Deserto
Aveva una famiglia: il marito, una bambina. Aveva un lavoro e una piacevole vita sociale fatta di piccole cose: una pizza con gli amici, al cinema ogni tanto, un caffè in compagnia, una passeggiata con le amiche. Aveva quello che tanti non hanno e che desiderano avere come sede di serenità, come il minimo e il massimo che ciascuno ha il diritto di avere.
Tutto ciò improvvisamente perse ogni interesse per lei, un mostro l’aveva trascinata dentro una voragine dove la libertà non esiste più e le cose che aveva non avevano braccia talmente lunghe da tirarla fuori.
Non la considerava una malattia, era uno sfizio che piano piano si è trasformato in dipendenza, la dipendenza dal gioco, da quelle maledette slot macchine divora-soldi, dal gratta e vinci, da tutti quei giochi che misteriosamente la rapinavano dei suoi risparmi, del suo stipendio, ma ancora più gravosamente, la privavano della sua libertà.
Una malattia è quella che, quando c’è, prendi una compressa e guarisci, questa non, non sparisce con una compressa, è una bestia che ti azzanna e non ti lascia più.
La crudeltà del mostro però non ha mai fine ed ecco che la scaraventa nel deserto, un mondo isolato, silenzioso indifferente, sotto il sole cocente, arsa dal calore che le faceva bollire il sangue nelle vene, che le bruciava la carne e con essa il sogno della libertà.
Ed eccolo il miraggio di un’oasi dove potersi dissetare e rinfrescare sotto l’agognata ombra di una palma.
Andava in quella sabbia che le bruciava i piedi, in quella luce accecante, saliva e scendeva dune alte quanto le cime più alte della terra, fin quando l’oasi svaniva e, senza forze, rotolava giù lungo quei morbidi pendii girandosi e rigirandosi nella bianca sabbia che le si appiccicava tutta addosso nelle piaghe della sua carne provocate dal caldo di quell’ inferno, rendendola irriconoscibile, un mostro essa stessa, come il mostro che la divorava. Tra le dune, nessuno la vede, nessuno sente il suo lamento.
Una bambina dai grandi occhi, più grandi del viso, con una mano tesa, le si avvicina, l’afferra, la tira a se e le chiede di alzarsi. Un altro miraggio? La sabbia comincia a diventare più fresca, il sole ha smesso di lanciare i suoi raggi come frecce che si conficcano in ogni centimetro del suo corpo. Rimane lì ferita, dolorante, tra le braccia del mostro e gli occhi grandi della bambina.
In quegli occhi grandi più del viso vede acqua fresca, ne sente quasi i benefici dentro la sua bocca, sente il profumo di fragranti cornetti appena sfornati e l’odore del cappuccino con una spruzzata di cioccolato, avverte il piacere di quei sapori che sostituiscono l’amaro della sabbia.
Afferra quella manina tesa, tira a se la bambina, la stringe così forte da farle quasi male.
Piange, si era persa, si è ritrovata grazie a quei grandi occhi, i suoi occhi di quando a sei anni nella calda cucina della casa, con i suoi fratelli, faceva girotondi intorno al vecchio tavolo sotto il sorriso della mamma che preparava la colazione prima della scuola.
Gli occhi della sua bambina che ha lasciato a casa senza colazione, la sua bambina silenziosa e triste che ha dovuto fare a meno della sua mamma, perché la sua mamma non era libera di essere mamma, il mostro l’aveva catturata, il mostro cattivo che ruba le mamme alle bambine.
La sua silenziosa bambina che non piange, non si lamenta, con due occhi più grandi del viso.
Piangi pure mamma, sono lacrime di libertà, allontanati dal mostro, sono la tua bambina, sei tu la bambina, la tua mamma, sei tu la mamma, non privare la tua bambina dalla sua mamma, e non privare la mamma della sua bambina.
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