Il colore come accerchiamento
Riflessioni sulle pratiche artistiche di Erica Mahinay
di Anna Laura Longo
Si potrebbe provare a guardare a un dipinto – o più in generale al piano pittorico – come a una sorta di podere atipico, dotato di una precisa estensione “coltivabile “ e, più che altro, di una specificità di raccolto. E tenendo fede a tale presupposto arrivare facilmente ad affermare come l’esercizio intrepido del colore, a patto che sia determinante e intensivo, possa per l’appunto rivelarsi un prezioso e ultradegno raccolto.
Nella galleria T293, situata in via Ripense in Roma, sino al 27 aprile 2019, viene dedicata una personale alla statunitense Erica Mahinay, artista che sensibilmente invita ad attraversare un itinerario basato sulla densità e peculiarità di una gamma di colorazioni, proponendole e lasciandole vivere in forma di avvincente “accerchiamento”.
Nella serie di opere presentate un tentativo costante di esplicitazione va a muoversi di pari passo con una celebrazione del recondito. Il senso quasi declamatorio delle sue “apparizioni” e condensazioni cromatiche si affianca dunque ad una vitalità del mistero, incombente e imperioso.
Il segno si fa ad ogni modo produttivo e nel complesso si viene sospinti, ma in parte anche affidati, al coraggio di un’evidente e stabile persistenza: “celebrazione offuscata della continuità”.
Siamo soliti consegnare un attestato di esuberanza alle gradazioni del rosso, caricandolo di energia espansiva e di dichiarata assertività. Tuttavia in questo caso potremo osservare come il carminio, il rubino, lo scarlatto e il quasi-bordeaux, si facciano precursori e in parte messaggeri di ombre, catalizzatori di una qualche forma di ambiguità, certamente tangibile, anzi in grado di delineare i margini di un’affascinante e labile segretezza.
La verità transitoria delle tinte prescelte vive – e si incunea- nella semitrasparenza di un materiale come la seta, in svariati punti esposta a un trattamento di sfaldamento, con conseguente apposizione di vernici e con un’emersione di fili e impronte digitali, dove la mano - appariscente corpo/presenza- si ritrova con fermezza a custodire il contrasto flebile tra l’esangue e il vitale, il consunto e l’intatto.
Le caratteristiche fin qui elencate inquadrano e “tingono” in qualche modo anche il tempo di sosta di colui che guarda e prova a spingersi gradatamente nelle declinazioni estese della visione, immergendosi al contempo nei meandri aperti e sfuggenti della percezione stessa. Il risultato conduce, con libertà, ad un rilevamento di aspetti oscuri o parzialmente difformi e a una possibilità di scorgere tratti tipici dell’irrisolto. Essi riconducono inevitabilmente verso l’interessante problematicità e complessità del gesto artistico, frutto di un’intima disposizione, in questo caso valorizzata e iper-scandita in vista di una riconsegna di sé.
Qualcosa si potrà dire anche sull’uniformità del formato, che chiaramente svela un’attitudine di caparbietà, aspetto questo che lascia in fondo guadagnare un passo più che unitario all’insieme.
A suo modo, anche la parziale visibilità del telaio, presente in ciascuna opera, sottolinea un’esigenza di apertura ulteriore verso la ricchezza e i limiti del visibile o, più in generale, verso i confini eterodossi della visibilità stessa.
Il tragitto in definitiva, tra compresenze, similarità e sorprese, accentua il nesso e le congiunture possibili che si snodano all’interno di un discorso di densità di rapporti (rapporti che interessano le opere in primis ma, a seguire, la capacità di attivazione degli sguardi).
Forme interlocutorie, ma lontane da una vera traducibilità, quelle della Mahinay: quasi delle ridefinizioni o contrazioni spurie del tracciato dell’esistente. Vicissitudini pittoriche che giustamente provano ad essere esenti da uno spegnimento di vita interna.
Luogo: Galleria T293
Indirizzo: Via Ripense n. 6 – Roma
Periodo di permanenza: sino al 27 aprile 2019
Orari di apertura: martedì/ venerdì h 12,00 – 19,00; sabato h 15,00 – 19,00
Sito di riferimento: www.t293.it
e -mail: info293.it
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