Papà, una domenica volevi mettermi
al trotto: in salotto il maneggio,
l'argenteria luccicante la chiostra
fredda del drago, la faccia del coccodrillo.
Per staccionata una sola ringhiera.
Sulla sella superba, duna di plastica
e senza pelo, una banda color saraceno
uguale uguale alla pelle di Ken,
salivo insicura. I piedi, cuccioli
tra il feltrino e la ciappa azzurra,
tremavano a turno. Ero a qualche
centimetro dal tappeto color
bocca di donna eppure tremavo,
con te che mi incitavi a tenere
il passo, a dondolarmi: così facevano
in cento altre stanze altri cento
bambini. Papà, tutti ci stavano
intorno ed io nel mezzo, meridiana
non alta un metro, orologio con
le lancette blu di blu e le unghiette
brevi. Al centro, si. Come la ballerina
del carillon, il buco della ciambella
e tu con i tuoi " Oop!" mi davi
il tempo, metronomo di un metro
e novanta, tutto negozio ed Alfa
sud bianca, squalo bianco col muso
prominente e le interiora calde,
tu dentro pilota e nocchiero,
sub e cacciatore, le ray ban pulite
ed i baffi inquadrati, due parentesi
in grassetto sulle labbra signore da Vomero.
Papà tu mi volevi ambiziosa ed impettita
sulla schiena toffee del nuovo inquilino
comprato, ricordo, nella Napoli che
ci piaceva, la Napoli dei venerdì
e del pesce impiattato in silenzio al Sarago vip.
Ma io scivolavo, poi rimbrottavo l'alieno
e piangevo, volevo la terra
e la terra già mi chiamava con
il suo profumo di acqua e di pace,
di orizzontale, di vermetti tra le anse scure.
Così mi prendesti in braccio e giù sul
tappeto con i piedi felici e la gola
finalmente asciugata dal pianto.
Mi accarezzasti e punisti nell'angolo
a nord, fra la porta ed il comò,
il cavallino mostruoso, lui che mi
aveva nitrito spaventoso il suo bu.
Quel bu adesso non ha più criniera,
speroni, sellai, le stalle sono vestite
di jeans e rassicuranti quanto
lo sguardo del lupo.
Ed io piantata ancora sul pavimento,
avvitata radice più buia che alta,
aspetto sempre ed aspetto un po'
di vento per dirmi finalmente spuntata.
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