Pubblicato il 08/09/2008 11:03:48
Deposito SIAE n° 2008003757
SILENTIUM
Esistono storie che per la loro intrinseca natura possono essere narrate soltanto con parole che assumono significati misteriosi e terribili. Tale qualità delle parole non è pertanto riconducibile al puro significato delle stesse, al loro suono o alla combinazione delle loro concatenazioni, ma risulta appunto una caratteristica secondaria, derivata dalla essenza profonda della storia che raccontano, indipendentemente dal loro numero, dalla loro foggia o nobiltà. Indissolubilmente legate alla storia le parole vivono tuttavia autonomamente, ricevendo da questa il soffio vitale di mille storie in una sola. Tale è la vicenda che vado a narrare, pura cronaca della sventura di un animo che solo il caso ha voluto spezzare prima della sua completa realizzazione. Già, perchè se mai esistette uno spirito più vicino alla felicità nella storia del genere umano, quello fu il mio. Unico rampollo di una famiglia non meno nobile che ricca, fin dalla più tenera età educato al disprezzo delle cose divine e alla cinica e spietata cura di quelle umane e quanto mai terrene, vissi libero e spensierato e soprattutto, immune dal germe del rimorso. Utilizzai il titolo e il denaro per salire i gradini sociali senza concedere nulla alla pietà o alla compassione. Distrussi i miei nemici e soggiogai gli amici, senza dare o aspettarmi riconoscenza. Blandendo se necessario, disprezzando sempre, travolsi come un uragano gli ostacoli morali che al più abietto pure talvolta si pongono, elevandomi così al di sopra degli uomini nella ricerca del grado più basso di degenerazione morale e assurgendo pertanto a loro modello. Non ricorsi mai all'omicidio se non strettamente necessario, troppo volgare e in verità pericoloso mi appariva tale metodo, più vaste e sicure erano le innumerevoli strategie che il semplice ricorso a cavilli burocratici e sapienti corruzioni consentiva di adottare, con risultati spesso di gran lunga superiori. Tuttavia, nel caso dei miei anziani zii, superstiti oltre a me, di una schiatta famosa per il culto dell'eccesso quanto per la brevità della vita, non mi restava altra scelta. L'attesa si era protratta anche troppo, l'assoluta padronanza dei capitali liquidi e la completa gestione delle proprietà mi era indispensabile per la realizzazione dei miei progetti. Una dose appropriata di veleno risolse il problema principale, un vecchio medico di famiglia - scellerato ubriacone più ingenuo che incapace- e il suo certificato di morte naturale, fecero il resto. La strada era aperta, il mio potere crebbe a dismisura, il mio genio non conosceva ostacoli. Più temuto che odiato, divenni il punto di riferimento per qualsiasi genere di affare commerciale e diplomatico che coinvolgesse gli interessi del paese. Inebriato dal successo trascorsi anni felici, ricco di tutto ciò che un uomo può desiderare: potere e gloria. Ma un male oscuro e misterioso mi colpì. E conobbi il terrore. Ancora oggi nel pensarci, quasi mi fa sorridere il modo assolutamente gratuito con il quale la mia dannazione ebbe inizio; voglio dire, forse non necessario in quel preciso momento, proprio in quell'istante; ma è evidente che misteri insondabili come questo non possono essere svelati. Fu nel bel mezzo di un concerto, nel corso di un ricevimento del conte du Blois, circa un mese fa. Come al solito il salone delle feste era gremito delle personalità più in vista del momento ed io, comodamente adagiato nella poltrona di velluto verde sistemata nell'angolo opposto a quello dell'orchestra a discreta distanza dal resto della platea,ero immerso nella più pura contemplazione dell'andamento dei miei affari durante la giornata, porgendo purtuttavia graziosamente un orecchio alla musica, sublime in verità, che giungeva dall'estremità della sala.Il mio sguardo vagava tra i mille decori della fine tappezzeria, scivolava tra le sinuosità dei preziosi stucchi del soffitto e scendendo, attraverso i mille riflessi argentei dei fastosi lampadari, si avvolgeva , fantasticando, tra le buffe espressioni degli altri convitati che, in parte seduti e in parte in piedi , seguivano con blando interesse i virtuosismi orchestrali. Notai così, con perfido divertimento la sofferenza del marchese de Banville, visibilmente annoiato e decrepito, il ridicolo contegno della contessa de Beaumont più grassa che simpatica, come sempre, la lievità di sua nipote mademoiselle Delphine, graziosa e maliziosa, che non disdegnò di lanciarmi un'occhiata di traverso, non so definire se più sfacciata che casualmente interrogante, nel rialzare lo sguardo dopo un rapido quanto discreto esame della punta del proprio delizioso piedino. Mi rivolsi quindi verso l'orgoglioso padrone di casa che, ignaro dei nobili vantaggi spirituali dell'arte musicale non era per questo all'oscuro dei più concreti vantaggi pratici che simili ricevimenti potevano offrire alle necessità del suo blasone. Mi trovavo, ormai sarà chiaro, in una di quelle disposizioni di spirito affatto eccezionali, durante le quali il nostro animo cattura avidamente le immagini e i suoni, li elabora e ne ricava emozioni, impressioni e soprattutto ragionamenti, che però non intaccano minimamente la capacità del nostro pensiero di fluire liberamente e ininterrottamente, così da non consentire che riflessione alcuna si fissi e coinvolga totalmente il nostro intelletto. Ero per l'appunto così languidamente impegnato, quando un suono, anzi un rumore come l'esplosione di mille gole di mille demoni urlanti mi lacerò il cervello. Chiusi istintivamente gli occhi e mi voltai di scatto verso l'orchestra. Nessuno sembrava essersi accorto di niente, i musicisti proseguivano indisturbati e il pubblico ascoltava, assolutamente indifferente a quel rumore che vibrò terribile, per una frazione di secondo, nella sala.Osservai ancora attentamente l'orchestra, ne ero sicuro ma volli accertarmene meglio, nessuno strumento a percussione, tamburi, timpani o triangoli, era visibile; mi voltai allora verso il grande tavolo riccamente imbandito e circondato da camerieri immobili ed impettiti. Nessun piatto o vassoio era caduto in terra. Meccanicamente guardai la pendola di ebano in fondo alla sala. Era ferma, un vezzo del vecchio conte, per il quale la musica mal si accordava, così diceva, con i rintocchi del vile tempo, per questo bloccava il grande orologio ogni volta che offriva un ricevimento musicale. Eppure quel suono l'avevo udito, non poteva essere la mia immaginazione, non sono un tipo sensibile o emotivo. Quel suono era reale; forse, mi dicevo, anche gli altri lo avevano udito e avevano semplicemente deciso di ignorarlo, di sicuro era così, essendo stato molto breve non era necessario dargli importanza come avevo fatto io. Decisi quindi di interessarmi esclusivamente alla musica quando improvvisamente udii ancora uno strano rumore. Una successione di deboli tonfi appena percettibile. Una percussione mi dissi, qualcuno sta battendo il tempo con il piede probabilmente. Era un suono sordo, ovattato, ritmico, anzi, erano due suoni uno più basso e lungo e, dopo una brevissima pausa un secondo suono più alto e breve. Si trattava chiaramente di qualcuno che dava il tempo, uno dei musicisti forse, ma loro potevo osservarli bene, nessuno batteva il tempo. Qualcuno del pubblico allora, cercai con puntiglio di individuare un qualsiasi movimento, un minimo spostamento, ma niente, non riuscivo a scorgere nulla e quel rumore mio Dio, era assurdo! Era fuori tempo! Chi poteva continuare a battere così e perchè il suo vicino non lo invitava a smettere? Nessuno sembrava consapevole di tutto questo.Sentii una goccia di sudore cadere dalla fronte e meccanicamente la seguii nel suo percorso a terra poichè ero piegato in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia, la vidi infrangersi in mille altre goccioline sul marmo del pavimento quando un movimento laterale attrasse la mia attenzione. Un brivido misto a soddisfazione mi congelò un istante e seppure avessi capito immediatamente esitai, quasi pregustando la semplice spiegazione che in modo più articolato la mia ragione esigeva. Il piede! Il mio piede si alzava e si abbassava ritmicamente e produceva un rumore soffocato che solo io potevo udire. Io stavo dando il tempo! Dovetti sforzarmi per fermare quella dannata appendice che sembrava dotata di vita propria e finalmente quel rumore cessò. Nel frattempo anche l'orchestra aveva smesso di suonare e il chiacchericcio misto allo stridore delle poltrone sul pavimento- strano come ora ricordi quei rumori così forti e rimbombanti - mi distrassero dal corso dei miei pensieri e mi riportarono alla realtà. Contrariamente alle mie abitudini decisi di andare subito a dormire, non mi sentivo bene infatti, un senso di nausea o meglio una sorta di vago malessere mi opprimeva, così mi recai rapidamente al mio palazzo. Non avevo sonno però,anzi, mi sentivo irrequieto, ansioso, una fastidiosa sensazione di privazione, volevo qualcosa. Mi sedetti in poltrona davanti al camino e sorseggiando il brandy fissai a lungo la fiamma residua della brace, rimasi diversi minuti in quello stato, fermo, immobile con lo sguardo fisso sul carbone ardente, in una sorta di inebetita beatitudine, un piacere che risiedeva unicamente nella più totale immobilità e nel tepore che mi avvolgeva. Come il mio corpo anche i miei pensieri si erano fermati, non pensavo, semplicemente stavo! Dubito che la mia volontà sarebbe riuscita a modificare quella situazione ma a un certo punto udii dei passi dietro di me. Dei suoni fievoli, attutiti, come di chi cammini con scarpe avvolte in panni pesanti, curiosamente costui si avvicinava a scatti: un primo passo seguito subito dopo da un altro, poi una leggera pausa e così via. Strano pensai, chi può essere? La servitù era a letto da un pezzo ormai e nessuno aveva suonato o bussato alla porta, tuttavia non riuscivo a distogliere lo sguardo dal camino mentre i passi si avvicinavano. Non pensai a un malfattore, non avevo paura, ma solo una vaga impressione, quasi il tenue fantasma di un ricordo che non affiora, ma , all'improvviso mi sentii obbligato a voltarmi di scatto! Nulla! Scrutai i vari angoli della stanza alla debole luce del fuoco ma non vidi altro che gli usuali oggetti proiettare lunghe ombre alle pareti. Eppure i passi continuavano. Accesi una lampada e mi affacciai sul corridoio. Nulla! Eppure i passi continuavano. Cominciai a girare per tutta la casa, entrai in ogni stanza, i servitori svegliati di soprassalto mi osservavano stupiti e assonnati mentre vagavo nelle tenebre cercando lo sconosciuto che a balzi si aggirava e che solo io sembravo udire. Infine i rumori si allontanarono. Ascoltai allora attentamente, al centro del salone rosso, immobile col capo reclinato leggermente di lato, il dileguarsi dei passi nell'ombra. Theodore, il mio cameriere, osò allora avvicinarsi e io stordito, mi feci portare a letto, bevvi una tisana e mi addormentai senza neppure rendermene conto. La mattina dopo mi sentivo decisamente meglio, dell'accaduto non serbavo che un impreciso ricordo, quasi fosse stato un sogno e non nego che per qualche istante lo pensai o volli pensarlo, ma lo sguardo preoccupato del mio cameriere mi riportò perfettamente allo strano comportamento della sera prima, quel mio agitarmi dietro a uno sconosciuto che solo io sentivo, quel rumore di passi che mi martellava le orecchie e che nessuno udiva e così mi sentii immediatamente di cattivo umore. Cacciai violentemente Theodore dalla stanza, mi vestii rapidamente e senza fare colazione mi recai da un medico, un famoso psichiatra il professor Feneon. Fui invitato ad accomodarmi in una sala d'aspetto perchè il professore, così mi dissero, era in quel momento impegnato in un importante consulto con altri luminari della materia ma che certo sarebbe tornato a momenti. Di sicuro pensai, questo è un segno del destino! Perchè mai infatti dovevo farmi deridere da costui per dei semplici disturbi attribuibili senz'altro alla estrema stanchezza del momento? Mi stavo comportando come una donnicciola, ridendo di me stesso tornai a casa e decisi di chiudere lì la faccenda. Nel pomeriggio mi fu portato un biglietto della contessa de Beaumont che mi invitava a un ricevimento presso la sua villa di campagna a Voves la settimana seguente. Risposi immediatamente, ero terribilmente annoiato in quel periodo e così non disdegnavo mai un ricevimento e poi l'idea di rivedere mademoiselle Delphine non mi dispiaceva; dopo aver scritto la risposta mi recai nel mio studio dove ripresi ad esaminare la contabilità delle mie proprietà. La settimana passò tranquilla e la mattina del giorno fissato per il ricevimento mi trovò sereno e forte come sempre. Mi stavo vestendo, e in piedi davanti allo specchio della mia stanza mi aggiustavo la cravatta quando all'improvviso sentii una fitta lancinante alla testa che mi fece barcollare. Mi appoggiai allo specchio, la cravatta cadde in terra e io mi inginocchiai, portai le mani alla testa, gli occhi serrati, le mascelle contratte. Il dolore rapidamente si attenuò e poi passò del tutto ma in sovrapposizione ecco ancora quel rumore di passi, sordo, attutito, ovattato, sempre uguale. Un primo leggero tonfo poi subito dopo un altro e quindi una pausa più lunga. Rimasi lì immobile, ginocchia a terra, gli occhi chiusi; cercavo di individuare la provenienza del suono ma non vi riuscivo, sembrava nella mia testa, ecco sì, sembrava provenire dalla mia testa ma ero certo che non poteva essere così, io non sono pazzo, quel rumore esisteva! Da quel momento non ho cessato di udirlo un solo attimo, imploravo un piccolo, insignificante momento di pace, resistere era impossibile. Sono ormai più di tre settimane che mi ossessiona senza requie, non me libero mai, giorno e notte, qualsiasi cosa faccia. Non sono più uscito dalla mia stanza, ho fatto imbottire le pareti, il soffitto e il pavimento. Quel rumore non sembra provenire dall'esterno. Hanno chiamato un medico, ho spiegato ciò che stava accadendo, egli ha blaterato qualcosa a proposito di un aneurisma. L'ho cacciato. Ormai la mia disperazione è al culmine. Ho tentato di allontanare quel battito zaffandomi le orecchie prima con del cotone poi con della cera molle. E' stato inutile. Anzi senza l'influenza dei rumori esterni, se pur deboli, quel suono si amplifica, diviene più netto e rimbomba rimbomba, rimbomba, come il rintocco gelido e solenne di una campana di ferro che suoni a lutto. E rintocca, sì, rintocca, rintocca, rintocca,come un perfido orologio che misura a ritroso quanto mi resta da vivere. La notte, il succedersi ritmico di questo orrido battito mi fa impazzire; lo stesso buio illumina il suono di questo lamento di morte che sembra trasformarsi in una risata meccanica come quella di un automa, ma che al contrario di questa non si attenua o scompare con l'esaurirsi della carica. E continua, Dio, continua. Ieri pensai pertanto di distruggere l'organo deputato a ricevere questi suoni. Non potevo fare altro; riscaldai un ferro lungo da calza fino alla fiamma rossa, lo feci raffreddare un poco e quindi lo infilai nel condotto uditivo arrivando fino al timpano. Il dolore fu violento e atroce, ma chiusi gli occhi e continuai, prima un orecchio poi l'altro, il sangue uscì a fiotti ma si arrestò quasi subito per il cauterizzarsi delle ferite. Certo, sarei stato sordo d'ora in poi ma ciò per me ormai, rappresentava la salvezza, avrei potuto vivere. Il dolore terribile che seguì la manovra di perforazione mi stordì, caddi a terra con le mani sulle orecchie e per un attimo, uno soltanto che non dimenticherò mai, ebbi la gioia, la furiosa gioia di non udire più quel battito e risi, risi convulsamente e della mia risata non udii altro che una vibrazione nel cranio. Mi alzai e mi diressi verso il bacile dell'acqua, mi lavai il viso, mi pettinai, mi cambiai la camicia. Tutto in un religiosissimo silenzio. Avevo vinto, il battito era scomparso. Mi specchiai, mi parlai , ma ancora una volta il movimento delle labbra fu accompagnato soltanto da vibrazioni confuse nella mia testa. Ciononostante capii cosa avevo detto: Silentium. Divina parola, dolce come un pomeriggio di primavera, lenta, solenne come un pendio di montagna e serena, serena come solo la morte può essere. Silentium ! Presi la brocca dell'acqua e la lasciai cadere a terra! Nessun rumore! Chissà, attirati dal frastuono, là, dietro la porta si trovavano i servitori, allarmati, che cercavano di chiamarmi, di aprire la porta, poichè io non rispondevo, sì, non potevo rispondere, perchè io non li avevo sentiti, io non sentivo più nulla ora! Nulla! Le mie previsioni erano esatte, infatti notai la maniglia della porta muoversi rapidamente sù e giù, proprio come se dall'altra parte qualcuno stesse cercando di aprirla. Sù e giù, e io non sentivo nulla! Ah! Ah! Ah! Non potevo sentire nulla ! Chissà, forse stavano anche battendo sulla porta. Battete, battete, io non posso........Rimasi paralizzato, fermo come una statua e osservavo, osservavo la maniglia muoversi sù e giù, poi osservavo la porta, si muoveva. I colpi pensai, i colpi la muovono ma io ora udivo quei colpi, dovevano essere ben forti quei colpi se anch'io potevo udirli. Urlai con quanto fiato avevo in gola, urlai di fermarsi, di non battere più . La maniglia si fermò, anche la porta si fermò, ma essi ancora battevano! Il battito era ricominciato, ritmico, sempre uguale, Un odioso battito sempre uguale che non voleva abbandonarmi. Portai le mani agli occhi e spinsi con forza, accecandomi, pensai puerilmente, forse non udrò più . E invece sentii, sentii una pulsazione netta, un rimbalzo sulle mie dita. Erano i bulbi oculari che si alzavano e si abbassavano, battevano e battevano e battevano con quel battito che mi perseguitava. Portai allora una mano al petto. Avevo capito. Ormai non ho scelta. Mi sono fatto portare tutto il necessario per estirparlo. Devo, devo farlo, devo impedirgli di battere ancora, quel rumore, quel battito, è il battito del mio cuore!
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