Pubblicato il 16/07/2010 02:26:49
Con “Viaggio nella mia stanza” del 1794 e “Spedizione notturna nella mia stanza” del 1823, Françoise-Xavier de Maistre immette nella storia della letteratura occidentale la metafora della stanza come “luogo dell’utopia”, in cui lo scrittore può celebrare la piena libertà intellettuale da ogni limite e dovere sociale, allo scopo di amare la vita e le creature in se stesse, al di fuori della loro singolarità.
Qualche decennio più tardi, Emily Dickinson, vestita, come si racconta, sempre di abiti bianchi, decide di sottrarsi all’esterno e vivere come una reclusa nella sua stanza. È l’anno 1866: da quel momento in poi ella continuerà a coltivare i suoi rapporti con gli altri solo attraverso le parole vergate su fogli di lettere o su biglietti. La finestra della sua stanza apre il suo sguardo al ciclo delle stagioni, l’avverte di odori, colori, canti come fossero sacre epifanie; le voci dei suoi familiari che chiacchierano tra la cucina, il salotto ed il giardino le fanno conoscere quel che avviene, intanto, ad Amherst o più lontano. E tuttavia è in quella stanza che tutto accade e tutto muore. Ed è lì che Emily conosce ogni cosa al di là di ogni cosa.
Ed ancora è il 24 ottobre del 1929 quando esce “Un stanza tutta per sé” (“A room of One’Own”) della scrittrice inglese Virginia Woolf, in cui la stanza come laboratorio di scrittura, meditazione e presa di coscienza di sé, diviene il luogo per eccellenza del riscatto della donna da una serie di ruoli preconfezionati che ne soffocano la libertà intellettuale. Un libro, dunque, che segnò una rivoluzione nell’ambito del movimento femminista. Ma, cosa non ben messa in rilievo da molti, luogo di un’altra e più alta rinuncia, quello alla vita esterna per una maggiore comprensione dell’interiorità, ossia della dimensione da cui comincia il viaggio più temibile e audace di ogni essere umano.
Nello stesso anno dell’uscita del libro “Spedizione notturna nella mia stanza” viene pubblicata la prima parte della “Prigioniera”, cioè giusto dodici mesi dopo la morte dell’autore Marcel Proust.
Anche questa volta tutto si svolge all’interno delle stanze di un appartamento, in cui Marcel compie, senza spostarsi fisicamente, se non rare volte, un viaggio straordinario all’interno di sé, sollecitato da un’acuta ed inguaribile gelosia nei confronti di Albertine, la donna che egli quasi reclude per possederla interamente, sorvegliandone l’inclinazione omosessuale.
E, tuttavia, assai più terribile della prigionia dorata di Albertine, che l’amante cerca di rendere piacevole con doni sempre più raffinati, è quella vissuta volontariamente da Marcel, che non riesce ad uscire dalle strette del suo sentimento. La giovane ragazza, infatti, amando molto di meno, pone tra se stessa ed il suo carceriere distanze incolmabili, che invano quest’ultimo vorrebbe varcare.
Dunque, il vero tema, il vero lutto celebrato ne La prigioniera è la perdita quotidiana dell’altro, l’impossibilità di conoscerlo, a dispetto dell’intimità dei corpi, della chiusura dello spazio attorno, dell’impedimento dei movimenti.
Eppure da quanto e quale movimento è percorso questo libro, scritto forsennatamente da Proust nel chiuso di una stanza, mentre racconta la vita di due amanti all’interno di una stanza! Innanzitutto c’è l’ansioso, ininterrotto percorso dell’anima di Marcel verso l’anima di lei, nel tentativo di appropriarsi di un passato ignoto, che egli cerca di ricostruire attraverso frammenti di discorsi e di ammissioni più o meno sincere, e dell’altro tempo condiviso ma variamente interpretabile, così che continuamente si cuciono e scuciono i punti di sutura fra le loro vite ed i ricordi, mentre si ingrossano e sanguinano le correnti opposte della loro estraneità.
In quelle stanze, però, come accadeva per Emily ad Amherst, entra egualmente, anche se gli scuri delle finestre restano per lo più abbassati, tutta la vita esterna, con la sua animata vivacità e varietà dei rumori e tonalità di grida e di voci a cui il narratore restituisce colori e profumi e immagini e volti grazie ad un’operazione della memoria che descrive il presente attraverso il ricordo. La stessa Albertine rappresenta per lo scrittore la memoria di quel mondo femminile dal quale si sente profondamente attratto ed al quale rinuncia per inseguire in lei, con lei, la prigioniera che gli sfugge pur standogli accanto, il sogno di un’appartenenza impossibile. Questo è, insomma, il viaggio che più impegna Marcel e che gli impedisce l’altro nello spazio lontano, quello nella città sognata, la città dell’utopia, che è Venezia, ma che allo stesso tempo glielo consente attraverso i fasti di certi abiti di seta e di ornamenti orientali che Albertine indossa. Venezia, la sognata meta, perderà per Marcel ogni attrattiva, non appena la cameriera Françoise gli annuncerà che Albertine, presi i suoi bauli, se n’è andata “alle nove”. Ora che egli potrà andare a visitare Venezia quando vuole, ora che più essa non si sottrae, la città lagunare perde d’un tratto ogni incanto.
Allo stesso modo De Maistre rinuncia alla vita per sognare, anche se lo fa con un sorriso incantato e fanciullesco, molto diverso dalla sofferenza di Marcel, che accoglie la fuga di Albertine, tenendosi il cuore con le mani improvvisamente madide di sudore.
Ma la stanza di Proust è anche, come quella di Emily e di Virginia, il luogo misterioso e sacro della scrittura. Egli, infatti, comincia a scrivere il suo poderoso romanzo, costretto a casa dalla malattia; per lui: “non più viaggi, non più visite, non più cene, non più incontri con amici, presto nemmeno più lettura”; Marcel sembra posseduto da un demone e “con una volontà ferma, mascherata dalle più gentili e ipocrite scuse, costruiva lo spazio vuoto, che l’opera avrebbe dovuto colmare” (P. Citati, Corriere della Sera, 25 maggio 1983).
Poco a poco il lavoro lievita fino a raggiungere un ritmo convulso che giunge al suo apice nel 1909, quando per sessanta ore non viene mai spenta la luce, lassù, nella stanza di Marcel in boulevard Haussmann. Poi continua con lo stesso ritmo in un’umida stanzetta presa in affitto presso il Gran Hotel di Cabourg: “Stava sempre rinchiuso; sembra che raggiungesse il casinó attraverso un passaggio interno; non gli importava più vedere il mare” (P. Citati; ibidem).
Ah, tutta quella luce di Balbec, quei cieli lampeggianti, “le colate bluastre della marea nascente”, ricordati, adesso, con le belle fanciulle ridenti e gli sguardi e la vita, perché tutto sia più intenso, perché il presente sia identico al passato, a ciò che già per la sua così prossima lontananza è diventato sogno!
Torna a Parigi, poi, e continua a scrivere, poiché l’opera cresce e non cessa di avanzare oltre la sua stessa volontà, fermata soltanto dalla morte del suo autore, che vi ha specchiato il suo io troppo vasto di sogni, di passioni, di saperi. E, infatti, Marcel ne “La prigioniera” parla con straordinaria competenza di pittura, di musica, di antiquariato, di stoffe, di profumi, di metafisica e di tutto ciò che è ineffabile, e dal quale sgorga ogni atto creativo, come egli scrive: “quest’ineffabile che differenzia qualitativamente ciò che ciascuno ha sentito e che è obbligato a lasciare sulla soglia delle frasi con le quali può comunicare agli altri, solo limitandosi a punti esteriori comuni a tutti e senza interesse, non è forse l’arte, l’arte di un Vinteuil come quella di un Elstir, che lo fa apparire, esteriorizzando nei colori dello spettro la composizione intima di quei mondi che chiamiamo gli individui, e che, senza l’arte, non conosceremmo mai?”.
Non è forse quello che cercavano Françoise-Xavier de Maistre, Emily Dickinson, Virginia Woolf, quello che cerchiamo tutti, quando traffichiamo con le parole come se fossero le merci più preziose del nostro esistere?
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