Avrei voluto portarmi dentro i tuoi estremi,
i connotati, patrimonio, corredo e pedigree.
Così impastati, ottenere la giusta
consistenza dell'annodato marsupiale,
fagottino di non più di pochi grammi,
imberbe caprettino roseo che schizza,
involucro alieno, i suoi tump tump
dal robotico schermo sonda.
Che mi importava del nome in fondo?
Del nome? Del nome?
Avrei voluto solo accomodargli
il letto, questo letto di anse
morbide e mai calcate,sella
intonsa, rigide doghe su cui
non si è coricata l'insonnia
di una notte di grida e di gengive
sventrate. Una plancia mai andata
a varo, estesa ma retrattile,
lumaca da rincasare in fretta.
Avrei voluto le tue generalità
risalirmi fino allo sterno con
rigurgiti e calci e vagabonde
nausee giramondo e poi gettarmi
sulla sedia sorridendo per la
finta fatica di portarmi addosso
il tuo te più piccolo, ancora
informe eppure già tutto te.
Avrei voluto urlare e
sentire la gioia dolorosa
dello squarcio, la pioggia
rossa da cui viene il mondo,
e poi raccogliere dal guazzabuglio - brodetto
il nostro furfantello scampato alle bombe
distanza e non si può.
Un solo pianto, squilletto di tromba:
Osanna all'obbediente soldatino
tutto sporco di noi.
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