento di calma, nel quale Lorenzo guidava,Luca gli sedeva a fianco con la sua sigaretta, Mario sulla destra, Andrea sulla sinistra, dietro con me, colsi il momento in cui l’euforia del giorno prima e i buoni propositi erano finiti.Mi fece ritornare alla realtà la telefonata della mamma, la cara e dolce mamma sempre pronta ad alleviare i dolori del mio spirito.
“Come è andata?Non ti ho telefonato perché non volevo disturbarti, non volevo che i tuoi amici si rompessero perché c’è la mamma di uno che stressa l’anima!”, mia madre non ha mia nascosto le sue intenzioni su quello che vuol dire veramente.
“Dai, mà! Non dire così, tanto qua ti conoscono tutti, li hai visti crescere no?E’ andato tutto a meraviglia…Cosa?A che ora torno?Penso all’ora di cena!Che fanno i miei amici?Bè non so!Va bene chiederò e se va bene ti faccio uno squillo sul telefono ok?Baci mà”.
“Ragazzi volete mangiar a casa mia?così finiamo in bellezza questa vacanza ok?”.
Posso dire con certezza di aver notato sul viso dei miei compagni un certo sollievo in quella proposta; i pranzi e le cene della mia mamma sono sempre stati una cosa di cui mi sono vantato; sono sempre stato in procinto di farmi insegnare, dai miei genitori, la sacra arte della cucina, ma, come sempre, i miei discorsi e le mie voglie si sono dissolti in un attimo, nel vuoto perdere dell’ozio più totale.
Alla fine non potevo avercela con i miei amici per quello che era successo; penso che loro abbiano visto un loro amico in difficoltà e hanno cercato di riavvicinarlo alla donna che è stata sempre nei suoi pensieri.
Loro hanno cercato di porre rimedio, e io non ho capito in quel momento, accecato da, non so quale tipo ti rabbia o emozione.Tra di noi non siamo mai stati tanto aperti, abbiamo fatto sempre gli uomini duri, chissà poi perché; dire ciò che si pensa, aver un bel pensiero da dire, non può essere etichettato come un concetto detto da una femminuccia.Io credo che si è uomini solo nel caso in cui si riesca ad esprimere ciò che l’animo nostro vuol dire, usare le parole come mezzo per far comprendere cosa ci attanaglia in quel momento.
Io dissi allora: “Ragazzi…Scusatemi, non avevo capito, sono il solito fesso che non riflette prima di parlare”.
Loro non vollero sentir dir altro e cominciarono a prendermi in giro; riprendemmo, nella nostra amicizia, da dove ci eravamo lasciati.
Ormai eravamo tornati nella nostra vecchia città; eravamo troppo stressati per aver voglia di andar a vedere altri luoghi o incontrare altre persone; il fatto che il nostro stomaco reclamava un po’ di cibo, ebbe una parte fondamentale, nell’accelerare il cammino verso il nostro luogo natale.
A Sulmona, infatti il cibo fu l’ultimo pensiero, poiché numerose furono le distrazioni; i ragazzi, infatti, quando io mi ritrovai da solo nell’accampamento tedesco, erano intenti nel corteggiare le donne presenti nella casa messa a disposizione da Erika.
Nella casa, erano presenti ragazze straniere, e la proprietaria la mise a disposizione come fosse un ostello.Ora faccio una domanda e mi do anche una risposta: cosa hanno intenzione di fare delle donne straniere, in Italia, in una casa dove ci sono dei baldi giovani italiani, in giorno di festa e con la consapevolezza che qualunque cosa sarebbe successa, si sarebbe conclusa quella sera e non avrebbe avuto seguito, con buona pace di fidanzate e fidanzati?Io credo che una serata, posta in questo modo, accompagnata anche da un buon vino lascia sperare che buona parte degli abitanti della casa, si possano accoppiare.
Non fui così indelicato da entrare nei particolari, ma i miei compagni si dissero ben felici di aver passato una gustosa notte con delle splendide ragazze.Alla fine furono loro, e non io, ad ottenere un po’ di amore, seppur era da considerarsi amore temporaneo.
Una volta arrivati a casa mia ci mettemmo d’accordo nel vedersi da me all’ora di cena: una doccia rinfrescante avrebbe aiutato tutti.
Io tornai a casa e ritrovai tutto come lo avevo lasciato: il cane che dormiva tra le gambe rassicuranti di mio padre, mia madre in cucina a preparare qualcosa di sostanzioso per il suo figliolo adorato.
Io mi rapai i capelli, a dir la verità, quelli che erano sopravvissuti alla mia impellente calvizie e la barba; feci scorrere sul mio stanco corpo, un getto violento di acqua fredda e poi mi passai la spugna intrisa di un balsamo tonificante e profumatissimo.
La mamma aveva preparato, un ottimo antipasto con prosciutto, salame e carciofini; un grande primo cioè delle tagliatelle prodotte dalle forti braccia del mio papà accompagnato da salsicce e patate al forno; non poteva mancare il dolce: era una torta a prima vista fatta di crema con la panna, ma vi era la sorpresa, cioè quando la torta venne tagliata, e la prima fetta tolta si poteva notare quello strato di cioccolata che avrebbe addolcito in maniera decisa, il palato.
Io, come del resto i miei amichetti, mangiammo tutto senza lasciare le briciole nei piatti.
Con quella cena si poteva dirsi conclusa quella esperienza; magari non si può considerare tale viaggio come una qualcosa che ci ha cambiato la vita; uno viaggiando non cambia animo e carattere, ma vede posti che vanno al di là del proprio naso, può assaporare sapori che la tua terra non produce, sentire odori che la brezza che scivola per i vicoli della tua strada non trasporta.
Tutto ciò non ti cambia, ma può aiutarti a farlo perché capisci che il mondo non gira intorno a te, perché quello che tu hai conosciuto, visto e imparato del mondo è solo una minima parte di quello che lo stesso pianeta Terra ha da mostrare; se potessi avere la bacchetta magica mi piacerebbe desiderare poter sapere cosa pensa un arabo che si sacrifica per la causa, sentir il rumore delle cascate in America, poter respirare l’aria sul Tibet,poter correre sulle pianure con le gambe di un ghepardo, poter veder cogli occhi di una lince: vorrei la comprensione del mondo.
Purtroppo questo non è possibile, a meno che non siamo degli dei, ma allo stato delle cose non posso confrontarmi con dio.
Allo stato delle cose, posso però considerarmi contento di quello che ho: degli amici che pensano in senso assoluto e dei genitori che sono sempre pronti a darmi il loro appoggio, e, forse, ancora una ragazza che mi vuole bene.

Id: 10 Data: 05/12/2007

*

Quella volta di Kurt su RAITRE - I

Ogni anno ci troviamo a scegliere un posto per le vacanze.In effetti, non è che ci serva un luogo per riposarci dopo un lungo e stancante anno di lavoro dato che i miei amici ed io rientriamo nella folta schiera dei disoccupati: ci si può considerare come dei veri e propri parassiti della società, essere viventi che vivono in riserve chiamate università; quest’ultime sono strutturate e ideate in un bel Paese come è l’Italia, come un area di parcheggio; c’è da dire, comunque, che non tutti i miei amici sono da considerare dei parassiti che vivono alle spalle e alle dipendenze della famiglia con l’alibi dello studio: altri semplicemente bivaccano a casa passando il tempo davanti ad internet,alla televisione oppure ascoltando nuovi compact.
Lo scopo della nostra vacanza è “staccare”dalla nostra città che non offre mai granché: è deserta e la sua popolazione è formata prevalentemente da persone sopra la quarantina.La cosa più desolante della nostra città è il fatto che, nel momento in cui i turisti vanno via,un silenzio da cimitero copre le vie e le strade; sembra che nessuno abbia nulla da dire; si ha l’impressione che oltre ad essere spopolata, chi vi abita si accontenta del quotidiano senza chiedere di più ai propri concittadini.
Alle volte sembra di trovarsi in uno di quei film alla Sergio Leone nei quali la strada deserta aspettava il duello mortale tra i due pistoleri protagonisti; dove la monotonia dell’immobilità della scena veniva magistralmente rotta dal muoversi di rami e detriti posti sulla terra.I negozianti possono essere paragonati agli spettatori di quei duelli: tutti fuori dai negozi a fumarsi una sigaretta; nella mia cittadina ciò succede soprattutto a causa della mancanza di clientela; bisogna essere pronti a vedere, repentinamente, il centro storico pieno di negozi nuovi; come in un ciclo vizioso, poi, i negozi nuovi, dopo poco, lasciano spazio altre botteghe e, alle volte, ad altri proprietari.C’è la miseria in giro, nessuno compra e nessuno domanda; è capibile tutto ciò: riuscire a vivere con un solo lavoro quando si è una famiglia è inimmaginabile come le utopie di Marx;ci tartassano con bollette di vario tipo sempre più salate; ci fanno pagare anche la tassa sull’aria che respiriamo;ci chiedono di fare sacrifici per salvare lo Stato che va in bancarotta, come se noi, oltre alla nostra famiglia, avessimo la forza di aiutare anche lo Stato mangia soldi.
In questa situazione, non si può continuare a credere che tutto sia possibile, che i nostri cassetti immaginari possano aprirsi per coltivare i nostri sogni.
Chi ci crede più?Noi dobbiamo credere alla realtà dei fatti, ai mutui per comprare la casa, dobbiamo cominciare a capirci di più dei tassi d’interesse, con la variazione della moneta;dobbiamo restringere la cinghia tutto l’anno così almeno, i più fortunati avranno la possibilità di staccare la spina per una settimana da questa vita, che sarebbe da paragonare all’inferno, se non ci fosse almeno la possibilità di coltivare amicizie, l’amore.Questo dono forse, ci ripaga, per altri sacrifici che si fanno.Qual è il ruolo di un ragazzo in questi grevi tempi?Impegnarsi nello studio o nel cercar un lavoro e far il proprio dovere di figlio, capendo quali sono le esigenze dei nostri genitori.Anche noi abbiamo bisogno di vacanze poiché diventa alienante rimanere in un posto dove ci si sente inutili;dove il divertimento, sacrosanto per tutte l’età, praticamente, non si conosce; evadere da un posto simile significa ricercar nuovi stimoli e scrollarsi da dosso quel lassismo quel coinvolge tutta la popolazione.
Ci servono solo quattro-cinque giorni per riprenderci dal mortorio.
Un pregio del nostro gruppo è la originalità : questa peculiarità si riversa anche nella scelta del luogo che ci dovrà ospitare:non un villaggio turistico,non la montagna ma un luogo da visitare che comprenda un evento.
Questo diario vuole descrivere quello che successe in uno di questi viaggi.
Alle volte vale la pena di raccontare quello che ci succede intorno, ma non per la voglia e stoltezza di insegnare qualcosa a qualcuno, cioè di far trarre un principio di vita da seguire; c’è solo la voglia di raccontare le gesta di cinque ragazzi tra miliardi che si muovono in un fine settimana.Cercare, attraverso una concatenazione di lettere e parole, di far passar un po’ di tempo a chi legge in santa pace.
Grazie ai nostri “naviganti”virtuali riuscimmo ad individuare una ridente cittadina in quel d’Abruzzo: Sulmona.Il lettore si chiederà qual è la particolarità di questa città.La sua particolarità stava nel fatto che nel periodo agostano si celebrava una manifestazione medioevale che, seppur giovane, appariva accattivante: la giostra cavalleresca d’Europa.
L’opuscolo, trovato quasi per caso, in un ufficio del turismo, spiegava che le genti europee s’incontravano in Sulmona per partecipare ad una gara, da disputarsi nella piazza principale della città, il cui scopo stava nell’ infilzare con una lancia degli anelli.
L’opuscolo assicurava anche che in quei giorni era possibile passare le serate presso i numerosi borghi e sestrieri, i quali si gemellavano con le delegazioni straniere.
.L’idea ci stuzzicava e decidemmo di partire in cinque per quest’avventura.
Un avventura che doveva rispecchiare quei film americani ispirati all’esperienza beat.
Forse, era più l’idea che la sostanza, poiché non potevamo certo confrontarci con una generazione che ha combattuto per i suoi diritti e li ha ottenuti strappandoli con i denti; noi abbiamo tutto: genitori che ci mantengono fino ad un’età avanzata, che pensano anche a trovarci un lavoro nei migliori dei casi; possiamo permetterci di andar in vacanza all’estero senza problemi, di seguir i corsi più disparati dall’inglese allo spagnolo, al corso per far le orecchiette in casa, e in tutto questo ci lamentiamo di non so che cosa.Abbiamo la parabola, il computer, uno o più cellulari, la macchina personale con la benzina pagata da papà.Abbiamo la fortuna di poter andar all’Università per prendere uno straccio di laurea e se la facoltà non è di nostro gradimento poter cambiar facoltà o anche città se non ci va bene, se magari è troppo caotica o rumorosa oppure una pelle.

2
E’ buona regola, nel momento in cui si scrive un diario personale di un viaggio, specificare chi sono i compagni viaggiatori, gli attori pricipali della storia.Si potrebbe considerare una sorta di compagnia dell’anello di tolkeniana memoria.Senza far riferimento a persone vere, posso affermare che i miei quattro amici si chiamavano e si chiamano tutt’ora: Mario, Luca, Lorenzo e Andrea.Ognuno di loro ha delle qualità specifiche che contraddistinguono il loro modo di essere.
Succede sempre che in ogni gruppo d’amici ci siano caratteri tipici: in altre parole esiste il bravo ragazzo, quello scapestrato, l’alternativo e la mia tribù non si esime da tutto ciò.
Mario, infatti, non è solo il bello di turno ma anche quello maggiormente spregiudicato: essendo un impulsivo non ragiona molto sulle conseguenze delle sue azioni, ha uno spirito molto dionisiaco ed istintivo.Tra Mario e me c’è un’amicizia che dura da moltissimi anni, si può sostenere che siamo stati compagni di culla, cosa che però non ha influito molto sulla formazione diversa delle nostre personalità; io tendo a soffocare i miei istinti, a riflettere su ciò che devo fare; io sono quello più convenzionale, lui quello più trasgressivo, anche se, posso ammettere, in alcune situazioni mi sarebbe piaciuto ragionare con la sua testa.Questo non vuol dire che lui non abbia pensieri seri nella sua mente;le questioni serie, semplicemente le tratta in maniera diversa.
.E’ il suo modo di comportarsi e il suo modo di porsi nelle relazioni interpersonali che stuzzica la mia fantasia.Chi di voi non ha mai desiderato essere un’altra persona?
Luca è il moderato del gruppo; risponde a quel tipo di carattere che, in qualunque cerchia d’amici, si sente il bisogno d’avere: cerca, nella sua maniera, di eliminare le controversie che possono nascere tra noi, ma il nostro amico ha anche un difetto, o meglio, chi lo conosce poco e superficialmente lo considera come un uomo passivo,incapace di prendere l’iniziativa. Succede spesso che quando bisogna prendere una decisione lui si tiri indietro, facendo decidere gli altri.Questa sua mancanza, quasi assoluta, di determinazione può dare fastidio, ma la mia idea è che Luca si comporti in questa maniera appunto per non creare alcun conflitto nel gruppo o in ogni caso limitandolo attraverso la sua non decisione.
Non c’è molto da dire su Lorenzo, se non il fatto che la sua lentezza nei movimenti lo fa apparire l’uomo più pigro della terra.Non rispetta mai gli appuntamenti, arrivando, in sostanza sempre, in ritardo e, nei casi estremi, non li ricorda neppure; a chi glielo fa notare, lui risponde con questa frase: ”Ah già, è vero”.
La sua mancanza di precisione negli appuntamenti si può spiegare solo con il fatto che le sue priorità sono altre, come, per esempio, lo studio; da questo punto di vista, Lorenzo sembrerebbe un’altra persona: irreprensibile, ligio al dovere, instancabile nell’analizzare qualunque testo universitario d’Economia e Commercio. La sua personalità è come se si sdoppiasse, come nello straconosciuto romanzo scritto da Stevenson.Un ragazzo d’oro che cerca il grande amore e non lo riesce a trovare.Non per questo si danna per questo, come per esempio, fa il sottoscritto. Aspetta, senza l’ansia che contraddistingue la mia persona, la donna giusta che possa stravolgere la sua vita che nella sua città è abbastanza piatta, come quella degli altri abitanti.
L’amore può essere una medicina ottima per rivitalizzare una vita grigia che si divide tra casa, il lavoro o lo studio.
Altro caratterino niente male è Andrea la cui evoluzione è tutta da raccontare.Lo conobbi all’età di quattordici anni attraverso un comune amico; lui, capelli biondi e carnagione molto chiara, si presentava davanti a me ben vestito e con uno sgargiante cappellino di una squadra di baseball il cui nome mi riesce difficile ricordare.Una caratteristica, che era difficile non scorgere, nella personalità d’Andrea, era, soprattutto, l’inclinazione a passare da alcuni momenti di felicità, i quali in ogni caso erano pochi, a momenti in cui si chiudeva molto in se stesso: ragazzo quindi lunatico e dal carattere molto umorale.
In quest’ultimi dieci anni, il mio amico è cambiato però non so se in meglio o in peggio. La sua trasformazione può essere collocata in un momento preciso, vale a dire nell’anno di grazia 1996 corrispondente alla vacanza del terzo liceo, subito dopo gli esami di maturità.Questo viaggio era da considerare un premio, da parte dei genitori, per le grandi fatiche derivanti da cinque stancanti e quasi indigeribili anni scolastici, almeno per come la vedevano loro.Io non la vedo in questa maniera: già sapevo al momento della maturità che con il diploma si chiudeva un periodo fatto di svaghi e con pochi problemi.Stessa cosa vale per la laurea: tutti sono felici, ma mi chiedo se è meglio studiar per fare un esame ogni tanto oppure dannarsi e,a meno che non sei un genio, trovare la persona giusta che sia un vero deus ex machina e possa offrirti un lavoro.Il posto dove vivo non offre molto e, quindi o si va via, o si cerca una raccomandazione presso il signorotto di turno, signorotto a cui devi essere devoto.
La mia considerazione su questo è molto semplice:non sono contrario a andare via dalla mia regione, ma perché devo lasciar la mia famiglia, i miei parenti e miei affetti?Togliere la possibilità ai genitori di godersi i nipoti e comunicargli le loro esperienze.Vedere come il proprio figlio cresca la sua famiglia.Questo è un discorso lunghissimo che non ha nulla a che fare con il tema di questo racconto misto di fantasia e episodi veri mischiati tra loro, sgorgato da una mente deviata e deviante in momento che nulla offriva di meglio, né l’amore, né lo studio, né gli affetti più stretti.
Ritornando alla maturità, le mete del viaggio erano chiare fin dall’inizio: Parigi, Amsterdam, Londra e il mezzo di locomozione era, naturalmente, il comodo ed economico treno.
Del giorno della partenza ricordo esattamente due cose in maniera distinta: la prima è, la mia invidia per quelli che stavano partendo; la gioia si leggeva nei loro occhi molto chiaramente anche sotto il peso dei numerosi bagagli e zaini. Io credo che l’invidia sia uno dei mali peggiori per l’uomo; in quel momento, mentre io dicevo, con un sorriso falsissimo, stampato sul mio viso, le solite frasi fatte che si usano dire al momento del commiato con delle persone care, una voce dentro di me diceva: ”Speriamo che non si divertano per niente!”.
Ero cosciente che si trattava di un’idea brutta, ma purtroppo non si può essere perfetti; mia madre mi ripeteva sempre un detto in casi del genere: ”La bilancia pende sempre da una parte”.
La seconda cosa che ricordo di quel momento è la faccia d’Andrea: sembrava che partisse per forza, senza un minimo d’entusiasmo, come se non gli importasse nulla di quello che stava succedendo. Anche se ero sempre preparato ai suoi atteggiamenti, in quell’istante mi chiedevo cose stesse pensando ed in fondo io, fino all’ultimo, sognavo di poter occupare il suo posto perché lui non lo apprezzava ed io me lo meritavo.
Nella Provvidenza però bisogna sempre credere!
Mi trovavo un pomeriggio a casa ad elucubrare su ciò che i miei amici stessero facendo in quel preciso momento in giro per l’Europa, quando giunge una telefonata: era Antonio, uno dei personaggi più discussi della mia città, un soggetto molto in vista per il suo attivismo politico; Antonio è molto invadente tanto da non poter lasciare indifferenti chi lo conosce; o si ama o si odia.
In quel momento io l’ho amato profondamente, per la sua proposta: raggiungere presso un albergo di Londra, Andrea e i suoi amici.La proposta, non solo ha allettato me, ma anche mio padre che voleva in qualche modo premiarmi per l’ottenimento del diploma.
E’ stato come ho sempre sognato: partire di notte per una città europea, che ha significato molto, non solo per la storia del continente, ma sembra anche per lo stesso Andrea, perché al nostro arrivo si presentò alla fermata della metropolitana londinese con una luce nuova.Nessuno è riuscito a spiegarsi il motivo di questo cambiamento, direi quasi kafkiano, ma siamo più contenti così.Era sorridente, faceva delle battutine che noi non ci saremmo mai aspettati da lui: se lo guardavo bene, potevo scorgere in lui una luce diversa.
Ora Andrea bivacca all’università, pensando poco allo studio e molto al divertimento……..

3
Il giorno 13 ci si riunisce per la partenza: naturalmente le decisioni che si dovevano prendere (dove dormire, dove mangiare) non si prendevano, poiché passò la proposta, da me non condivisa, di fare un viaggio”on the road” (un’aspirazione del nuovo Andrea!).
L’unica cosa che si decise fu l’orario della partenza.
Lorenzo sembrava quello più deciso: ”Silvio (questo è il mio nome), ho tutto sotto controllo!La macchina è pronta, domani si parte presto, si farà una tappa intermedia e nel primo pomeriggio ci troveremo a Sulmona per le sfide iniziali…praticamente non ci sono problemi!”
“Va bene, io non mi preoccupo: l’idea di fare il viaggio è stata mia.Ora tocca a voi l’organizzazione”.
Nonostante che, nelle mie parole, poteva trasparire sicurezza e fiducia nei miei compagni di viaggio, sapevo già a che cosa andavo incontro; non riuscii a dormire molto la sera prima della partenza in quanto oscuri presagi, sotto forma di incubi, mi perseguitarono tutta la notte; nella mia mente un’ immagine rimase impressa: nella piazza principale di Sulmona, vi era gente che stava deridendo quattro sfigati senza casa ,praticamente barboni.Quelle quattro persone avevano i nostri volti.
Il sogno divenne realtà nel momento in cui, tra le prime luci del mattino del 14 agosto, vidi sotto casa mia la FIAT Punto di Lorenzo che mi aspettava pazientemente.Andrea, Mario,Luca e lo stesso Lorenzo erano scesi dalla macchina per fumare la prima sigaretta, la prima di una lunga serie.Il sole non era ancora sorto,e, senza la luce dei lampioni, la notte sembrava più nera che mai; si distinguevano solo le sigarette accese dei ragazzi.La nebbia che era calata a causa della forte umidità,sembrava la rivelatrice di uno oscuro presagio.
Dopo le prime battute di benvenuto, entrammo tutti in macchina; una volta dentro capimmo che i nostri primi calcoli erano sbagliati: forse i bagagli (se si possono chiamare così sacchi a pelo e cinque zaini!) erano troppi ed in macchina non stavamo tanto comodi nonostante la Punto abbia, proprio nelle comodità, uno dei suoi punti di forza.
Andrea era l’addetto alla musica, in altre parole il curatore di quella che doveva essere la colonna sonora di quel viaggio.”Questa cassetta l’ho completata ieri alle due di notte, è da novanta minuti spero che vi piaccia!”; con senso d’orgoglio la passò a Luca che, con la solita prepotenza si era messo davanti a fare da timoniere.
Con una colonna sonora molto movimentata, era quasi tutto punk-rock o hardcore se vogliamo, il nostro viaggio cominciò molto flemmaticamente; avrei voluto chiedere, ai miei amici, cosa si aspettassero dai prossimi giorni, ma non dissi niente, per non sentirmi rispondere che era una domanda troppo intellettuale e che stavamo partendo senza avere punti di riferimento, appunto per vivere nell’imprevisto.
Per questi motivi rimasi nel silenzio, soprattutto perché mi vergognavo di affermare che io un qualcosa d’imprecisato cercavo.

4
Quando si è piccoli si ha la fortuna di non riconoscere la realtà per quella che è: tutto ciò che gira intorno a noi sembra bello.E’ scontato sostenere, che più si diventa grandi, più le poche convinzioni e i punti di riferimento che avevamo, o non esistono più o in ogni caso appaiono fragilissimi. Nel momento in cui capiamo che i nostri genitori invecchiano e muoiono, che anche noi non siamo immortali e che dovremo fare i conti con cose come la sofferenza e l’ingiustizia, diventa triste andare avanti. Il lettore non si metta in testa strane idee: non è un’istigazione al suicidio di massa, ma è la realtà dei fatti.La domanda fondamentale ora è questa: come facciamo a rimanere immortali?La risposta, io penso, è nota, vale a dire compiendo un’azione tale da rimanere impressa nella storia dell’umanità o anche di una comunità, un po’ come succede per i personaggi storici.
La mia gioventù idealmente la passai insieme al leader dei Nirvana, al secolo Kurt Cobain, il quale con tre accordi e testi limitati, innalzava al cielo un nostro grido di dolore.Fu una scossa quando mi fecero sentire “Nevermind”, giacché io ero abituato ad un genere più rilassato com’era quello di Zucchero, Ramazzotti o Carboni.Passai da testi dove l’amore era paragonato ad un fiore o una farfalla, dove si parlava dell’amore eterno, a testi dove si cantava la violenza e la morte; il problema o, anche il vantaggio, dipende dai punti di vita, stava nel fatto che non capivo l’inglese e quindi non era influenzato negativamente da quella musica; quando cantavo a casa davanti allo stereo, le parole che uscivano dalla mia bocca erano solo urla che accompagnava la musica.
Non erano le parole quelle che mi attraevano ovviamente, ma era soprattutto quella chitarra distorta, quella batteria colpita con violenza, quel giro di basso sporco che rimbombava dentro le mie ossa.Quella sequenza di beat rappresentava una seconda voce, dopo quella vera e propria del cantante,che vomitava significati che ognuno di noi poteva interpretare e recepire diversamente in dipendenza della situazione in cui uno si trovava.
Kurt riuscì a monopolizzare cinque anni, non solo della mia vita ma di tutta una generazione;
L’introduzione di “smell like teen spirits”cambiò radicalmente la mia vita: da quel momento in ogni sua apparizione televisiva c’ero anch’io.
Ricordo, in particolare, una scena emozionante: era l’aprile del 1994; io e mio padre davanti al tubo catodico a veder la partita di pallone la domenica sera.Una mia compagna di classe mi aveva anticipato che su Rai Tre i Nirvana avrebbero suonato.Quella sera su quel canale davano un programma di satira nel quale si esibivano anche cantanti stranieri.Mio padre ed io guardavamo la partita, ma ogni tanto lo pregavo di mettere quel programma.
Lo chiesi alle 21; lo chiesi alle 21,30; lo chiesi ancora alle 22,00, ma dei Nirvana nessuna traccia ed il mio dito si era stufato di aspettar di premere il tasto del videoregistratore.Quando, oramai, avevo perso le speranze e tutto sembrava perduto, pregai per l’ennesima volta il mio buon padre di cambiar canale;in quel momento la presentatrice li introdusse con una breve apparizione.Il cantante aveva i capelli rosso fuoco; era un colore acceso che strideva con i suoi occhi.Cantò, supportato dal gruppo, la prima canzone del loro ultimo album.Furono essenziali: cantarono, suonarono e se ne andarono.Quella fu la loro prima e ultima apparizione televisiva in Italia e se sbaglio l’ultima anche nel mondo giacchè Kurt tentò prima il suicidio con un misto di droghe e alcool (la più classica fine per una icona del rock moderno) e poi in seguito si sparò nella sua casa a Seattle.
Quell’apparizione fu una gioia immensa per me; la gioia diviene ancor più grande quando uno non se lo aspetta, o, a maggior ragione ,quando l’aspettativa di un evento è scemata.
Penso che quel personaggio abbia influenzato numerose vite come fecero,per rimanere sempre nel campo musicale, i Beatles, Elvis e via di seguito.L’incisività di un uomo sulla comunità si nota nel momento in cui quello non c’è più ed, infatti,questo successe a Kurt; quando si tolse la vita fu un lutto gravissimo per tutti, ma in questo modo divenne eterno; fu come aver perso un gioiello cui si tiene in maniera particolare; ciò che bisogna rilevare è che il suo ricordo, come quello di tutti i miti, è rimasto nel corso degli anni.
Questo è quello che vorrei per me: il mio ricordo devrà essere indelebile, non devrà scomparire; le gesta che compirò dovranno rimanere nella bocca di tutti e durante quel viaggio in macchina, sentivo che qualcosa doveva succedere.Avrei voluto emulare Kurt: diventare un cantante, un musicista, ma madre natura non mi ha dato il talento necessario per sfondare nel campo dello spettacolo.
Sono un ragazzo normale, senza doni particolari, ma il mio istinto mi assicurava che qualcosa doveva accadere e, nonostante io non fossi stato del tutto d’accordo, fin dall’inizio, col compimento di un viaggio alla Keruac, sapevo che il mio destino si sarebbe compiuto lì a Sulmona.
Il mio istinto non fu l’unico elemento che mi portò ad accettare questo viaggio poiché essere fatalista non è la mia massima aspirazione, anzi sono sempre stato descritto come un materialista, un tipo pratico insomma; avevo uno scopo ben preciso, per andare in quella città che prima d’allora, io non avevo mai sentito nominare, se non per i confetti, elementi integranti di ogni matrimonio; uno scopo celato ai miei amici i quali, dispettosi come erano, avrebbero potuto anche boicottarmi: il problema era che avevo un incontro con una ragazza.
Questa ragazza aveva una particolarità: l‘avevo conosciuta in chat.
Dopo tante fatiche universitarie, avevo chiesto al mio papà di acquistare un computer: mi ero rotto di chiedere sempre agli altri la copia di un cd o qualche documento da scaricare da internet, quindi strappai la promessa del pc ai miei genitori, impegno condizionato dal fatto che dovevo superare l’esame di procedura penale.Io mantenni il patto e loro fecero la stessa cosa: dopo pochi giorni il tecnico era a casa a montare il pc.
In quel momento mi ricordai di quando ero piccolo e mia nonna mi portava nel negozio di giocattoli più vicino, ad acquistare l’ultima novità in fatto di divertimenti.
La bramosia d’avere tutto ciò che mi si mostrava di fronte agli occhi era tanta, mi sentivo come un cane che vede il suo amato padrone con in mano la scodella piena di carne.
Ricordo che mi mettevo vicino alla nonna e, con un ritmo martellante, dicevo: ”Nonna questo, questo, questo”.Ricordo che sapevo i trucchi d’ogni giochino, tanto da aiutare la signora dei giocattoli a spiegare ai bambini il funzionamento d’ogni gioco.La morale era che l’unica a non essere troppa contenta, ogni volta che si usciva da quel negozio, era proprio mia nonna che aveva un conto aperto colla signora dei giocattoli.
L’immagine del cane si presentò di nuovo nella mia mente nel momento in cui vidi il tecnico del computer collegare la tastiera, poi il mouse, il cavo per internet ed infine la stampante.
Il primo approccio con la tecnologia non fu facile: ero come un bambino che stava imparando a camminare, il mio metodo era andare a casaccio; una volta prese le redini della situazione, cominciai a scaricare canzoni, a visitare i siti più disparati, fino a quando non m’imbattei in quella che, in gergo tecnico è chiamata “chat”.
La chat può essere considerata come una piazza virtuale nella quale ognuno può inventarsi come una nuova persona: i brutti possono apparire belli, i ragazzi possono sentirsi donne e viceversa.
Dopo i primi tentativi d’approccio, m’imbattei in una ragazza: pantera verde.
Questa ragazza aveva una scrittura molto vivace, spiritosa e sembrava capirmi come nessuna aveva mai fatto, ma vi era una difficoltà notevole: abitava a circa duecento o trecento chilometri da me e,precisamente, viveva in un paese in provincia di Napoli.

5
“Ciao”, cominciò pantera, ”da dove digiti?”.
Era la prima volta che una ragazza mi chiamava in privato nella chat, le altre esperienze non furono molto gratificanti: alcune ragazze erano, in effetti, dei maschi, altre se la tiravano anche via computer.
A quella domanda io risposi cortesemente: ”Ciao mi chiamo Silvio e vivo a ********”.
Dopo i primi quesiti, posti solo per capire, a grandi linee, con chi ci trovavamo a parlare(anni, studio o lavoro,fidanzato o no), cominciammo a parlare di tutto, dal sesso(era più esperta lei),alla politica,alla musica(qui me la cavavo meglio io),all’università con la quale avevamo entrambi un rapporto di amore-odio.
“Perché”, disse lei, ” non ti descrivi?”
Davanti a questa richiesta mi sorgeva il dubbio se asserire la verità o fingere di essere un’altra persona; questo dubbio amletico sorgeva a causa del mio non felice rapporto con le donne, imputando la mancanza d’attenzioni femminili ad un fatto puramente estetico.Quando si dice che l’aspetto estetico è un aspetto fondamentale di questa società si sbaglia.I brutti nella storia sono sempre stati degli sfigati, basta pensar a Leopardi; era bello?Da quello che si legge di lui non credo proprio.Secondo voi perché dalle sue poesie traspare solo e sempre pessimismo?La risposta è facile: nessuna donna se lo filava.
A parte gli scherzi la ricerca della bellezza è stata sempre un elemento importante nella pittura, nella scultura e anche nella filosofia ateniese.
E’ da considerare un ipocrita quella persona che
In quella situazione avrei potuto inventare un personaggio nuovo, ma mi fidai della ragazza e quindi elencai i miei connotati fisici: ”Sono alto 1.75, occhi verdi, capelli castani anche se li ho rapati a zero, sono piacevole?”.
La pantera rispose con gradimento: ”Saresti il mio tipo ideale!”.La sua risposta non mi stupì più di tanto e la ragione è sotto l’attenzione di tutti: chiunque può avere gli occhi verdi, capelli castani ed essere alto 1.75 ma poi bisogna vedere come si presenta dal vivo, in altre parole, se è curato, se non ha difetti appariscenti.
“Io”, disse la pantera, ”sono alta 1.65, ho i capelli biondi,occhi verdi e peso 54 kg.Come ti sembro?”.
Io non mi volli sbilanciare: ”Sembri carina!”
I giorni passavano velocemente ed ogni volta che aprivo la posta eletttronica, aspettavo sempre, con speranza, un suo messaggio per fissare il prossimo appuntamento nella chat e, dopo tanto scrivere, un giorno tra noi iniziò un discorso strano che ci avrebbe portato a cambiare le nostre vite e quelle dei miei amici.
La conversazione cominciò con un semplice saluto; la pantera era molto brava con le parole; lei era abile a dosare le parole e anche attraverso il computer riusciva a trasmettere la sua umanità agli altri; i suoi intercalari, i punti sospensivi messi al punto giusto, i suoi silenzi; la si poteva immaginare, cercando di dare una voce femminile e un tono a quelle parole.La sua dolcezza nel chiamarmi sempre in un certo qual modo mi faceva impazzire; bisogna dire anche che dichiarare in giro come mi chiamava potrebbe essere deleterio tutt’ora; la mia immagine di ragazzo insensibile e freddo, almeno così dicono, potrebbe crollare e questo non può succedere, poiché verrebbe meno il mio scudo difensivo nei confronti degli altri; mi sentirei nudo al cospetto di persone pronte a giudicare e criticare senza sentir ragioni e giustificazioni.Quell’appellativo rimarrà tra lei e il mio intimo mondo.
A lei scrivevo di tutto: delle mie sensazioni quando la vedevo in chat, delle mie voglie nascoste;la conversazione filava liscia come l’olio,sembrava di star a parlar con la propria fidanzata, fino a che il discorso si posò su un terreno delicato; lei disse: ”Sono contenta di aver acquistato il computer”.
Io risposi con un bel punto interrogativo poiché non capivo il senso della sua affermazione.
“Attraverso il computer ho conosciuto te, ma ho in ogni caso un cruccio”.
“Quale?”, ero incuriosito.La pantera rispose in questo modo: ”Attraverso la chat non posso vedere i tuoi occhi, non posso capire le espressioni che dai alle frasi; non so se stai ridendo, piangendo, se sei concentrato su quel che ti dico e se rispondi seriamente ai miei quesiti.In più nella chat non c’è possibilità di fare dicorsi più complessi giacché la prima regola è di scrivere frasi corte e stringate”.
Rimasi spiazzato da questo discorso che conteneva in sé una domanda ben precisa; io sapevo benissimo cosa la pantera voleva da me e questo m’innervosiva poiché la chat mi era servita per nascondermi dal mondo, col vantaggio di poter comunicare con la gente senza essere guardati negli occhi.La curiosità, però, gioca brutti scherzi e quindi digitai questa frase: ”Hai ragione tu.Perché non c’incontriamo una buona volta?”.
Mezzo secondo dopo aver premuto il tasto “Invio”, ricevetti subito la sua risposta affermativa.
Avevo fatto la cosa giusta?Non ero tanto sicuro di ciò che stavo combinando.Poteva essere una bufala,poteva essere una maniaca alla Gleen Close in “Attrazione fatale”.Forse ero stato troppo impulsivo nel voler incontrare quella persona che, nonostante tutte le rassicurazioni del caso,non ero sicuro neanche del fatto che fosse una ragazza;forse la spinta a chiederle di incontrarmi è stato il fatto che nella mia città,la vita è piatta,monotona e quindi uno stimolo di questo tipo,forse,mi serviva.

6
Ogni giorno il pensiero era questo: ”Come faccio ad incontrarla?”. Il problema non era semplice da risolvere poiché mi avrebbe dato fastidio portare la pantera nella mia città.Il mio paese è molto provinciale: dentro quelle quattro mura che la cingono, le parole volano, le cattiverie svolazzano nell’aria ed io non avrei sopportato il giudizio degli altri, soprattutto dei miei amici, su quell’incontro, ma soprattutto mi sarebbe dispiaciuto che fosse stata giudicata lei.
Anche adesso io non faccio fatica ad ammettere che i loro giudizi avrebbero pesato su quell’incontro: non ho mai detto di essere un ragazzo forte!
Quell’incontro doveva risultare, per chiunque, tranne che per lei, un incontro casuale.Il destino, in quel caso, fece la sua parte.
Quell’estate, infatti, come solito, si bivaccava con Andrea, Luca e gli altri in un posto situato fuori la mia città,in una frazione.Non si può considerare quel luogo un locale vero e proprio giacchè era fatiscente, pieno d’anziani del luogo e l’unico passatempo consisteva nel giocare con le carte napoletane.I vecchi, infatti, passavano il tempo a litigare e a discutere sulle carte da scoprire con in mano un bicchiere di vino.La stessa cosa facevano i miei amici, me escluso; questo non significa che io non volessi giocare o che erano loro a tenermi fuori, ma ero allergico sia alle carte napoletane sia al vino con gran disappunto sia di mio padre sia dei suoi amici i quali, avendo delle vigne personali, erano sempre pronti ad offrirmi un bicchiere del vino buono.Quella bettola fu molto utile per iniziare una discussione importante: ”Che cosa facciamo quest’estate?”.
Mario subito rispose alla mia domanda: ”Guarda, io posso partire solo per tre, quattro giorni”.Lorenzo seguitò: ”Io potrei prendere la machina…”.
Andrea s’impose: ” Ok, è deciso”.Noi lo guardammo e Luca lo interrogò: ”Scusa, deciso cosa?”.Andrea, con calma, prese una Malboro, la accese, inspirò ed espirò, quindi parlò, mentre noi pendevamo dalle sue labbra: ” E’deciso: faremo un viaggetto; la macchina c’è, noi la volontà l’abbiamo,ma dobbiamo sciogliere solo un quesito.”.
Luca fu il più lesto ad intuirlo: ”Dove andiamo?”.
Nessuno mi guardò in quel momento, ma se qualcuno avesse osservato il mio viso o i miei occhi, avrebbe notato una certa luce; era proprio così: c’era l’occasione, da prendere a volo,per potere,finalmente,incontrare la mia pantera verde.Questa era l’occasione giusta per inserirmi nel discorso: ”Certo che la meta non è facile da trovare, ma tramite internet, oppure più semplicemente, attraverso gli uffici del turismo, qualche idea ci può venire”.Naturalmente sapevo già dove andare a parare.
Quello era il periodo in cui io ero interessavo agli spettacoli medievali ed avevo sentito parlare di una manifestazione che si svolgeva in una cittadina nell’Abruzzo, chiamata Sulmona, nella quale da pochi anni si svolgeva una “Giostra Europea”.
La mia opera di convincimento fu degna dei più grandi politici: la cosa da rilevare è che feci arrivare i miei amici alla conclusione che quella era l’unica meta possibile e praticabile per noi; ovviamente anche il nome della città fu fatto per “caso”.
Lorenzo, Luca ed io eravamo in un internet-cafè situato nel nostro centro storico.Io proposi di scoprire tramite il motore di ricerca, un luogo dove poter andare;eravamo d’accordo nel trovare una città nella quale ci fosse in quel periodo una manifestazioni.Avevo già visitato a parte quei siti per cui, guidando Lorenzo,che aveva il comando delle operazioni, arrivammo lì dove volevo arrivare io: a Sulmona.
L’ultima fase dell’operazione era avvertire la pantera verde.Le chiesi un appuntamento sulla chat ed ella, tramite email, fissò l’incontro per le 22,00.
“Ho una notizia per te”
“Quale?”, disse lei.
“Hai ancora intenzione di incontrarmi?”, in cuor mio speravo in una risposta negativa in quanto non ero convinto ancora del tutto e la mia curiosità, che comunque era molta, veniva compensata dalla possibile delusione scaturente dall’incontro al vertice tra “la pantera”e “germi”.
Lei scrisse: ”Ho voglia di incontrarti e spero presto”.
Io risposi: ”Ho pensato a tutto; io e i miei amici andiamo tra una settimana in una città chiamata Sulmona; c’è una manifestazione simpatica.Potremo unire la curiosità con la cultura”
Dovetti aspettare un attimo, prima di vedere comparire sul mio monitor la risposta: ”Mi organizzerò con le amiche”.Era fatta! Il mio piano era concluso.Tutto per il momento era filato liscio e, solo per questo motivo, sentivo in me come una sensazione d’appagamento.
“Dobbiamo però trovare un modo per riconoscerci, non so neanche il tuo nome”, dissi io.
La pantera rispose: ”Valentina è il mio nome.Ti ho descritto già come sono. Mandami una foto: sarò io a trovare te in quella città.”
Feci come disse lei.

7
Il nostro viaggio non prevedeva nessuna sosta, ma avevamo deciso, di comune accordo, di ammirare ed osservare il panorama entro cui, noi cinque ci stavamo muovendo. Eravamo concordi nell’uscire, ad un certo punto, dall’autostrada e attraversare le città e i paesetti e notare il cambiamento del paesaggio.
Io non ricordo il nome del luogo, ma ricordo la canzone che, dentro la Punto F.I.A.T vi era in sottofondo: ”Don’t call me white” dei NOFX; pure questa faceva parte della colonna sonora fatta da Andrea.
La canzone, questo io lo ricordo, non andava molto d’accordo con la musica che si sentiva fuori.Il suono si estendeva dall’interno di una vallata piena d’alberi.Superando tale vallata si scorgeva, in profondità, un castello.Era un ritmo sempre uguale, direi quasi ipnotico; anche le parole erano sempre le stesse.Si doveva trattare di un “rave”.
Tra noi, Mario era quello più attirato da quella situazione: quando eravamo più giovani andavamo sempre in quello locale da ballo che era situato presso la villetta comunale. La discoteca, che noi frequentavamo, era molto piccola ed era piena solo nei periodi festivi e, forse, è per questo che ha cambiato più volte gestione: una volta divenne un locale per gruppi rock, con tanto di manifestazione natalizia, ora è diventato un normalissimo pub dove il sabato e la domenica c’è il karaoke,perdendo la sua peculiarietà rispetto agli due o tre locali presenti nella mia città.
Quando il luogo era affollato, io e lui ci divertivamo ad inventarci delle coreografie degne del noto Franco Miseria (il coreografo di Pippo nazionale).Ricordo, in particolare, una serata dove la musica dominante era quella degli anni ottanta e, per questo motivo, il locale era pieno d’adulti; Mario ed io ci mettemmo a ballare sulla pedana davanti a quegli adulti molto convenzionali, come, d’altronde, lo sono stati gli anni della loro giovinezza.In poco tempo riuscimmo a riscaldare l’ambiente, organizzando trenini, suggerendo come muovere il corpo su determinate canzoni; penso che in quella serata facemmo anche un’opera di bene in quanto molte dei quei trentenni o quarantenni capirono che,nonostante l’età,potevano ancora divertirsi giacchè lo svago non deve,per forza di cose,concondare con l’essere infantili.
Quello è stato l’unico periodo in cui ho amato la discoteca e in ogni modo il ricordo della musica house o commerciale è legato soprattutto alle numerose feste di diciotto anni che si susseguivano in quel periodo: ogni sabato c’era qualcuno che diventava maggiorenne; alcune volte eravamo tra gli invitati ma, molto spesso, i miei amici ed io pregavamo il buttafuori di turno per farci entrare.Le feste, dove noi figuravamo come “imbucati”, erano le migliori.Penso di conservare ancora una foto nella quale figuro insieme ad una ragazza, che probabilmente era la festeggiata e di cui non ho mai saputo il nome,e ai suoi genitori.Quelle feste erano l’unico svago per noi soprattutto nel periodo in cui nessuno di noi possedeva la patente e, quindi, i nostri spostamenti erano limitati.Il mio animatore preferito era Alfredo Camerini, in arte “Alfio Camacho”, il quale,con la sua esperienza,sapeva far smuovere anche i più timidi a suon di latino-americano o attraverso la musica anni ottanta.Quell’uomo era mito per me: operaio il giorno,animatore la sera, non per scelta ma perché,forse,il suo stipendio da lavoratore non era sufficiente; questa,però,è una mia considerazione personale che si basa sull’atteggiamento che Alfio aveva nel mettere i dischi: mai un sorriso o una smorfia di felicità; aveva sempre la testa bassa tanto che si poteva notare la sua calvizie precoce.
Questi compleanni si svolgevano sempre alla stessa maniera: le ragazze erano tutte in tiro e, di solito, l’unico adolescente vestito elegante era l’eventuale fidanzatino della festeggiata.Tra balli e scherzi vari, durante la festa, potevano nascere nuove coppiette, per di più occasionali; vi era, naturalmente, il gruppo degli alcolizzati e dei drogati e,se la fortuna ci assisteva,potevamo anche assistere ad una rissa.Il lettore può dedurre, da questa piccola descrizione, che ci divertivamo con poco: non esistevano i cellulari e ad ogni modo, non erano un genere d’alto consumo come adesso; pochi avevano il computer e, tra quelli che lo possedevano, chi aveva internet era considerato un privilegiato.
Ricordo ancora che, con i miei amici del quartiere, giocavo con le barchette contruite con mezzi di fortuna, e si faceva a gara per vedere quale “caravella”, la cui chiglia era fatta con il guscio della noce e il cui albero maestro era composto di uno stecchino retto dalla cera, sarebbe arrivato al traguardo.Ricordo anche le partite a pallone nella strada o a nascondino.Quei tempi, nonostante si stia parlando di pochi anni fa, sembrano un lontano passato remoto.
I ragazzi di quattordici o quindici anni, che incontro ora per il mio centro storico, andando in giro con il mio cane,passeggiano tutti con il telefonino e lo sguardo rivolto verso quello strumento infernale in attesa di un messaggino o di uno squilletto.Hanno tutto ciò che si può desiderare e non lo apprezzano e per questo sono infelici.Sono i figli della televisione; glorificano il povero comandante Cheguevara, controllati da una cultura che si professa libera, e ciò nondimeno non lo è, ma poi sono i primi ad essere intolleranti nei confronti dei più deboli; inneggiano alla liberazione delle droghe, ma non avendo neanche il coraggio di dire ai propri genitori che fumano, accendono una semplice sigaretta in un vicolo buio.Sono una generazione senza fantasie o idee.Il problema della nuova società è,forse,che tutte le grandi battaglie sono state fatte,tutte le grandi idee sono state diffuse.La salvezza,secondo me, è vincere i piccoli soprusi che la vita ci pone innanzi, senza pretese.


8
“Vogliamo fermarci?”disse Mario con un sorrisino sulle labbra; si vedeva che l’idea di stare un po’ lì lo solleticava.Lorenzo commentò: ”Io mi fermerei, ho guidato per quattro ore, sono un po’ stanco, vorrei almeno fumarmi una sigaretta.Voi che dite?”
Andrea e Luca erano d’accordo anche se il loro motivo era più futile: non erano amanti della musica da ballo ma c’erano delle pulzelle niente male, molte delle quali indossavano pantaloni molto aderenti il cui taglio faceva risaltare il loro posteriore.Io ero il meno convinto del quintetto dato che non volevo far tardi all’appuntamento con la pantera in quel di Sulmona,ma nello stesso tempo,non potevo far trasparire la mia insoddisfazione per la sosta non prevista per non farmi scoprire.
Il primo problema fu trovare parcheggio: il posto era bucolico e c’era solo una viuzza lunga che arrivava fino al castello; le macchine erano poste lungo il lato destro della strada per cui,a causa della larghezza ridotta della via,si poteva procedere solo in un verso.La coda delle macchine parcheggiate era lunga molti chilometri e sembrava arrivare fino al castello posto in profondità.
Dopo aver parcheggiato, faticosamente, la macchina, dovemmo fare un ampio tratto di strada a piedi, salire lungo una via sterrata e, finalmente, dopo tutta quella marcia, c’imbattemmo nel “rave”.
Ci trovavamo dentro un bosco molto fitto; la leggera foschia dava un tocco di teatralità al tutto; vi era un ampio spazio, in mezzo al bosco, limitato, ai margini, da dei grossi alberi.All’interno di questa superficie vi era montato un palco sul quale c’ erano due o tre dj ed un numero imprecisato di ragazze in reggiseno che, suppongo, dovevano dare un tocco hard all’evento.Queste ragazze erano o delle coraggiose incoscienti o erano pagate profumatamente poiché la temperatura non era alta: sebbene ci trovavamo in piena estate il clima non era agevole giacché aveva piovuto; in più vi era molta umidità amplificata dalla presenza degli alberi.Sembrava che nessuno sentisse la temperatura bassa; erano tutti eccitati nella danza: scuotevano le mani, la testa, i piedi ed ogni tanto facevano segni ai danzatori vicini;il tempo incauto non sembrava scalfire il ballo: la maggior parte dei ragazzi si trovava sotto il palco,accalcati,sporchi di fango,quasi come se fosse una grande orgia;quelli più vicini al palco danzavano rivolti verso le signorine mezze nude,sperando che magari, offrissero sesso gratis.Le signorine guardavano questi maschietti eccitati, e quindi sorridevano anche se quelli sotto facevano uscire, dalla loro bocca , le parole più irriverenti;ed intanto continuavano a ballare.Oltre quella gente, vi erano altri che erano situati al di fuori della confusione e del fango:alcuni ballavano, altri erano intenti a dormire nonostante la musica rimbombava al di fuori della valle.
Mi rimase impressa una coppietta: ”Guarda quei due!”, mi disse Lorenzo; io mi girai dietro di me e vidi due corpi, che sembravano uno, dondolare a tempo di musica. Lei aveva le mani sul suo sedere e lui faceva la stessa cosa.Posso immaginare che il punto d’unione era costituito dalla loro lingua, poiché il bacio sembrava non dover finire.Il giovane aveva il viso coperto dalla chioma bionda della ragazza, la quale lo teneva stretto a sé, come se qualcuno o qualcosa potesse portarglielo via.Lorenzo, Luca ed io avremmo desiderato essere al posto di quel fortunato, con tutto il cuore.Mi venne in mente che, forse, la pantera avrebbe potuto soddisfare questa mia fantasia: già assaporavo il momento in cui avrei potuto cingere i fianchi della mia amica e poter gustare le sue labbra.
Intanto, senza essercene accorti, mancavano all’appello sia Mario che Andrea; Luca, sfumacchiando la solita sigaretta,prese la decisione: ”Basta ora fare i guardoni!Dove sono quei due?”.Guardò Lorenzo e ricevette, come risposta, un no, scuotendo la testa; si rivolse verso di me, attendendo la mia risposta, ma anch’io feci cenno di non sapere dove fossero. Era difficile parlare poiché quella musica, che io chiamerei rumore, proveniente da quelle gigantesche casse poste ai lati e sul palco,era quantomeno assordante.
Ci dividemmo: Lorenzo ed io ci preoccupammo di trovare Mario, mentre Luca pensò ad Andrea.
Accendendosi un’altra sigaretta, Luca s’inoltrò nel bosco, giacché sapeva bene i gusti del nostro amico: Andrea ha avuti sempre la mania di nascondersi, di star lontano dalla massa, stabilendosi sempre in luoghi appartati , convincendo anche gli altri a fare lo stesso; ciò ha comportato che, la maggior parte della gente, tutt’ora ci considera un gruppo di snob a causa di questa mancanza di relazionarsi con gli altri .Quest’abitudine ci ha portato a passare numerosi sabati sera lontani da persone diverse dalle solite, parlando di calcio, di ragazze, di politica e spettegolando dei vari personaggi che la nostra città sfornava a ripetizione.
Luca sapeva bene dove andare a trovare Andrea; girando tra i vari piccoli assembramenti, nascosti tra gli alberi,scovò il compagno scomparso: era sdraiato sull’erba asciutta, insieme a degli sconosciuti; appena vide Luca, gli fece cenno di mettersi accanto a lui.Luca acconsentì e, una volta seduto, rivelò: ” Andrea, mi sa che dobbiamo ripartire”.Andrea lo invitò alla calma. Aspetta, ti presento un amico”
Un ragazzo basso con uno sguardo perso nel vuoto si trovava al suo fianco: ”Ciao sono Stefano”.Luca potè notare i suoi denti rovinati ad un cenno di sorriso, ma soprattutto poteva sentire il suo odore denso di vino”Stefano l’ho conosciuto ora: è un tipo originale”.L’originalità di quel giovane stava solo nei suoi discorsi sconclusionati che Luca non riusciva proprio a capire;ovviamente erano discorsi che potevano comprendersi solo se non si era lucidi; solo Andrea riusciva, non soltanto, a capire quei discorsi ma anche a dar delle risposte!Di solito è l’alcool che fa tal effetto e sembrava che Andrea avesse abusato di qualche liquido.
Luca girò la testa verso l’amico e gli chiese senza mezzi termini: ”Ma chi è ‘sto scemo?”.
“Dai è simpatico”, rispose Andrea con lo sguardo perso nel vuoto.Luca capì che la volontà d’Andrea era rimanere lì, quindi, in silenzio, si alzò e si diresse verso la bolgia danzante.
Nel frattempo Lorenzo ed io eravamo in cerca di Mario; sapendo delle sue abitudini ci recammo in mezzo al luogo dove era viva la festa; non ci volle molto a trovarlo poiché Mario è un tipo alto con una chioma lunga e nera.All’interno della confusione potei scorgere una capigliatura che si agitava: era il nostro amico.
Una volta avvicinato Lorenzo gli chiese di andare, ma lui disse: ”Avrei intenzione di rimanere qui”.
Avendo capito, dal labiale, cosa aveva in mente lo attaccai: “Scusa, e il nostro viaggio?Lo mandi così alla malora?”; la musica era molto forte, quindi Mario mi parlò nell’orecchio e mi rese manifesto che lui si trovava bene lì e che non c’era da preoccuparsi, avrebbe trovato un modo per tornare a casa.Il mio più caro amico mi voleva abbandonare! Riuscii neanche a controbattere la sua decisione per quanto fu una cosa improvvisa ed incalcolabile; ero deluso ed affranto e l’unica cosa che, in quel momento, mi venne in mente fu dire a Lorenzo di andare a cercare Luca ed Andrea.
Non fu difficile trovare Luca giacchè anche lui era alla nostra ricerca.”Non crederai cosa mi ha detto Andrea”.Ormai non potevo stupirmi più di nulla e quindi provai ad indovinare: ”Rimane qui anche lui?”.”Perché anche lui?”, chiese Luca.
“Mario, anche, ha deciso così”.
Eravamo rimasti in tre e decidemmo di andare a visitare il castello, giusto per prendere un po’ di tempo.Rifacemmo la scarpinata al contrario e prendemmo la macchina.In quel momento l’ansia mi assalì perché l’intoppo posto da quei due poteva smorzare gli entusiasmi iniziali.
“Certo abbiamo certi amici che non sono da raccomandare a nessuno!Come cazzo si fa a fermarsi insieme a degli sconosciuti?Aspetta, come fai a scegliere degli sconosciuti a noi?”.
“Esattamente!Non si può fare una cosa del genere”, dissi io, ”ma non è la prima volta.Ricordate quando ad un capodanno ci lasciò come due cretini in mezzo alla strada?Siamo noi gli stupidi; sembriamo come i cani quando vedono che il padrone vuole regalare loro un qualcosa.I cani si mettono seduti, immobili e aspettano che un cenno dell’amato padrone.Noi siamo così, siamo alle dipendenze di quei due,magari loro pensano che sono importanti per noi,quindi vi dico: andiamo via.Che ne dite?”.
Lorenzo fermò la macchina a lato della strada e si voltò verso me e Luca e disse:”Facciamo così: andiamo a visitare il castello e poi ritorniamo qui; se quei due sono ancora dello stesso avviso, partiremo senza di loro.Concordate?”.
Queste erano parole che sembravano uscire più dalla bocca di Luca piuttosto che da quella di Lorenzo, in ogni caso Luca ed io concordammo sulla condizione posta dal nostro autista e ci dirigemmo, di comune accordo, verso il castello.
Giunti al castello,parcheggiammo a fianco della torre più vicina.Quel castello era deserto e, con qualche timore, ci recammo verso le scale che portavano verso l’alto.
“Ricordate i film su Merlino, i cavalieri di quella tavola..”, questo disse Lorenzo.
Con un certo fiato insistente Luca rispose: ”Era la tavola tonda,ignorante!E lo sai perché era tonda?”
“Lo so io!”, entusiasta di poter fare una lezione,risposi:”Re artù voleva essere considerato un cavaliere come gli altri e, con un tavolo tondo,nessuno poteva stare a capotavola.In tal caso avere un castello doveva essere faticoso!non potevano inventare un ascensore?”.Nessuno rispose, non per cattiveria, ma perché non avevamo mai fatto quelle scale tutte in una volta.
Arrivati sulla torre, era ben visibile quel luogo perverso; il paesaggio sembrava essere estrapolato da un girone dell’inferno di Dante, l’unica cosa che non c’entrava nulla erano le macchine della polizia;notai anche le sirene accese,non tanto per il loro suono,che si confondeva colla musica da discoteca,ma perché lampeggiavano.
“Mario e Andrea!”, sbottai io, ”dobbiamo andare per vedere cosa è successo!”.
Ormai quelle scale non ci facevano più paura,scendemmo in fretta e in furia,prendemmo la macchina, e facemmo il percorso al contrario.
Arrivati vicino al bosco,notammo due pattuglie della polizia,una marea di ragazzi che scappavano mentre i poliziotti si affannavano a fermarli.
Luca vide tra gli arrestati, Stefano, l’amico d’Andrea, che sembrava non rendersi conto di ciò che stava succedendo intorno a lui: aveva lo sguardo perso nel vuoto e, in ogni modo, sul suo viso era sempre stampato un sorriso che non aveva nessuna giustificazione;era in manette e uno in divisa lo stava mettendo dentro il cellulare.Io mi domando, tuttora, quale sarà stata la sua sensazione nel momento in cui, svegliandosi dentro ad una cella superaffolata,cominciava a rendersi conto del guaio nel quale si era cacciato.
Era ora di ripartire, anche senza i due compagni; rientrammo in macchina, Luca si mise alla guida e rifacemmo la stessa strada per l’ennesima volta, ma ci fu una novità: da un cespuglio spusto la folta chioma nera di Mario e la testolina bionda rasata d’Andrea.
Ci fermammo e i due, con gran fretta cercarono di entrare in macchina, ma Luca bloccò le porte, aprì il finestrino e, con voce ferma, disse: ”Bè!Già avete cambiato idea?”, naturalmente era tutto condito da una nota polemica.Andrea rispose: ”Dai non fare lo stronzo!Apri, non vorrai che i polizziotti fermino anche Mario e me!”.
Noi tre ci guardammo e un piccolo sorriso accomunò i nostri volti:Luca chiuse il finestrino,riaccese la macchina e partì.I due amici fuori cominciarono ad urlare le più ignobili parolacce che questa terra non abbia mai vomitato, ma era tutto uno scherzo poiché non ce la sentivamo di lasciarli come due pezzenti in mezzo la strada e, soprattutto, alle prese colle forze dell’ordine.
Senza parole entrarono nell’auto e ripartimmo per una nuova avventura.

9
Ogni volta che ripenso a quel viaggio mi viene in mente sempre l’immagine di quei camion con le gabbie piene di animali; noi alla fine eravamo in quelle stesse condizioni: cinque persone dentro una macchina senza aria condizionata, con un caldo torrido allucinante e con pochissimo spazio all’interno di quella gabbia che era la punto f.i.a.t.
A causa del vento non era possibile nemmeno tenere un discorso serio poiché le parole volavano via, partendo dalla postazione di davanti e uscendo dai finestrini di dietro; per far capire una battuta al mio vicino dovevo ripeterla almeno due volte facendo perdere almeno metà della comicità a quella situazione buffa; per non parlare della comunicazione che poteva esserci tra quei due davanti e noi tre dietro: ogni tanto si poteva carpire qualche parola, tra una folata e l’altra di vento, tipo:”Ragazze…tante…libere…Silvio…”.
Al nome Silvio mi son tirato in avanti verso Lorenzo, l’autista, e Mario facendo una domanda semplice quanto ovvia:” Cosa si parla, ma soprattutto perché parlavate di me?”.
“Si parlava di ragazze”.
“Il mio dolente tallone d’achille!”, dissi io; “Posso farti una domanda?” chiese Mario, facendo un cenno con la testa io acconsetii,”Come mai non ti vediamo mai con una ragazza?”.
“Bè Mario dopo il fattaccio nel quale eri coinvolto anche tu forse è stato difficile ritrovare fiducia nelle persone, negli amici, ma soprattutto nelle ragazze…”
Naturalmente il fattaccio riguardava il mio rapporto con Erica…


10
Io sono sempre stato un ragazzo chiuso in tutti sensi: non parlavo tanto, giacchè si può dire che il mio carattere era chiuso, ma il fatto di non essere aperto dipendeva anche dal mio comportamento quotidiano cioè dal fatto che ero sempre chiuso nelle mie quattro mura, difficilmente uscivo e nonostante avessi tanti amici, anche di lunga data come appunto Mario, non riuscivo a trovare chi veramente poteva capirmi, tutti a guardare non oltre la punta del loro naso.Quando mi sentivo solo andavo a salutare qualche amico in un negozio di dischi; questi amici avevano il nome di Cobain , Vedder, Lennon, Freddy Mercury che cantavano di libertà e liberazione, del senso di oppressione che attanaglia la nostra generazione che ha tutto quelle che si può immaginare, dal punto di vista materiale, ma che non ha un punto di riferimento morale.
Io sento di far parte della categoria degli sfigati: non è un termine dispregiativo ma voglio intenere quella razza di ragazzi, magari insicuri, timidi che sanno di non essere un faro per nessuno ma che avrebbero tanto da dire, una razza che l’altro sesso disdegna al massimo li considera come animali da compagnia o loro confessori; si tratta essenzialmente di una categoria che sa di perdere il confronto con quelli fichi (quelli che sono “cool” come dicono in televisione) con quelli che vengono considerati i vincenti nella società.Noi Sfigati sappiamo che la loro bellezza sarà effimera, la loro arte sparirà nel giro di poco e quindi spariranno, e forse e questo che ci dà la forza di andare avanti: l’aspettare il momento nel quale quelle persone saranno cadute in disgrazia…Forse non è la cosa più cristiana da dire ma da parte nostra si tratta della realtà oggettiva.
Quando mettevo la cuffietta e sentivo uno di quei pezzi che hanno fatto la storia della musica sentivo che loro mi dicevano questo:”Fatti sentire, abbi il coraggio puoi fare quello che vuoi fare”.
Per me era una liberazione, era come andare in chiesa dal confessore e in quella chiesa sconsacrata incontrai una ragazza cioè Erica.
Aveva una competenza in materia lo capii quando prese un cd degli Who e chiese al proprietario del “SOTTOMARINO GIALLO”( così si chiamava il negozio di dischi essendo, il proprietario un amante del beatles e forse l’unico del mio paese ad averli visti dal vivo) di mettere “Tommy”.
Quanto partì la chitarra di Peter osservai lei di nascosto: aveva gli occhi chiusi e dondolava la testa al ritomo della batteria che entra nella canzone dopo qualche battuta, sembrava facesse l’amore colla canzone; i suoi capelli biondi le cadevano sulle spalle e nonostante dai suoi gesti e dai gusti di notasse la sua passione per la musica pesante il suo aspetto non lo dava a vedere: era una ragazza ben vestita che in un’altra situazioneavrei inquadrato come una giovane discotecara dedita a fare vedere come era bella a tutti i ragazzi arrapati che le ballavano vicino.
Non era così perché chi sente la musica rock ha un animo grande così, chi la sente veramente quella musica però,non chi fa di quella solo un ascolto superficiale.
Le sue mosse mi facevano pensare ad un serpente e i suoi fianchi andavano a ritmo seguendo anche il controtempo.Si avvicinò a me e mi guardò: “Sentiti questa canzone al buoi con una candela accesa e capirai quello che il destino ti concederà o vuoi che ti concda”.
Si girò al proprietario del negozio e lo ringraziò per l’ascolto e se ne andò.
Io imasi di stucco, non dissi neanche grazie e naturalmente non le chiesi manco il nome, ma questo era una cosa normale per uno sfigato come me,ma comunque la poesia di quel momento, la magia di quell’attimo si isolava da tutto e non c’era spazio per una domanda idiota quanto inopportuna come quella.
Sentii in quello spazio di cinque o sei minuti, in altre parole il tempo della canzone, una forza vitale in me che mi spinse fuori di quel locale verso casa mia con in mano una cassetta vuota nella quale registrare una serie di canzoni.Per farla, dovevo indirizzarla o dedicarla a qualcuno perché fare una registrazione di quel tipo non significa mettere una canzone dopo l’altra ma bisogna seguire certe regole.La prima regola sta nel ricordarsi che usi parole di una persona per esprimere qualcosa tu, quindi si dà all’opera un significato, un messaggio che con parole tue non riesci a far comprendere; bisogna anche rcordari che uno strumento del genere si può usare solo con persone che sanno il significato di quel gesto, sanno che sei tu quello che canti anche se a volte la voce è femminile.
La seconda regola riguarda essenzialmente la struttura dell’opera: allo spettatore bisogna far conservare l’attenzione necessaria per tutti i novanta minuti, perché la cassetta da usare è di quella durata, giacché non è possibile fare un’opera complessa in minore tempo, diciamo sessanta o quarantasei minuti!Chi usa cassetta con durata minore non sa quello che deve dire.Bisogna cominciare con pezzi forti, almeno tre o quattro e finire con pezzi di altrettanto valore, ed in mezzo mettere canzoni di medio valore poiché pezzi più importanti non riuscirebbero a catturare l’attenzione necessaria e richiesta, per cui tanto vale mettere alcuni motivi orecchiabili.
L’ultima regola riguarda il destinatario; non poteva essere che lei, quell’angelo maledetto, quel serpente incantatore che mi consegnò quelle frasi stupende e stupefacenti.
Presi tutti i cd che avevo e li buttai sul letto rovistando tra loro per trovare quei titoli più adatti a lei……lei……chissà qual era il suo nome; in ogni caso optai per canzoni con sonorità anni settanta in cui i suoni acidi della chitarra facevano da contraltare agli ideali da figli dei fiori: come si faceva a pensare ad un accostamento tra la chitarra dei LED ZEPPELLIN e un motto tipo non fare la guerra ma fare l’amore?Rimane un mistero almeno per me.
Ilo problema ora era trovare il momento adatto per consegnarle la cassetta e, soprattutto, trovare il momento dato che quella ragazza non l’avevo mai veduta, anche se in ogni caso era difficile vederla poiché non era lei che rimaneva a casa,ma io!
L’unico posto dove ritrovarla era al “SOTTOMARINO”, ed infatti andavo sempre lì sperando che la sorta mi fosse stata amica:in quel momento ripensavo a alla frase dettami dalla misteriosa ragazza, stavo seguendo il mio destino, pensavo in quei momenti, o al massimo lo sto costruendo.
Portavo sempre la cassetta nella tasca del mio giubbino preferito in modo tale da averla sempre a portata di mano e di consegna, nonostante non avevo pronto un discorso o almeno tre o quattro parole da comunicare a quella ragazza.
Quel giorno ricordo che pioveva come non aveva mai piovuto in quella città deserta, la pioggia batteva duramente sulla mia faccia mentre cercavo di tornare a casa col motorino, perché,giustamente questa è una prerogativa degli sfigati, ero uscito col motorino che faceva caldo e c’era il sole e quindi Giove pluvio decise di accanirsi contro la mia povera personcina.Ero sul motorino quando cominciai a bestemmiare per la pioggia che mi colpiva violentemente e che stava lavando la città non solo dalla sporcizia materiale ma da anche quella spirituale;ho sempre pensato all’acqua e segnatamente ala pioggia come uno strumento di purificazione dell’uomo; questa convinzione forse era dovuta alla mia educazione cristiana che ricevetti.Giove sembrava accanirsi contro di me e io lo stavo maledicendo ma dovetti ricredermi: quel dio munifico stava aiutandomi ad incontrarla: era troppo pericoloso ritornare a casa e allora mi rifigiai al SOTTOMARINO , per parlare con qualcuno, per esempio, il vecchio Hendrix.
La canzone che stava suonando forse era Foxy Lady,ma non ricordo giacché i miei ricordi di quelle ore a seguire sono tuttora offuscati dagli avvenimenti che seguirono; i miei occhi si spostarono dalla copertina del vinile alla figura della ragazza danzante;stava guardandomi con i suoi occhi cercava qualcosa dentro me, ed io mi sentivo inerme come un bambino appena uscito dall’utero della mamma, nudo e rannicchiato su se stesso e senza la possibilità di proferire parola se non versi o rumori incomprensibili.
Mi ricordai della cassetta e stavo rovistando nella tasca destra del giubbino blu ma senza riuscire a trovarla per il fatto che avevo cambiato giacca! L’unica cosa che riuscii a dire fu qualcosa del genere:”Avevo una cosa da darti ma forse l’ho lasciata a casa…che fesso…scusa…”.
“Scusa di cosa? Andiamo a casa tua e me la dai”.
“Bè se ti va possiamo andarci ora, se vuoi, se non hai altri impegni, se non ti disturba,se…”, lei mi chiuse la bocca con la sua mano sinistra prese la mia mano per uscire dal negozio.
Pioveva, ma con lei dietro, sul sellino del mio scassato motorino, non sentivo più il dolore sul mio viso a causa della pioggia, forse era l’angelo dietro di me che mi teneva stretto e aveva costruito uno scudo per prottegermi, forse aveva dei poteri magici quella ragazza.
Eravamo arrivati sotto casa mia e mentre cercavo le chiavi del portone notai che lei non si nascondeva dalla pioggia, ma anzi la cercava, aveva le braccia aperte e il suo viso era rivolto verso il cielo con occhi chiusi, chissà alla ricerca di cosa o di chi.
Salimmo le scale, la portai nella mia camera e, mentre cercavo di farfugliare qualcosa e dire frasi di senso compiuto per temporeggiare in modo che potessi tenere desta la sua attenzione fono a che non trovavo il maledetto giubbino blu, lei si aggirava in silenzio nella mia stanza.
La ragazza stava notando i poster, i libri soffermandosi su un testo d’Asimov, poi passò ai dischi che io, in maniera accurata, avevo disposto secondo due criteri:l’ordine alfabetico e l’anno di produzione.
“Ti piace la mia stanza? Diciamo che qui vivo la maggior parte della giornata…aspetta ecco il giubbino …trovato!”. Mi girai verso di lei e mi accorsi che lei mi stava dietro le spalle e proferì queste parole, mentre le rendevo visibile la cassetta: “Mettila, fammi ascoltare”.
Infilai la cassetta da novanta minuti nello stereo di casa e lei fece come al negozio di dischi , incominciò a dondolare al ritmo della musica, ed io solo in quel momento mi resi conto che le canzoni, sebbene molto ritmate, esprimevano troppo sentimento, forse ero stato un po’ sfacciato.
Lei mi venne incontro, io ero vicino allo stereo fermo come una statua ad osservare ogni suo movimento, ogni suo gesto.Sentivo un’emozione dentro di me che non avevo provato, non era amore, non poteva esserlo,ma sicuramente si trattava di una profonda attrazione verso di lei che faceva ribollire il mio sangue, che riuscì a mantenere calde le mie mani notoriamente due pezzi di ghiaccio.
La ragazza si avvicinò a me e disse delle parole, sussurrando, per non rovinare la bellezza della canzone: ” Io mio nome è Erica”.
“Io il mio è…”, non potei finire la frase, perché lei mi fermò con un bacio.UN BACIO! Io non lo avevo mai provato, non avevo mai assaggiato le labbra di una ragazza e non avevo mai sentito la lingua di un’altra persona nella mia bocca. Quando i miei amici mi dicevano che fare l’amore era la cosa più naturale del mondo avevano ragione , la spogliai, mi spoglia, facemmo l’amore lì vicno lo stereo. Non posso raccontarvi i particolari ma posso dire che fu l’esperienza più sconvolgente che mi sia potuta capitare; il corpo era bellissimo: non era magrissima ma la ciccia l’aveva nei punti giusti e il seno ero infinitamente più bello di come me lo sarei potuto immaginare.Io ero alla prima volta e il risultato non fu impressionante, fui un po’ una frana.
Parlammo un pò dopo; lei mi raccontò qualcosa della sua vita e io le raccontai qualcosa di me, ma sembrava che Erica già sapesse tutto o quasi della mia vita perché mi aveva notato sempre il quel negozio e mi trovava interessante; la cosa che mi sorprese di più di quella chiacchierata fu quando affermò che non aveva l’intenzione di far l’amore con me, ma si convinse grazie alla mia decisione.Per la prima volta ero stato io ad aver rischiato!
La mia relazione con Erica fu molto intensa e piena di emozioni che non avrei mai pensato di poter provare nella mia vita; lei diventò il centro dei miei interessi, dei miei pensieri, ogni movimento ed ogni attività era finalizzata alla sua persona e forse fu questo mia pressante azione nei suoi confronti a fare in modo che si allontanasse da me.
Non c’era più comunicazione tra di noi come una volta, ma nessuno dei due aveva il coraggio di dire basta, perché sapevamo di essere fatti l’uno per l’altra e che ci volevamo bene.
Erica ed io uscivamo regolarmente con i miei amici e, tra questi, soprattutto Mario era un nostro amico fidato: lui aveva avuto molte esperienze, mentre io ero alle prime armi per cui mi sembrava naturale chiedere consigli a lui ed anche Erica aveva Mario come confidente giacché era quello che mi conosceva meglio e che sapeva dare un significato ai miei comportamenti.
Quando si vive una situazione di stallo c’è sempre un episodio scatenante che rompe quell’equilibrio instabile e rende le cose più facili, ma anche dolorose da un certo punto di vista.
Mi sembrò di morire nel momento in cui le parole di Erica si trasformarono in coltelli e lance per il mio cuore disperato;lei mi disse:” Ho baciato Mario”.
Li avevo visti mentre si baciavano, mentre lei lo stringeva in vita; li avevo visti eppur non dissi nulla in quel momento; rimasi nascosto e poi andai via, perché per me era un gesto così inverosimile quanto inaspettato: quando capitano cose inaspettate non vi è la possibilità di intervenire in quel preciso momento.Dovevo aspettare.
Erica non usò né frasi di circostanza né cercò di giustificarsi, mi mise davanti la cruda e fredda realtà, una volta messa al corrente del fatto che io avevo visto; non riuscii a proferire parola, ero impietrito mentre la guardai negli occhi per capire se lei mi odiava e aveva fatto questo per farmi del male, oppure…non sapevo che pensare; in quell’intervallo breve che passò da quella confessione alla mia reazione non ricordo se ho detto o fatto qualcosa, ero troppo stordito; avete mai provato quella sensazione di inutilità e di impotenza nei confronti di una certa situazione imprevedibile? Mi alzai dalla sedia e cercai di andare via con grande dignità, a testa alta, mentre lei piangeva; l’unica cosa che potei dire fu:”Non ti odio, non ti preoccupare…”.
Il mio cellulare suonava e dalla musichetta personalizzata potevo dedurre che il mio ex amico provava a chiamarmi e già immaginavo la scena penosa che avrebbe messo su.Il mio sangue ribolliva nel corpo come la lava che esce da un vulcano che ha dormito per millenni e dunque in quello stato, non mi era possibile ascoltare nessuno, tranne qualche amico immaginario come i componenti dei Pearl Jam.Una volta ritornato a casa mi ritrovai,invece,nella camera ad ascoltare il disco che mi consigliò Erica cioè quello degli Who.Spensi per l’ennesima volta e, forse anche per l’ultima, le luci;accesi una candela e nei quattro o cinque minuti di quella canzone, nel mio cervello,in versione masochista, vennero a galla i miei momenti passati insieme a lei e l’unica cosa che riuscivo a domandarmi era: ”Come ho fatto a farmi fregare così? Perché questo è successo a me?”.
Mi facevo delle domande che non avevano delle risposte ed, il fatto che un tipo razionale come me, non riiusciva a trovare una soluzione per quella situazione mi faceva impazzire.Quel fattaccio mi aveva riportato all’interno del mio guscio vuoto di sentimenti, ma in ogni caso tanto forte da tenermi lontano dalla vita reale; i mesi seguenti erano scanditi dalla scuola (era l’ultimo anno), dalle visite al “SOTTOMARINO”, dalle suonate col mio gruppo musicale.
Feci pace con Mario perché, analizzando tutta la situazione, riflettendo sul minimo dettaglio, sapevo che la colpa era anche mia: la mia freddezza e la mia mancanza di comunicazione avevano spinto Erica nelle braccia del mio amico.Erica, invece, era come scomparsa dalla mia vita, un fantasma, ma forse era meglio così dato che non sarei stato prnto ad affrontarla perché ,in ogni caso, mi aveva ferito molto quel suo gesto e non avrei potuta perdonare.Quella esperienza amorosa mi insegnò che vivere la vita può essere anche doloroso e soffrire in quel modo non era adatto a me e, dunque, decisi, di non avere più legami così profondi con nessuno e, fu per questo che i miei rapporti con l’esterno erano solo posti con degli emeriti sconosciuti incontrati nella via virtuale…


11
“Dopo Erica non mi sono mai permesso di approfondire un discorso con una ragazza, prima di tutto perché mi sto ancora leccando le ferite come dopo un combattimento, poi perché non ho trovato, per adesso, nessuna all’altezza d’Erica.Si può dire tutto di lei, ma sicuramente non posso affermare che mi abbia rovinato la vita, anzi mi ha dato una visione aperta del mondo”.
“Senti come parli?La verità è che l’amore vive in te; l’amore che nutri ancora nei suoi confronti.Questo non lo puoi ignorare!”, sentire Luca dire queste cose mi sorprese perché non era un tema che lui afforntava molto spesso, se non dal punto di vista prettamente sessuale.
“Bè”, risposi, “io non dico di essermi dimenticato di quella ragazza, ma forse non voglio soffrire ancora per lei, fare come si vede in quel film, ragionando per assurdo, dove si vedono quelle attrici nell’odioso ruolo della protagonista malmenata e ma ancora innamorata del suo carnefice: la loro è un dolore materiale, fisico, il mio è un dolore che nasce nell’animo e lì ristagna, ma comunque non è meno logorante”.
Io non volevo metterli a disagio con la mia visione pessimistica della realtà e della mia situazione amorosa, non ero affranto e quel viaggio liberatorio con i miei amici e, soprattutto , lo scopo di quella gita a Sulmona mi elettrizzavano, mi facevano sentire come un bambino alla scoperta del mondo e delle cose più semplici; io sono il re degli ignoranti ma sapevo benissimo qual era la differenza tra un tipo come me e uno come, per esempio, Leopardi.Quell’immenso poeta era brutto, piccolo, con la gobba e quindi poteva essere solo un pessimista: cosa è un uomo se sa già che non può aspirare all’amore carnale e sentimentale di una donna?Essere consapevole fin dall’inizodella tua condione e che nessuna ragazza verrà a letto con te se non per secondi fini deve essere sconfortante per usare un aggettivo uefemistico.
Io non mi trovavo nella situazione di Giacomino, non avevo il suo genio, che per me era nato appunto dal fatto che era rifiutato fisicamente e quindi il suo vis la indirizzava verso altro come l’arte di scrivere, ma fortunamente avevo un bell’aspetto, stavo bene di salute e ciò mi aveva fatto covare la speranza di poter trovare una sostituta d’Erica.
Li sorpresi, dunque, quando dissi loro del motivo perché avevo spinto per Sulmona; Lorenzo fermò la macchina all’autogrill per costrigermi a vomitare tutta la verità su quella faccenda; erano i miei amici e dissi loro quel che volevano.
Fu Mario a congratularsi con me per primo dicendomi che avevo fatto la cosa giusta e gli altri si accodarono a quella cosiderazione; io mi ero liberato da un peso poiché non sarei risucito a trattenere più quel segreto ai miei amici, infatti, è la trasparenza la mia più grande virtù ed è forse il fatto di non riuscire a nascondere un disagio, una considerazione, un certo stato emozionale, forse hanno fatto di me una persona “evitabile”; d’altra parte si dice che siamo solo attori sulla terra, non riusciamo ad esprimere le nostre emozioni, forse per paura o per troppo formalismo, e chi lo sa viene considerato uno fuori dagli schemi nelle ipotesi più estreme, un povero pazzo; io non sono un ammalato di formalismo, le mie emozioni io le mostro: mi agito, urlo, mi libero.
Il caldo imperava, e come nel più tipico viaggio all’avventura che si rispetti, non eravamo molto puliti, eravamo sudati, i nostri vestiti erano impregnati di nicotina; eravamo cinque persone alla deriva, così forse apparivamo al mondo; la stazione di servizio ci servì anche per darci una ripulita generale e ,sebbene io avessi il magone, qualcosa di pesante sullo stomaco che mi portavo dietro, dopo aver rivangato la storia della bella Erica, dovevo anche pensare ad una ragazza che mi stava aspettando in quel di Sulmona.
Il rivivere quella faccenda mi faceva pensare che le incomprensioni sarebbe meglio evitarle, alcune volte si rischia d’avere soddisfazione,altre no e la ragione alle volte non serve, forse è meglio avere torto.
Non c’era nulla da fare, Erica sarebbe rimasta sempre nel mio cuore e nella mia mente; ogni tanto mi appariva davanti agli occhi,come in un film, mentre parla con altra gente che non ha idea della persona meravigliosa che ha davanti.Nonostante io sapessi di dover partire per una nuova avventura, lei rimaneva la mia ossessione, e il mio pensiero andava sempre verso lei per rivivire quelle emozioni che non avrei mai potuto scordare, ormai erano rimaste scolpite in forma indelebile nella mia mente.Tutto prendeva la forma di quella ragazza: una protagonista di un film, un oggetto caro, una parola; qualunque cosa mi faceva pensare a lei e, la gioia che rievocava quel nome, subito si scontrava con l’animosità per il suo tradimento, una collera che mi prendeva da dentro e mi rodeva lo stomaco; il tradimento non era tollerato bene dalla mia anima e dalla coscienza, io non potevo farci nulla! Erica me la ricordo così: capelli neri color pece lunghi fino alle spalle, labbra rosse ed una posa regale che strideva con quella sua voglia di trasgressione.


12
Non fummo tanto fortunati a scegliere la stazione di servizio poiché il bagno non funzionava e mi accorsi subito della diversità tra il panoraama che stavamo vivendo, un contrasto tra la roccia presente sulla nostra sinistra fatta di montagne molto spigolose e il mare blu cobalto presente sulla nostra destra e l’efficienza dei seirvizi che può mostrare una regione.Nel nord, certo le stazioni di servizio si presentavano molto bene ma chi ha potuto vedere almeno una volta il sole in alt’Italia, alzi la mano.
Nella mia vita non sono mai riuscito a vedere il sole, il motore della nostra vita, quello da cui tutto deriva a cominciare, come ci hanno insegnato dalle prime lezioni di biologia, dalla fotosintesi clorofilliana,la base della vita, il motivo per cui Adamo ed Eva si ritrovarono nel paradiso dell’Eden,la giustificazione del perché possano esistere le rocce,le piante,l’uomo e gli odiati insetti.Il sole nei miei luoghi non si è mai presentato per quello che è: lucida e vibrante palla infuocata!Quella atmosfera cupa che si respirava a qualche chilometro di distanza dava, secondo la mia teoria, lo stimolo a tutti a oziare di meno e lavorare di più; ciò è dovuto soprattutto al fatto che un tempo grigio come lo è al nord non porta le persone ad andare in giro a riflettere su ciò che sta loro intorno, anzi porta la comunità a far qualcosa che produca in quanto,oziare non serve a nulla se non c’è l’ambiente adatto; da qui deriva il corollario per il quale gli uffici sono desiderabili: lì almeno c’è la luce!
Al sud una mentalità del genere sarebbe inconcepibile: ad eccezione dei casi nei quali anche nel meridione il tempo è brutto, è inverosimile che le persone vadano al lavoro, contenti, sapendo di lasciare una bella giornata alle spalle nei periodi caldi e di non potere andare a sciare l’inverno soprattutto quando il sole pigro anche nel periodo freddo non solo riscalda, ma soprattutto non si nasconde dietro l’inquinamento; il tutto si restringe ad una questione psicologica da cui può trarsi anche una riflessione economica: è impossibile invertire la tendenza che in Italia c’è sempre stata; al nord si produce e ciò che si produce lì non può trovarsi nel sud ed anzi la cosa sarebbe deleteria, magari la gente del settentrione avrà il denaro sonante ma la gente meridionale ha qualcosa in più a mio avviso soprattutto a livello di spiritualità, potendo rilettere sulla natura che gli è intorno.
La stazione di servizio aveva un unico bagno, piccolo, sporco e mal funzionante; non mi sembrava vero potere costatare che nella realtà ci fosse un luogo così ameno e, tanto maleodorante che non ci fu possibilità e la forza per entrare; il puzzo entrava all’interno del corpo e i nostri neuroni che recepivano gli odori erano così disgustati che c’era anche la possibilità di rimettere dalla bocca quello che avevamo mangiato fino a quel momento; a dir il vero un panino portato da casa.Quegli odori mi riportavano alla mente il giorno in cui per disperazione e per mancanza di attenzione da parte della gente feci entrare nel mio sangue un po’ più del limite consentito di alcolici, limite che io non tolleravo dato la mia scelta di non toccare bevande di quel tipo; sebbene i ricordi di quel giorno sono, tuttora, sparsi nel fondo del mio cervello e non recuperabili, davanti a quel cesso una fotografia io avevo davanti agli occhi, cioè quella del mio vomito stampato sul pavimento della mia amica e sulle pareti mentre cercavo disperatamente di andar nel suo gabinetto; mi ricordava anche il giorno dopo quando ogni tanto mi alzavo dal letto per espellere dal corpo quello che il mio stomaco non voleva: la puzza di quei giorni che persisteva sotto il mio naso l’avevo ritrovata quel giorno.Quanto è piccolo il mondo!
Andrea propose di mangiare quel poco che era rimasto all’interno del frigo portatile e ripartire, ma non tutti avevano il suo stomaco di ferro; quella fu un’esperienza difficile da dimenticare!
La cosa ancor più laboriosa fu trovar una sistemazione per la notte; cercavamo di avvicinarci il più possibile alla nostra meta ma la stanchezza ciminciava a farsi sentire nelle ossa dei nostri puzzolenti e sudati corpicini.
Cercammo una spiazzo dove poter stabile il nostro accappamento notturno e per far ciò girammo un po’ di paesetti siti nella via che portava a Sulmona che facendo rapidi calcoli, era ancor lontana dalla nostra vista.
Il posto fu individuato in uno spiazzale dietro un supermercato presso una città sfigata di cui non ricordo il nome, ma non posso dimenticare la bruttezza di quel posto: cemento in ogni dove e la mancanza di spazi verdi all’interno della città; non c’erano neanche un po’ di ruderi antichi da far passar come monumenti significativi per la città. Era tutto nuovo, anche la chiesa era in quello stile privo d’intensità, che è lo stile di morderno, sicuramente, pensai, la fece un architetto che non ha gusti artistici, magari amico del sindaco che gli diede l’appalto!Era comunque una città nuova.
Era notte quando arrivammo e per le strade non c’era nessuno;quindi quel piazzale ci sembrò il posto migliore dove piazzare la tenda e riposare un po’.
La tenda concepiva solo tre posti letto e, quindi, due di noi dovettero adattarsi ai sedili della macchina; per decidere a chi spettava privilegio di giacere nella tenda, si fece a conta: tale onore spettò a Mario, Andrea e a me.Gli altri due dormirono in macchina.
Non fu facile prendere sonno in tenda sia perché, nonostante il libretto d’istruzioni assicurasse che la tenda era per tre persone,molto probabilmente intendeva tre sardine per di più deperite, sia perché quando hai uno che ti russa a fianco non è mai una facile farsi trasportare dal dio del sonno..
Non fui solo io ad aver problemi a chiudere gli occhi e riposar un po’ ma anche i compagni di viaggio avevano l’ identico problema, poiché l’umidità rendeva la temperatura più bassa e non avevamo l’attrezzatura adatta, fu, però, soprattutto un evento spiacevole a rendere la nottata più travagliata.
Accadde un evento che sconvolse noi tre nella tenda e per la paura non uscimmo se non dopo la conclusione di quell’episodio.Mi spiego meglio: la nostra tenda era posta sul giardinetto dietro quel gran supermercato. Quel giardinetto confinava con una casa abbastastanza spaziosa, direi un villino, ricoperto di piante rampicanti sulle pareti dell’edificio in questione.Si poteva notare, all’interno del prato, molto ben curato, la religiosità di chi ci abitava: infatti vi era una statua di Padre Pio e un’altra statuetta della Madonna lì vicino.
Questo edificio, che chiamare mistico è un eufemismo nascondeva un qualcosa di sadico e di misterioso; come i galli svegliano i contadini la mattina presto, urla di rabbia e di paura si diffusero nell’aria come macigni.Mi alzai di soprassalto non rendendomi conto di cio che mi stava accadendo intorno.Quelle urla assomigliavano agli schiamazzi di mia madre quando, per andar a scuola, mi diceva di tutto pur di liberarmi dal vincolo tentacolare del letto e, quindi, affrontar la forza di gravità per alzarmi.
Una volta che presi veramente conoscenza della situazione e del posto in cui mi trovavo, svegliai i miei compagni per renderli partecipe dell’avvenimento in corso.
“Puttana!”, diceva lui.
“Tu sei un bastardo”, diceva lei.
Si poteva intuire che si trattava di una lite tra coniugi o fidanzati circa la loro relazione.
MI risaltò subito all’ occhio, benché fossero le cinque del mattino, orario per me inconsueto, la differenza tra la casa, piena di orpelli religiosi e chi l’abitava.
Dai rumori che provenivano dal casato, si potevano intuire che gli oggetti più fragili presenti nell’edificio avevano recitato l’epitaffio.
Io personalmente non avevo mai assistito ad uno scontro così duro tra due persone.
C’era chi, tra noi, c’ aveva preso gusto e, messosi ad origliare apertamente, si fumò una bella sigarettina!Intanto potevano essere gli ultimi minuti di vita di uno, o, magari, di tutti e due, i contendenti.
Si affacciò in tenda Luca con l’intenzione di risolvere questa situazione: “Telefoniamo ai carabinieri!”.
“ Si potrebbe”, risposi io, “ma non sappiamo neanche dove ci troviamo, né la via!Cosa gli diciamo?- salve siamo cinque ragazzi accampati dietro un supermercato, in una città sconosciuta,in una via sconosciuta…a proposito: qui a fianco si sta consumando un delitto e per questo non riusciamo a dormire!- gli diciamo questo?”.

Id: 9 Data: 05/12/2007