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La confessione di monsieur Laurent
Personaggi: Monsieur Laurens (alienato) Prof. Faucheret (Neurologo e alienista) Doct. Leclaire (assistente) Doct. Borgal (assistente) Doct. Tiquet (assistente)
La confessione di Monsieur Laurens Δίος έγκέφαλος (Antico detto)
Lettera
«Il fatto che io sia un divoratore di cadaveri non deve trarvi in inganno. » “ Bé, il giovanotto ha le idee chiare a quanto sembra, che ne pensate amici miei?” Il prof. Faucheret si rivolse ai commensali accompagnando le parole con un lungo sbuffo di fumo (il prof. Faucheret fumava sempre prima di cena, anche dopo in effetti e, a voler essere precisi non si privava di una fumatina tra una portata e l’altra, aiutava la digestione, diceva). Il dott. Leclaire non si fece pregare e raccolse l’invito alla discussione su questo caso a dir poco interessante. “ E’ evidente, lampante distorsione percettiva con rielaborazione dei contenuti sociali del fatto.” Il dott. Borgal già da tempo in leggera tensione per la tendenza al protagonismo del dott. Leclaire a questo punto esplose: “ Ma smettila di dire stupidaggini, il ragazzo è intelligente e il suo messaggio è molto più complesso di quanto tu possa pensare.” “Calma, calma” intervenne il prof. Faucheret, deliziato dalla possibilità che, come al solito si presentava in questi casi, di fare da supremo moderatore, un po’ perché in questo era un maestro, un bel po’ perché in effetti era lui il direttore della Clinica per Malattie mentali di W***** nel salotto della quale appunto ci troviamo ora e dove ci accingiamo ad assistere a una delle riunioni conviviali che lì si svolgono con cadenza più o meno regolare tra il personale medico della clinica: il prof. Faucheret appunto, eminente neurologo e psichiatra, decano della Facoltà di Medicina della Sorbonne, professore onorario della Ecole d’Anthropologie, responsabile clinico dell’Institut general de Psychologie e soprattutto massimo esperto in Francia delle devianze mentali a sfondo criminale. Il cattedratico, da tempo acerrimo oppositore delle teorie lombrosiane era un convinto assertore di una verità incontestabile, secondo il suo illuminato parere, e cioè che la pazzia può annidarsi in chiunque e che forse proprio in chiunque essa covi pazientemente, pronta ad uscir fuori appena le condizioni esterne lo consentano. Il prof. Faucheret dirigeva appunto la suddetta clinica, in una zona molto isolata della provincia parigina, protetta da una specie di fortificazione e dotata di un sistema di sorveglianza da far invidia alla Banca del Tesoro Nazionale. In questa sorta di castello inviolabile si studiavano i casi più singolari di follia criminale. Al prof. Faucheret e alla sua equipe stava proprio il compito di scoprire il perché di tanta singolarità, il perché della eccezionalità del caso. All’uopo il colloquio con il paziente rivestiva una particolare importanza, tutto andava chiarito nei minimi particolari, sia per ciò che attiene alle circostanze del fatto, sia per ciò che riguarda la vita privata del soggetto, cercando così di isolare quali fattori individuali e ambientali avessero poi condotto lo stesso alla realizzazione del gesto criminale e soprattutto, come abbiamo già detto, l’analisi comparata di questo fatto con altri simili risultava fondamentale per svelare l’origine della originalità, mi si perdoni il gioco di parole, del caso in questione. Per un compito tanto delicato il prof. Faucheret si avvaleva della collaborazione di tre preparati neurologi da lui personalmente selezionati nel corso degli anni di professione nell’Ospedale parigino di M*********: il dott. Leclaire e il dott. Borgal di cui abbiamo già fatto la conoscenza e infine il dott. Tiquet che, in verità più dotato da un punto di vista speculativo tendeva ad elaborare più a lungo le informazioni prima di esporre le proprie idee che spesso, peraltro, non riuscivano ad esprimere esattamente il contenuto di pensiero dal quale derivavano. Nel complesso il gruppo era affiatato per ciò che concerneva le usuali attività giornaliere, qualche screzio personale era d’altronde inevitabile, ma la diabolica abilità del prof. Faucheret stava proprio qui, i tre medici non erano altro che veri e propri ingranaggi di una macchina perfetta che Lui aveva creato, la sua capacità organizzativa era mirabile, egli sapeva sempre in quale ordine i tre subalterni dovessero esprimere le loro opinioni al fine di rendere funzionale ed operativo il risultato finale delle loro discussioni scientifiche. Lui, quasi come un grande direttore d’orchestra, con rapidi e a volte impercettibili movimenti e cenni del capo, mutamenti di espressione, aggrottamento di sopracciglia, movimenti “casuali” delle mani, dava il tempo, il ritmo, modulava la dinamica della discussione, esaltando ognuno nella sua parte e gratificandolo al momento giusto della corretta esecuzione con un semplice prolungarsi dello sguardo negli occhi. “ Calma” disse dunque il prof. Faucheret, “non siamo certo qui per litigare, il caso di cui dobbiamo discutere stasera è particolarmente interessante come voi tutti sapete. Il nostro sforzo sarà quello di raccogliere il maggior numero di informazioni da questa lettera che il giovane Laurens ci indirizza e che rappresenta il primo tentativo di seria comunicazione da che egli è qui. Inoltre non dimenticate che come al solito ci attende una deliziosa cenetta al termine della nostra disquisizione.” Un lampo malizioso attraversò lo sguardo del professore che si accinse così a continuare la lettura: - Aspettate, non ritraetevi, fermatevi un attimo con me. Ragioniamo vi dico! Perchè tanto accanimento, tanta ferocia? Ragioni profonde, condizioni irrinunciabili, variabili della natura contro cui è inutile ribellarsi vi saranno svelate e ciò che per voi ora è un mistero, un insondabile enigma scientifico, tutto ciò io dico, vi apparirà semplicemente un effetto, la logica conseguenza del concatenarsi di eventi che noi possiamo anche paventare o cercare di allontanare ma che inesorabilmente a noi si ripresenteranno senza tregua alcuna. Comprendere è allora la nostra unica arma. Leggi a noi solo parzialmente note ci governano, la Natura ci reclama, scappare è, ve ne renderete conto, inutile. “ Non ne dubito” intervenne improvvisamente il dott. Tiquet silenzioso fino a quel momento. Ciò causò un moto di sorpresa negli astanti sia per l’incredibile tempestività dell’intervento, fatto che lasciava presumere un processo mentale rapidissimo del dott. Tiquet (fatto a sua volta affatto inusuale), sia perché in effetti veniva da chiedersi a cosa si riferisse precisamente il dott. Tiquet o meglio di cosa egli non dubitasse con tanta certezza. Ma il volto scavato, la plumbea fissità degli occhi, l’assoluta mancanza di moto vitale non lasciavano presagire ulteriori chiarimenti così che il professor Faucheret dopo aver analizzato rapidamente tutto ciò proseguì quasi senza soluzione di continuità: Della mia famiglia non farò cenno. Giacchè l'Umanità mi considera figlio dell'Inferno, mostruoso genio di un seme impuro, allora che l'oblio mi ricopra, nero sudario di un orrore che è dell'Uomo e che gli uomini vogliono dimenticare. Così sia, in nome di Dio! Che io affondi e l'abisso della mia disgraziata esistenza inghiotta me e me soltanto ma non trascini in fondo coloro che mi hanno amato e che io ho amato. Non primo ma forse ultimo Prometeo, per troppo coraggio e generosità sarò perduto. La scelleratezza del mondo mi schianterà e io, non più uomo, ma abominevole massa cancrenosa da estirpare, per troppo Sapere,... morirò. La pausa che, con sapienza istrionica il prof. Faucheret introdusse a questo punto della lettura ebbe un indubitabile effetto. L’attenzione quasi ipnotica con la quale il dott. Leclaire e il dott. Borgal seguivano l’intensa lettura del professore fu subitaneamente interrotta ed essi si scossero con un brivido dalla gelida immobilità carica di tensione che li aveva avviluppati come una umida ragnatela. Trasportati, cullati dalla morbida voce del professor Faucheret, per lunghissimi secondi essi rinunciarono a capire ciò che avevano udito tale era il fascino di un racconto che si annunciava terribile ed ora, essi fissavano stolidamente il prodigioso narratore come bambini delusi dall’interrompersi di una favola desiderata al momento di coricarsi. Immune da tale suggestione onirica sembrava essere il dott. Tiquet che, con aria distratta giocherellava con i propri occhiali, sfilandoseli, osservandoli in controluce, mordicchiando le stanghette, ostentando in tutto ciò un’aria ora afflitta ora terribilmente annoiata, in poche parole profondamente impegnato in un corso di pensieri a lui solo noto e non collegato apparentemente al racconto del giovane criminale. Non sapremo mai se il professor Faucheret interruppe la lettura perché il ritmo o il filo narrativo lo richiedessero o piuttosto per l’irritazione che il contegno del dott. Tiquet, a dire il vero assolutamente inaccettabile in qualsiasi buon salotto del tempo, gli aveva provocato. Il fatto è che Egli non sembrava affatto irritato e quasi con melliflua dolcezza rivolse lo sguardo verso il dott. Tiquet, sguardo invero non pesante e non offeso come quello dei dottori Leclaire e Borgal che al contrario, ritennero il dott. Tiquet assolutamente responsabile dell’interruzione del racconto. Quest’ultimo curiosamente rispose subito alla sollecitazione : «Evidente» esclamò a suo modo, cioè sussurrando nel mentre di un lento volgere del capo. «Evidente cosa, di grazia? » lo esortò il dott. Borgal con malcelata quanto educata impazienza. «Tutto quanto» rispose freddamente il dott. Tiquet «Voglio dire, la tendenza a giustificarsi o meglio a non giustificarsi che è così tipica nei delinquenti di questo genere». L’apparente incongruenza di un tale discorso non impedì al prof. Faucheret di festeggiare il fiume di parole che in una volta sola aveva visto la luce dai sotterranei corsi dell’animo in genere insondabile del dott. Tiquet. Così Egli versò nei bicchieri di tutti dell’ottimo vino ma, deciso a non mollare l’osso, con sottile ferocia chiese ulteriori lumi. « Intendo dire» continuò il dott. Tiquet « che la tendenza a giustificarsi, peraltro comprensibile in qualsiasi criminale, qui raggiunga un livello sublime e che quindi subisca la trasformazione nel suo contrario, cioè nella DECISA INTENZIONE DI PRESENTARE I FATTI COME NATURALI! E perciò legittimi». «A me sembra che questo sia proprio ciò che si definisce una giustificazione» incalzò impietoso il dott. Leclaire. Il dott. Tiquet sembrò accusare il colpo ma insospettabilmente riprese con energia: « E’ vero, ma solo in apparenza. Ciò che il nostro ragazzo vuole dire è di una sottigliezza estrema. Tutti i criminali tendono a giustificarsi ma in che modo vi chiedo! Il ladro dirà che ha rubato per sfamarsi, l’assassino che ha dovuto difendersi, ma tutti, vi dico tutti si pongono di fronte a noi, i giudici, in una posizione precisa: essi sanno, senza dubbio, di aver commesso una azione criminosa contro la legge degli uomini e forse anche contro la legge di Dio, essi cercano di spiegarci come tra le varie scelte di fronte alle quali sono stati loro malgrado posti, una sola si presentò alla loro mente come possibile ma! Si badi bene! In quella precisa circostanza e per quel determinato evento. In altre parole signori, essi avrebbero voluto, così almeno dicono, non agire così e a ciò, a ciò soltanto può essere affidata la comprensione del giudice, cioè degli uomini ma soprattutto la comprensione e il perdono di Dio. Essi non si sentono in realtà immorali a causa dei loro crimini, perché VI SONO STATI COSTRETTI! ». “ Bè ” decise di interrompere il prof. Faucheret, “ mi sembra che inizialmente sia proprio questa la posizione del giovanotto, egli si sente naturalmente, costretto!” “ Sì “ intervenne il dott. Borgal “ egli parla, se ben ricordo di del concatenarsi di eventi”. “Egli dice questo” riprese con vigore il dott. Tiquet “ ma non parla di questo”. La battuta, indubbiamente ad effetto ammutolì il dott. Borgal così che il dott. Tiquet potè continuare:” Gli eventi di cui parla il ragazzo sono qualcosa di più che semplici circostanze, egli intende qualcosa di profondamente diverso, egli afferma che la sua è stata una scelta naturale, intendendo con ciò dettata dalla struttura stessa della sua essenza e, pertanto non più una scelta di quanto si scelga di venire al mondo con i capelli chiari o scuri. Insomma, egli giustifica se stesso in nome di Dio e non per modo di dire. La Natura, cioè Dio ha creato lui così ma in realtà va oltre, si spinge ad affermare che non solo la sua natura, ma la stessa natura umana sia così! E se non fosse per l’inesorabile processo di degenerazione che affligge la razza umana, il suo comportamento sarebbe perfettamente comprensibile, accettato e condiviso, vorrei dire inevitabilmente condiviso poiché non esisterebbero alternative.” “ Capisco” disse il prof. Faucheret “lei sostiene una sorta di ideologia religiosa; certi schemi di comportamento sono giusti perché dettati dalla Natura cioè da Dio. Così come non si può condannare un lupo che sbrana un agnello. La differenza sta nel processo culturale umano che ha preso, secondo il nostro ospite, un indirizzo sbagliato, degenere, così che agli uomini, o meglio subuomini, appare essere lui il mostro.” “ Esattamente” riprese il dott. Tiquet, osservato con meraviglia dai dottori Borgal e Leclaire che, prima stupiti poi incuriositi cercavano a fatica di inserirsi in tale elegante livello di conversazione. “ Egli” continuò Tiquet “ vorrebbe dare un messaggio agli uomini come se solo lui avesse il possesso della verità, confondendo malamente filosofia e religione”. “ Non capisco” non potè trattenersi stavolta il dott. Leclaire “ la religione si fonda su principi filosofici e il giovane sembra altresì coerente, non è certo la prima volta che sento parlare di religioni naturali che esortano a vivere secondo Natura. La stessa religione cristiana…..” “No, mio caro amico” lo interruppe bruscamente Tiquet “ il nostro giovane criminale, è evidente, è di provata fede cristiana e, come tutti i cristiani e i religiosi in genere crede di seguire dei principi naturali identificando Dio e Natura nel più abominevole connubio mai ideato”. “ Tuttavia c’è chi vede Dio proprio nelle manifestazioni naturali, Vita inclusa, mi pare” precisò con fare sornione il prof. Faucheret “ Certo” replicò Tiquet che, apparentemente non subodorò minimamente la provocazione, “ ed è questa la base di tutti i crimini religiosi della storia umana. Si è identificato l’effetto con la causa nella maggior parte dei casi, consentendo l’affermarsi di un crimine logico come la discendenza di una forza assolutamente imperfetta - la Natura - da un ente assolutamente perfetto come Dio”. “ La Natura forza imperfetta?” quasi gridò il dott. Leclaire. “ Dio un mistificatore!” replicò asciutto il dott. Borgal. “ Sì” precisò Tiquet, “ la Natura sperimenta fallimenti da miliardi di anni e si dimostra perfetta così come lo furono gli ingegneri egiziani che schiacciarono migliaia di vite per costruire enormi mucchi di pietre ora sepolte dalla sabbia e inaccessibili come un salvadanaio di un bambino. La Natura è feroce, crudele in ogni sua manifestazione. La Morte non conta, Essa è eterna e può permettersi di produrre aborti e mostri di ogni genere per un fine che al singolo è totalmente estraneo e fonte solo di acute sofferenze; a questa ferocia siamo così abituati che neanche più la riconosciamo e, osservandola, ancora ci stupiamo e ci crediamo partecipi come scienziati dei segreti di Dio, ma Dio” e qui si rivolse al dott. Borgal che ebbe un brivido “ Dio non c’entra nulla con la Natura, semmai Dio, con tutte le sue buone intenzioni è sconfitto dalla Natura che imperterrita va avanti nel suo tremendo lavoro e se davvero Dio l’ha creata, si è dimostrato perlomeno poco accorto per non dire indifferente. E’ ciò, devo dire, toglie ai miei occhi ogni presupposto di perfezione a un Dio. Da cosa perfetta non potrebbe derivare cosa imperfetta e solo l’equilibrio tra forze opposte può garantire la neutralità. Insomma signori, è chiaro che ciò che gli uomini si sono ostinati a chiamare Diavolo non è altri che la Natura stessa!” Ancora una volta, come un pesante sipario il silenzio si abbattè sui convitati. Un leggero ma tagliente spiffero di morte pervadeva la stanza. Forse, “libri che non si lasciavano leggere” erano stati aperti. Indubitabilmente soddisfatto il prof. Faucheret continuò: Non ricordo molto della mia infanzia e perciò ne deduco di non aver sofferto. Persi molto presto i miei genitori e fui quindi affidato insieme a mia sorella Henriette, alle amorevoli cure dei miei zii paterni. Della casa in cui ebbi a crescere negli anni che per un fanciullo rappresentano la scoperta di un mondo meraviglioso che più tardi svanirà, in particolare ricordo il giardino. Era questo un giardino all'inglese, progettato e realizzato secondo il gusto di un geniale architetto che per lunghi anni aveva prestato la sua opera presso nobili famiglie orientali. Invero da quei luoghi aveva tratto libera ispirazione per l'associazione di concetti diversi, fusi e separati in un continuo girotondo di ambienti ricchi e dimessi, terrificanti e rassicuranti, tenebrosi e accecanti, estrema ma inevitabile necessità di ribadire che la Vita e la Morte si affrontano ogni giorno, da sempre e per sempre nel mondo che noi conosciamo e in quello del quale non abbiamo che una flebile intuizione. Viali che si perdevano in dedali opprimenti e senza fine ma che poi si aprivano d'improvviso in gentili figurazioni floreali il cui profumo rapiva, avvolgeva e stordiva fino a doverne fuggire. E allora il cammino era agevolato da dolci pendii per un viale solitario mentre d'intorno aspre rocce e intricati rovi sbarravano altre vie per il ritorno. E sornione il viale conduceva a una casina termale in cima a un colle artificiale, ristoro assicurato. Ma no! Morbosa, la curiosità vi avrebbe spinto ad esplorare la grotta che ai piedi del colle appena si intravvedeva ma che pure era impossibile non vedere. Allora avreste potuto constatare voi stessi in quell'ambiente di fiaba, come angoscia e gioia, terrore e serenità possano sgorgare da una unica fonte, nello stesso momento e rimanere sensazioni distinte senza possibilità alcuna di confusione. Il Caos che genera le differenze, estremi che tali non sono o non sembrano essere, il Segreto forse. In questo giardino appunto trascorrevo gran parte della mia giornata, affascinato com'ero dall'eccitante inseguirsi di intuizioni che continue si affacciavano alla mia mente senza dimorarvi abbastanza però, per potersi trasformare in pensiero concreto, in esperienza tangibile. A ciò contribuivano chiaramente le mille folli invenzioni del giardino, le visuali, le false costruzioni, indistinguibili dalle vere fino al momento di entrarvi, i percorsi profumati che avrebbero consentito di percorrere completamente il giardino anche ad occhi bendati ma che pure ad occhi bene aperti non mancavano di lasciare (oh! era difficile accorgersene!) una traccia nel cervello e forse un segno nell'anima. “ Mi scusi professore” intervenne a questo punto il dott. Leclaire, “ credo che con ciò possiamo dire addio ad ogni tentativo di spiegare il comportamento criminale con esperienze negative nell’infanzia. E’ abbastanza chiaro che l’infanzia del sig. Laurens è stata tutto sommato migliore della media dei delinquenti e assassini che noi ben conosciamo.” “ Si è vero” replico il prof. Faucheret, “ molte teorie sul comportamento criminale tendono ad enfatizzare le esperienze infantili di tipo negativo, tuttavia è esperienza comune riscontrare nei ricordi dei soggetti una esistenza normale e tranquilla durante i primi anni di vita. Penso comunque che ciò che accade in quel periodo e anche oltre verso l’adolescenza sia senza dubbio fondamentale per la formazione psichica dell’individuo e che un episodio, pur con valenza non evidentemente negativa, possa condizionare lo sviluppo emotivo portando poi di fatto a un comportamento criminale.” “Ciò toglie ogni possibilità di prevedere il comportamento futuro di un individuo” precisò a questo punto il dott. Leclaire “ E’ vero” continuò il prof. Faucheret, “ in effetti le componenti di un comportamento sono molteplici e, a loro volta, ognuna ha radici lontane e molto ramificate. Aggiungerei che le radici in questione sono anche molto robuste e difficili da recidere, come forse la lettura di questa lettera potrà confermarci”.
Riflessioni sulla Vita (o sulla Morte?)
Tuttavia i miei lunghi vagabondaggi nei misteri del giardino lasciavano in me le emozioni più profonde e durature quando grazie al mio occhio allenato e alla distrazione dei giardinieri scoprivo nel mezzo del viale o dietro un cespuglio la carcassa di un passerotto caduto dal nido oppure i resti di un leprotto sbranato dai cani. Già! Perché la Morte infatti, nella sua più spiacevole manifestazione, quella di un corpo senza vita, mi spaventava ma al tempo stesso, come Voi ben comprenderete, mi incuriosiva ferocemente. Un vero e proprio terrore però, misto a incomprensibile piacere, lo provavo se i resti degli animali che scoprivo avevano già iniziato i processi della putrefazione ed erano trasformati in un ammasso di materiale organico disfatto e vermicolante in cui le vestigia delle forme originarie seppure riconoscibili si confondevano nell'indefinitezza della disgregazione irreversibile. Era allora che il sentore di una intuizione definitiva mi tormentava. L'avevo e lo sapevo, sapevo anche cosa fosse ma al tempo stesso non la decifravo, non la vedevo, non l'udivo ma lei era là, urlava e si ergeva gigantesca proprio di fronte a me ma io, cieco e sordo, ero capace soltanto di muovere convulsamente le mani davanti a me, dietro di me, intorno a me. Ma nulla potevo, mi sfuggiva e gradualmente ma inesorabilmente si allontanava fino a sparire. Le mani ormai inutili andavano allora alla mia testa per lenire un dolore infinito e cadendo in ginocchio piangevo. Dolore, rabbia, gioia, terrore, sollievo. Per tutto ciò piangevo. Ma dove era il limite? Perché ciò che mi appariva così vicino neppure lo scorgevo? L’idea sempre più tormentosa che la fine fosse non-finita, e che la Morte stessa fosse non-finita e che in realtà si potesse concludere nella Vita in un vortice perciò infinito, mi ossessionava. Tutta questa indeterminatezza mi dicevo, origina dalla nostra limitatezza intellettuale ed io primo fra tutti ne sono vittima. In ciò né la filosofia, ne la scienza, né tanto meno la religione mi furono di alcun conforto. Non avevo bisogno di conclusioni logiche da premesse arbitrarie, né di dogmi senza premesse. Capite, io lambivo la verità ogni giorno. L’agile fantasma di un’idea senza forma albergava serenamente la mia mente e vi esplorava senza difficoltà bui anfratti che neanche io avrei tollerato di conoscere. Infine, estenuato e deluso da tanto infruttuoso pellegrinare, diressi la ricerca verso me stesso. La Vita dicevo, mi appartiene, alla Morte un giorno apparterrò. In me, quindi, devono risiedere gli elementi che possono consentirmi di comprendere la natura del fattore comune che unendole, separa alla nostra vista Morte e Vita. Il dott. Leclaire ritenne a questo punto di dover dire la sua: “ La disgustosa necrofilia latente del nostro paziente era evidentemente pronta ad esplodere in tutta la sua esclusività” Borgal: “ Perché definire disgustosa la necrofilia?” Leclaire: “ Come andrebbe definita allora?” Borgal:” Come un processo psichico patologico e incontrollabile” Leclaire:” Si, certo. Ma è un processo psichico patologico incontrollabile particolarmente disgustoso. La repulsione verso la Morte è affatto naturale!” Borgal: “ Perché parlare così della morte amico mio, è la vita il nostro cruccio, la nostra dannazione. Soffriamo quando viviamo non quando siamo morti.” Leclaire: “ Niente di più profondo da dire? E’ un luogo comune questo ma in realtà tutti in fondo la morte la temiamo e speriamo che ci venga a trovare più tardi possibile” Borgal: “ La profondità in effetti è uno strano concetto, difficile accorgersene quando si è già nel punto più basso” Leclaire: “ non ti permetto…” “ Calmi , calmi, cerchiamo di discutere tranquillamente” intervenne deciso il prof. Faucheret “ è una splendida serata, il profumo dell’aria è delizioso, siamo tra colleghi e amici e più tardi il cibo coronerà degnamente il nostro convivio” Borgal: “ Per l’appunto, il mio pensiero in effetti era alquanto più articolato. Parlavo di fatto, dell’articulo mortis, dell’ultimo momento, del finale barlume di luce prima del buio e del nulla. Di quegli istanti insomma che più temiamo perché più densi di sofferenza insopportabile resa tale dalla consapevolezza nostra o di chi ci sta vicino che la fine è arrivata. Drammatici momenti di lotta sublime ed eroica senza speranza di una vita che non si vuole arrendere, di quella vita che tanto amiamo ma che in questo caso si strappa le unghie per rimanere aggrappata a scogli taglienti e viscidi che offrono ingannevoli appigli. La morte in realtà se ne sta in disparte e aspetta un esito ormai inevitabile e non partecipa alla lotta. La vita lotta contro se stessa in quanto è la vita stessa che si esaurisce e non la morte che sottrae qualcosa ingiustamente.” Faucheret: “ Pensa allora che il nostro amico abbia sbagliato l’oggetto delle sue ricerche” Borgal: “ Sì in verità. Cercava di sconfiggere la morte, ma la morte non conquista nulla, è la vita che non sa mantenere se stessa, la morte non cerca nessuno e la vita prima o poi, le consegna tutti.” Faucheret: “ In effetti il possibile errore logico è il ritenere che la morte sia un processo attivo e come tale suscettibile di modificazione secondo leggi che non le appartengono quindi non applicabili al caso specifico. Tuttavia il mistero rimane grande, il moto infinito in assenza di attrito è legge e la morte potrebbe essere vista come somma di attriti al moto della vita ma forse in realtà la morte è solo la conseguente immobilità per causa di un privazione di energia del moto iniziale e ciò è incomprensibile.” Leclaire: “ Bè, non tanto incomprensibile, quando non si rifornisce di acqua qualsiasi macchinario a vapore questo si ferma.” Borgal: “ E’ vero ma ciò spiega solo perché quando non mangi muori ma non spiega perché si muore anche quando tutti i processi di rifornimento sembrano adeguati e gli organi funzionano, viceversa non spiega neanche perché la vita persiste anche quando tutto a livello organico sembra avverso.” Faucheret.: “ A proposito di rifornimento per quanto riguarda la nostra cena devo informarvi che non potremo iniziare prima delle 22.00 sembra che ci sia qualche piccolo problema in cucina.” Leclaire: “ il nostro paziente cucinava?” Faucheret: “ non saprei, continuiamo a leggere”
Rivelazioni
Ma i risultati delle mie riflessioni benchè profonde, impietose se non crudeli e tali da assorbire completamente il mio spirito, furono assai scarsi. Passavo gran parte della giornata e molte notti nella futile osservazione di corpi senza vita e cercavo, cercavo senza posa di capire. Capire. E aspettavo. Aspettavo che un brivido senza precedenti mi percuotesse l’anima e mi illuminasse un sentiero che, ne ero certo, avevo iniziato a percorrere ma purtroppo ancora non vedevo. Trattenete il sorriso! Quel magico giorno venne! E venne per Me! E il segreto fu mio! Ma prima, gli anni trascorsero inesorabili e le mie ricerche non conoscevano sosta. Non una branca del sapere filosofico, non una dottrina religiosa, non infine una teoria scientifica sfuggirono al terribile setaccio della mia mente il cui potere analitico, da tutti riconosciuto, incuteva ormai soltanto timore. Non vi era alcuno che considerassi degno della mia attenzione. Deboli e sciocchi mi apparivano gli altri, votati a futili cose e futili essi stessi, felici di rivoltarsi nella loro inconsapevolezza come porci nel fango e come questi destinati a giustificare la loro esistenza per le necessità di altri che forse non avrebbero mai visto. Ah! Signori, come può esser dura la ricerca della verità. Non che me ne dolessi ma i miei simili mi rifuggivano. Non avevo amici, non potevo avere maestri e d’altronde che vantaggio ne avrei tratto? In quanto ad esplorare la profondità dell’animo umano non è cosa che mi interessasse ormai. Perché rinunciare a meravigliarsi di un comportamento bizzarro? L’analisi dei processi mentali soffoca l’emozione dell’ignoto, è la rilettura di un libro riscritto a memoria, per quante variazioni ci possano essere rimane la noia di un testo senza novità. Fingiamo di non sapere il perché di un comportamento e ci troveremo in territori oscuri in preda a timori antichi! Quei pochi a cui rivelai la natura del mio Demone non capivano. Perché tanto affanno su problemi senza soluzione alcuni dicevano, “la verità?” Altri osavano affermare “Nostro Signore ci ha indicato la via, perché tanta ostinazione?” “La Scienza figlio mio, un giorno risponderà a ogni domanda ma i progressi dell’uomo a volte sono lenti!” altri sciocchi mi dicevano. Solo i miei zii invero con infinita pazienza, ascoltavano e annuivano. Annuivano ma per Dio non capivano. Essi semplicemente mi amavano e io amavo loro ma non era sufficiente e così la maggior parte delle volte le nostre discussioni terminavano con frasi rassicuranti e incitamenti a continuare, a continuare qualcosa di cui loro non avevano certo cognizione. Solo mia sorella Henriette mi era di conforto. Mirabile creatura, leggera e irreale. Ogni suo movimento era una creazione, il suono della sua voce era musica di un liuto mai costruito e il suo sorriso un profumo soave di fiori sconosciuti. Eravamo gemelli ma la somiglianza fisica, da tutti giudicata prodigiosa, esauriva l’elenco delle similitudini. Il mio cupo carattere, la mia ostinazione, le mie macabre ricerche nel giardino, nulla avevano a che fare con l’allegria e la spensieratezza di mia sorella Henriette. Ella giocava, cantava, suonava e danzava e in ciò era la sua vita. Credo che mai un triste pensiero rabbuiò il suo splendente volto né mai il dolore la sfiorò. Ella era la Vita e la gioia del vivere e tutti amavano mia sorella Henriette. Non parlai mai con lei di ciò che mi affliggeva né lei mi chiese mai nulla. Sembrava non accorgersi che lentamente mi consumavo in una ricerca che, lo ammetto, ormai sembrava vana. E così mi sorrideva, non parlava ma semplicemente mi sorrideva e io mi abbeveravo ai suoi sorrisi come a una fonte di verità giacchè, anche se può sembrar strano, mai come in quei momenti mi sembrava di cogliere frutti ignoti di piante antiche, frutti e piante che pure sapevo di conoscere da sempre. Non sarà necessario perciò descrivere lungamente lo stordimento e lo smarrimento che provai quando morì mia sorella Hernriette. La trovammo fredda e immota nel suo letto, di un pallore spettrale, la chiamammo, la scuotemmo, soffiammo aria nei suoi polmoni, ma gli occhi di mia sorella Henriette non si aprirono, il suo seno non si sollevò in respiri vitali e il suo polso si fermò. I miei zii e la servitù presi dalla disperazione decisero di chiamare un medico, sciocchi! Costui non trovò di meglio da fare che infiggere un grosso spillone nel petto di mia sorella Henriette per verificare, disse l’idiota, se il cuore fosse in grado di battere. Due robusti domestici mi trattennero a stento mentre con un urlo selvaggio cercavo di agguantare l’osceno cerusico per spiegargli con cura cosa avrei voluto fare con il suo spillone ma, non riuscii pienamente nel mio intento e il macellaio sfuggì alle mie mani. Ormai impietriti osservavamo mia sorella Henriette nel suo letto di morte. Allontanai tutti, non potevo tollerare altri affronti e mi inginocchiai accanto a lei e chiusi gli occhi. Rimasi così per ore, non so quante, infine con molta cautela i miei zii mi ricordarono che alcune cose necessariamente dovevano essere fatte. Trasportai il corpo di mia sorella Henriette nella cripta di famiglia e la stesi sul freddo ripiano di marmo, ancora mi inginocchiai accanto a lei e pretesi che fossimo lasciati soli. I pensieri ondeggiavano confusi nella mia mente. I volti dei miei zii, la danza di Henriette, la grotta nel giardino, nulla si fermava per più di una frazione di istante, un bagliore, il volto di Henriette, una fila di denti bianchissimi, il coniglio in disfacimento, ancora una fila di denti bianchissimi, ora brulicanti, ora rigidi, il coniglio in disfacimento, la grotta. Portai le mani alle tempie, i denti, in disfacimento, disfacimento, Morte, la danza, la voce, i vermi brulicanti, la Vita. Urlai, il cervello scoppiava, le ore passavano? La testa mi doleva, caddi a terra e urlai, un bagliore, un brivido, un lungo, infinito brivido mi scosse, capivo, sì, cominciavo a capire ma la testa, il dolore divenne insopportabile, insopportabile, insopportabile ma finalmente, finalmente….. avevo capito!- Fu così che divorai mia sorella Henriette.
Alienazione
Leclaire: “ l’idea di mangiare i cadaveri risulta orribile al senso comune, per vincere questa repulsione innata il disturbo mentale deve essere incredibilmente avanzato” Borgal: “ esistono però esempi di persone normali che per necessità hanno dovuto ricorrere al cannibalismo” Leclaire: “ è vero ma credo in fondo sia la stessa cosa, una situazione di necessità estrema può condurre alla pazzia e portare a non considerare come aberranti gesti o azioni che una persona sana di mente non potrebbe mai compiere” Faucheret.” credo che comunque sia molto diversa la situazione di chi deve cibarsi di cadaveri per necessità e chi invece senta un irresistibile impulso a farlo seppure cercando di razionalizzarlo come fa il nostro soggetto” Leclaire: “ la pazzia potrebbe intervenire solo momentaneamente e a livello altissimo, d’altronde anche per il nostro paziente è uno stato di necessità estremo, o almeno così la vede lui” Borgal: “ entrambe le posizioni sono in parte condivisibili, va detto però che è proprio il disperato tentativo di dare un senso ai suoi gesti che fa di Laurens un malato grave e dei dispersi nella giungla vittime di una situazione schiacciante” Leclaire: “ non capisco” Borgal: “ Laurens ha perso ogni contatto con la realtà, il desiderio di mangiare cadaveri lo possiede e lui, dopo aver cercato di resistere soccombe, ma non del tutto, cerca, come la sua potente mente analitica lo obbliga a fare, una spiegazione razionale e condiziona e sacrifica la sua vita a questo. Cerca qualcosa che intuisce ma che gli fa orrore, rifiuta il suo stato ma cede, infine trova una spiegazione plausibile che giustifica se stesso e la sua esistenza anzi rende se stesso indispensabile al genere umano. Solo così può esistere altrimenti è solo abisso!” Leclaire: “ anche i dispersi cercano di vivere” Faucheret: “vero, ma la loro abominevole azione non giustifica la loro esistenza, la conserva soltanto, inoltre essi giustificano l’atto non il principio che rimane intatto, di rifiuto verso tale pratica, non possono scegliere ma sanno cosa vorrebbero, Laurens decide di scegliere ciò che per lui è un obbligo” Borgal:” all’amore non pensate?” Leclaire: “Prego?” Borgal:”L’amore amico mio, sai quella terribile forza della natura che può rendere schiavi anche gli imperatori e che, a giudicare dalla tua espressione deve aver perso la strada per accedere al tuo cuore” Leclaire: “Forse credi di essere spiritoso ma continuo a non capire” Faucheret:” credo che l’osservazione del dott. Borgal sia invero molto acuta” Borgal:”Grazie professore, cercherò comunque di spiegarmi ancora meglio. L’estasi d’amore è uno dei rari momenti della vita in cui finalmente il puro e cristallino raziocinio può essere cancellato seppure per poco, il momento in cui a Dio piacendo l’uomo rientra nelle categorie tassonomiche a pieno titolo e non per affettazione scientifica. In quei momenti in realtà non è raro lasciarsi andare a pensieri vari e vaghi non ultimo uno strano impulso primordiale, una tensione esplosiva ed aggressiva che trasforma le percezioni, altera l’idea stessa di umanità, disgrega le strutture mentali così faticosamente assemblate dall’educazione e dalla cultura, nulla rimane, soltanto un desiderio, Il desiderio in realtà, l’ultimo, il definitivo. Resistere implica uno sforzo intollerabile, il bisogno è quasi doloroso come è doloroso resistere e allora il cervello si libera di un pesante fardello ed esplode nell’irrefrenabile voglia di mangiare l’altro. La fortuna è che questo desiderio viene immediatamente elaborato e probabilmente rimosso altrimenti ben poco rimarrebbe dopo un amplesso e molti amanti non potrebbero gioire dopo le fatiche amorose. Tuttavia credo sia veramente una esperienza comune nei rapporti intensi e la mia opinione e che tutto ciò abbia molto a che fare con l’idea di possesso” Faucheret:” sono perfettamente d’accordo e l’idea che i casi di cannibalismo siano da ricondurre a una distorsione del concetto di possesso andrebbe sviluppata in profondità in quanto credo sia una chiave di lettura non nuova antropologicamente parlando ma illuminante in psicopatologia Leclaire:”è vero, è interessante ma come si può conciliare il possesso con la distruzione dell’oggetto posseduto?” Faucheret:” Oggetto amico mio? Parlavamo di persone, ma anche questa distrazione mi sembra utile. Borgal:” in che modo?” Leclaire:” non capisco” Faucheret:” è semplice in verità. Forse la differenza tra antropologia e psico patologia è proprio racchiusa nella distrazione del dott. Leclaire. Ma andiamo con ordine: distruggere ciò che si possiede può essere anche interpretato come l’atto di supremo possesso, se possiedo totalmente posso permettermi di distruggere, inoltre se distruggo, nessun altro potrà mai possedere, nemmeno dopo la mia morte. Ma il punto più interessante è il secondo: l’oggetto. Se un aborigeno mangia il suo nemico sa di assimilare parti di una persona in quanto proprio questo è il suo obiettivo. Egli mangia il cuore del nemico perché così il coraggio, cioè una caratteristica emotiva e quindi umana, verrà posseduta. Ma ciò è legittimo in quella cultura, non ci sono tabù da superare e tutti i membri della comunità si attendono questo. Ma in una cultura moderna la situazione è ben diversa, in questo caso il cannibalismo è sublimato e del defunto si cercano gli oggetti personali come nel caso delle armature degli eroi Achei. Si trasferisce in pratica la qualità emotiva desiderata dalla carne agli oggetti e possedere oggetti non è tabù. Ma il pazzo cannibale della nostra società perde la strada ed effettua il processo inverso: rende oggetto la carne e possiede mangiando. Egli sublima il tabù e lo supera e tutto diviene, per lui, socialmente compatibile.” Borgal:” una sorta di involuzione sociale quindi” Leclaire:” un ritorno alle origini” Faucheret:” non proprio, non secondo questa chiave di lettura almeno. E’ in realtà una sorta di evoluzione sociale verso nuove regole, discutibili forse ma nuove di zecca. La depersonalizzazione del prossimo è tipica dell’assassino, oggettualizzare l’essere umano rende più accettabile uccidere e la stessa necessità di uccidere, un po’ come facciamo per la carne animale: è necessaria, per averla bisogna uccidere, l’animale non è un essere umano: possiamo uccidere e mangiare. Il nuovo ordine sociale oggettualizza indiscriminatamente e azzera di colpo tabù secolari. Ma continuiamo a leggere:
Altre rivelazioni
“Non fu semplice ma non voglio annoiarvi con troppi particolari. Basti dire che rispettai religiosamente il suo corpo, la svestii solo il necessario, non intaccai le sue belle membra, incisi solo il giusto e mangiai il cuore, il fegato e i reni, bevvi il sangue della milza e con abilità, sì, fui veramente abile, incisi il cuoio capelluto, segai il cranio e estrassi il cervello che consumai successivamente nella mia stanza. Potei così ricucire lo scalpo senza che nulla fosse visibile sotto la meravigliosa massa dei capelli. I vestiti si macchiarono certo di sangue, forse più del previsto. Infatti, inspiegabilmente, pur essendo mia sorella Henriette morta da più di un giorno, una volta praticata l’incisione sul petto la sua carne sanguinò per circa un minuto. Non so spiegare perché ma questo rese necessario coprire le vesti con un drappo funebre affinchè nessuno si accorgesse delle macchie. Alle illuminate menti di lor Signori non sfuggirà certo che ormai la mia annosa ricerca era terminata. Morte, Vita, solo nomi. Nomi che attribuiamo a fasi di un unico processo che circolarmente ci riporta allo stesso punto, punto che è origine e fine, fine e origine, solo nomi dunque! Io perpetuo mia sorella Hernriette, questa è la Via. Le parti infinitesime che ci compongono sono mattoni che possono essere utilizzati per altre costruzioni. Moltiplicate all’infinito questo processo e la Morte non avrà senso. Ma se la Morte non ha senso cos’è la Vita? Solo un nome! Non creiamo nulla di ciò che chiamiamo Vita ma rielaboriamo materiali che già esistono, sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Possiamo però evitare che queste parti si disperdano, possiamo cioè conservarle in noi e in ciò le rendiamo immortali. Capite ormai che il delitto che ho commesso non è un delitto, è una scoperta, è la Verità sull’esistenza dell’Uomo e gli uomini mi considerano un mostro. Ma cosa è un mostro se non una diversità? Ebbene è chiaro che non sono simile agli altri, l’ho sempre saputo del resto. Ma aspettarsi gratitudine forse sarebbe troppo, lo riconosco. I profeti conoscono cose che gli altri non sanno e fanno paura! Lucien Laurens
Finale?
La strana compagnia ebbe un brivido al termine della lettura del professor Faucheret. Il brivido o lieve sussulto emotivo che dir si voglia non sembrava in realtà provocato dalle parole stesse quanto da un sottile cambiamento della densità dell’aria. Un tenue, dolciastro profumo si insinuava dalle fessure della porta di comunicazione tra la sala e le cucine. Tutti i convitati si fermarono di colpo e all’unisono le loro teste si voltarono verso la porta che lentamente si apriva. Entrò Marie la cameriera e gli sguardi dei dottori si fissarono su di lei in trepida attesa, Marie non si fece pregare e pronunciò le parole che i signori dottori stavano aspettando: “Il signor Laurens è pronto.” Oh! Avreste avuto difficoltà a riconoscere menti tanto profonde e illuminate, medici onorati, luminari della materia in quella turba di esseri famelici che pur con compostezza e rigore ma con una malcelata frenesia animale letteralmente si gettò in sala da pranzo. Lì si arrestarono tutti di fronte alla tavola imbandita dove troneggiava un curioso vassoio coperto di lunghezza e larghezza inusitata, adatto forse a contenere un grosso cinghiale intero. Il professor Faucheret fu il primo a riprendersi e assumendo un contegno a dire il vero un tantino affettato fece accomodare i suoi gentili ospiti intorno alla tavola posizionandosi di lato allo strano vassoio. Faucheret:” Signori finalmente a tavola, devo ammettere che le nostre discussioni hanno stimolato il mio appetito e sono lieto di condividere ancora una volta con voi un cibo tanto raffinato. Bisogna dire che il signor Laurens era andato un po’ fuori strada nel giustificare il suo operato e che eccessive elucubrazioni filosofiche sono assai ardue da riportare a teoremi scientifici ben precisi. Certo Noi possiamo capire ma non possiamo pretendere ciò dal resto del mondo, il signor Laurens deve rimanere agli occhi della comunità una eccezione, un alienato, un diverso, un esempio di mostruosità da evitare e possibilmente da isolare. Il ruolo della psichiatria in fondo è questo, rassicurare gli altri della propria sanità mentale esponendo gli esempi isolati di deviazione. Sarebbe veramente deplorevole divulgare segreti imbarazzanti come ad esempio il gusto inconfondibile, inimitabile e, con una parola: delizioso, della carne umana.” E a quelle parole il professor Faucheret. scoprì il vassoio e con la stessa eleganza che gli era propria nel linguaggio accademico cominciò a tagliare grossi pezzi di carne dal cadavere abbrustolito del signor Laurens che sicuramente immaginò qualcosa di diverso quando la mattina stessa fu invitato a cena dall’emerito cattedratico professor Faucheret.
Id: 241 Data: 25/09/2008 14:38:02
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Silentium
Deposito SIAE n° 2008003757
SILENTIUM
Esistono storie che per la loro intrinseca natura possono essere narrate soltanto con parole che assumono significati misteriosi e terribili. Tale qualità delle parole non è pertanto riconducibile al puro significato delle stesse, al loro suono o alla combinazione delle loro concatenazioni, ma risulta appunto una caratteristica secondaria, derivata dalla essenza profonda della storia che raccontano, indipendentemente dal loro numero, dalla loro foggia o nobiltà. Indissolubilmente legate alla storia le parole vivono tuttavia autonomamente, ricevendo da questa il soffio vitale di mille storie in una sola. Tale è la vicenda che vado a narrare, pura cronaca della sventura di un animo che solo il caso ha voluto spezzare prima della sua completa realizzazione. Già, perchè se mai esistette uno spirito più vicino alla felicità nella storia del genere umano, quello fu il mio. Unico rampollo di una famiglia non meno nobile che ricca, fin dalla più tenera età educato al disprezzo delle cose divine e alla cinica e spietata cura di quelle umane e quanto mai terrene, vissi libero e spensierato e soprattutto, immune dal germe del rimorso. Utilizzai il titolo e il denaro per salire i gradini sociali senza concedere nulla alla pietà o alla compassione. Distrussi i miei nemici e soggiogai gli amici, senza dare o aspettarmi riconoscenza. Blandendo se necessario, disprezzando sempre, travolsi come un uragano gli ostacoli morali che al più abietto pure talvolta si pongono, elevandomi così al di sopra degli uomini nella ricerca del grado più basso di degenerazione morale e assurgendo pertanto a loro modello. Non ricorsi mai all'omicidio se non strettamente necessario, troppo volgare e in verità pericoloso mi appariva tale metodo, più vaste e sicure erano le innumerevoli strategie che il semplice ricorso a cavilli burocratici e sapienti corruzioni consentiva di adottare, con risultati spesso di gran lunga superiori. Tuttavia, nel caso dei miei anziani zii, superstiti oltre a me, di una schiatta famosa per il culto dell'eccesso quanto per la brevità della vita, non mi restava altra scelta. L'attesa si era protratta anche troppo, l'assoluta padronanza dei capitali liquidi e la completa gestione delle proprietà mi era indispensabile per la realizzazione dei miei progetti. Una dose appropriata di veleno risolse il problema principale, un vecchio medico di famiglia - scellerato ubriacone più ingenuo che incapace- e il suo certificato di morte naturale, fecero il resto. La strada era aperta, il mio potere crebbe a dismisura, il mio genio non conosceva ostacoli. Più temuto che odiato, divenni il punto di riferimento per qualsiasi genere di affare commerciale e diplomatico che coinvolgesse gli interessi del paese. Inebriato dal successo trascorsi anni felici, ricco di tutto ciò che un uomo può desiderare: potere e gloria. Ma un male oscuro e misterioso mi colpì. E conobbi il terrore. Ancora oggi nel pensarci, quasi mi fa sorridere il modo assolutamente gratuito con il quale la mia dannazione ebbe inizio; voglio dire, forse non necessario in quel preciso momento, proprio in quell'istante; ma è evidente che misteri insondabili come questo non possono essere svelati. Fu nel bel mezzo di un concerto, nel corso di un ricevimento del conte du Blois, circa un mese fa. Come al solito il salone delle feste era gremito delle personalità più in vista del momento ed io, comodamente adagiato nella poltrona di velluto verde sistemata nell'angolo opposto a quello dell'orchestra a discreta distanza dal resto della platea,ero immerso nella più pura contemplazione dell'andamento dei miei affari durante la giornata, porgendo purtuttavia graziosamente un orecchio alla musica, sublime in verità, che giungeva dall'estremità della sala.Il mio sguardo vagava tra i mille decori della fine tappezzeria, scivolava tra le sinuosità dei preziosi stucchi del soffitto e scendendo, attraverso i mille riflessi argentei dei fastosi lampadari, si avvolgeva , fantasticando, tra le buffe espressioni degli altri convitati che, in parte seduti e in parte in piedi , seguivano con blando interesse i virtuosismi orchestrali. Notai così, con perfido divertimento la sofferenza del marchese de Banville, visibilmente annoiato e decrepito, il ridicolo contegno della contessa de Beaumont più grassa che simpatica, come sempre, la lievità di sua nipote mademoiselle Delphine, graziosa e maliziosa, che non disdegnò di lanciarmi un'occhiata di traverso, non so definire se più sfacciata che casualmente interrogante, nel rialzare lo sguardo dopo un rapido quanto discreto esame della punta del proprio delizioso piedino. Mi rivolsi quindi verso l'orgoglioso padrone di casa che, ignaro dei nobili vantaggi spirituali dell'arte musicale non era per questo all'oscuro dei più concreti vantaggi pratici che simili ricevimenti potevano offrire alle necessità del suo blasone. Mi trovavo, ormai sarà chiaro, in una di quelle disposizioni di spirito affatto eccezionali, durante le quali il nostro animo cattura avidamente le immagini e i suoni, li elabora e ne ricava emozioni, impressioni e soprattutto ragionamenti, che però non intaccano minimamente la capacità del nostro pensiero di fluire liberamente e ininterrottamente, così da non consentire che riflessione alcuna si fissi e coinvolga totalmente il nostro intelletto. Ero per l'appunto così languidamente impegnato, quando un suono, anzi un rumore come l'esplosione di mille gole di mille demoni urlanti mi lacerò il cervello. Chiusi istintivamente gli occhi e mi voltai di scatto verso l'orchestra. Nessuno sembrava essersi accorto di niente, i musicisti proseguivano indisturbati e il pubblico ascoltava, assolutamente indifferente a quel rumore che vibrò terribile, per una frazione di secondo, nella sala.Osservai ancora attentamente l'orchestra, ne ero sicuro ma volli accertarmene meglio, nessuno strumento a percussione, tamburi, timpani o triangoli, era visibile; mi voltai allora verso il grande tavolo riccamente imbandito e circondato da camerieri immobili ed impettiti. Nessun piatto o vassoio era caduto in terra. Meccanicamente guardai la pendola di ebano in fondo alla sala. Era ferma, un vezzo del vecchio conte, per il quale la musica mal si accordava, così diceva, con i rintocchi del vile tempo, per questo bloccava il grande orologio ogni volta che offriva un ricevimento musicale. Eppure quel suono l'avevo udito, non poteva essere la mia immaginazione, non sono un tipo sensibile o emotivo. Quel suono era reale; forse, mi dicevo, anche gli altri lo avevano udito e avevano semplicemente deciso di ignorarlo, di sicuro era così, essendo stato molto breve non era necessario dargli importanza come avevo fatto io. Decisi quindi di interessarmi esclusivamente alla musica quando improvvisamente udii ancora uno strano rumore. Una successione di deboli tonfi appena percettibile. Una percussione mi dissi, qualcuno sta battendo il tempo con il piede probabilmente. Era un suono sordo, ovattato, ritmico, anzi, erano due suoni uno più basso e lungo e, dopo una brevissima pausa un secondo suono più alto e breve. Si trattava chiaramente di qualcuno che dava il tempo, uno dei musicisti forse, ma loro potevo osservarli bene, nessuno batteva il tempo. Qualcuno del pubblico allora, cercai con puntiglio di individuare un qualsiasi movimento, un minimo spostamento, ma niente, non riuscivo a scorgere nulla e quel rumore mio Dio, era assurdo! Era fuori tempo! Chi poteva continuare a battere così e perchè il suo vicino non lo invitava a smettere? Nessuno sembrava consapevole di tutto questo.Sentii una goccia di sudore cadere dalla fronte e meccanicamente la seguii nel suo percorso a terra poichè ero piegato in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia, la vidi infrangersi in mille altre goccioline sul marmo del pavimento quando un movimento laterale attrasse la mia attenzione. Un brivido misto a soddisfazione mi congelò un istante e seppure avessi capito immediatamente esitai, quasi pregustando la semplice spiegazione che in modo più articolato la mia ragione esigeva. Il piede! Il mio piede si alzava e si abbassava ritmicamente e produceva un rumore soffocato che solo io potevo udire. Io stavo dando il tempo! Dovetti sforzarmi per fermare quella dannata appendice che sembrava dotata di vita propria e finalmente quel rumore cessò. Nel frattempo anche l'orchestra aveva smesso di suonare e il chiacchericcio misto allo stridore delle poltrone sul pavimento- strano come ora ricordi quei rumori così forti e rimbombanti - mi distrassero dal corso dei miei pensieri e mi riportarono alla realtà. Contrariamente alle mie abitudini decisi di andare subito a dormire, non mi sentivo bene infatti, un senso di nausea o meglio una sorta di vago malessere mi opprimeva, così mi recai rapidamente al mio palazzo. Non avevo sonno però,anzi, mi sentivo irrequieto, ansioso, una fastidiosa sensazione di privazione, volevo qualcosa. Mi sedetti in poltrona davanti al camino e sorseggiando il brandy fissai a lungo la fiamma residua della brace, rimasi diversi minuti in quello stato, fermo, immobile con lo sguardo fisso sul carbone ardente, in una sorta di inebetita beatitudine, un piacere che risiedeva unicamente nella più totale immobilità e nel tepore che mi avvolgeva. Come il mio corpo anche i miei pensieri si erano fermati, non pensavo, semplicemente stavo! Dubito che la mia volontà sarebbe riuscita a modificare quella situazione ma a un certo punto udii dei passi dietro di me. Dei suoni fievoli, attutiti, come di chi cammini con scarpe avvolte in panni pesanti, curiosamente costui si avvicinava a scatti: un primo passo seguito subito dopo da un altro, poi una leggera pausa e così via. Strano pensai, chi può essere? La servitù era a letto da un pezzo ormai e nessuno aveva suonato o bussato alla porta, tuttavia non riuscivo a distogliere lo sguardo dal camino mentre i passi si avvicinavano. Non pensai a un malfattore, non avevo paura, ma solo una vaga impressione, quasi il tenue fantasma di un ricordo che non affiora, ma , all'improvviso mi sentii obbligato a voltarmi di scatto! Nulla! Scrutai i vari angoli della stanza alla debole luce del fuoco ma non vidi altro che gli usuali oggetti proiettare lunghe ombre alle pareti. Eppure i passi continuavano. Accesi una lampada e mi affacciai sul corridoio. Nulla! Eppure i passi continuavano. Cominciai a girare per tutta la casa, entrai in ogni stanza, i servitori svegliati di soprassalto mi osservavano stupiti e assonnati mentre vagavo nelle tenebre cercando lo sconosciuto che a balzi si aggirava e che solo io sembravo udire. Infine i rumori si allontanarono. Ascoltai allora attentamente, al centro del salone rosso, immobile col capo reclinato leggermente di lato, il dileguarsi dei passi nell'ombra. Theodore, il mio cameriere, osò allora avvicinarsi e io stordito, mi feci portare a letto, bevvi una tisana e mi addormentai senza neppure rendermene conto. La mattina dopo mi sentivo decisamente meglio, dell'accaduto non serbavo che un impreciso ricordo, quasi fosse stato un sogno e non nego che per qualche istante lo pensai o volli pensarlo, ma lo sguardo preoccupato del mio cameriere mi riportò perfettamente allo strano comportamento della sera prima, quel mio agitarmi dietro a uno sconosciuto che solo io sentivo, quel rumore di passi che mi martellava le orecchie e che nessuno udiva e così mi sentii immediatamente di cattivo umore. Cacciai violentemente Theodore dalla stanza, mi vestii rapidamente e senza fare colazione mi recai da un medico, un famoso psichiatra il professor Feneon. Fui invitato ad accomodarmi in una sala d'aspetto perchè il professore, così mi dissero, era in quel momento impegnato in un importante consulto con altri luminari della materia ma che certo sarebbe tornato a momenti. Di sicuro pensai, questo è un segno del destino! Perchè mai infatti dovevo farmi deridere da costui per dei semplici disturbi attribuibili senz'altro alla estrema stanchezza del momento? Mi stavo comportando come una donnicciola, ridendo di me stesso tornai a casa e decisi di chiudere lì la faccenda. Nel pomeriggio mi fu portato un biglietto della contessa de Beaumont che mi invitava a un ricevimento presso la sua villa di campagna a Voves la settimana seguente. Risposi immediatamente, ero terribilmente annoiato in quel periodo e così non disdegnavo mai un ricevimento e poi l'idea di rivedere mademoiselle Delphine non mi dispiaceva; dopo aver scritto la risposta mi recai nel mio studio dove ripresi ad esaminare la contabilità delle mie proprietà. La settimana passò tranquilla e la mattina del giorno fissato per il ricevimento mi trovò sereno e forte come sempre. Mi stavo vestendo, e in piedi davanti allo specchio della mia stanza mi aggiustavo la cravatta quando all'improvviso sentii una fitta lancinante alla testa che mi fece barcollare. Mi appoggiai allo specchio, la cravatta cadde in terra e io mi inginocchiai, portai le mani alla testa, gli occhi serrati, le mascelle contratte. Il dolore rapidamente si attenuò e poi passò del tutto ma in sovrapposizione ecco ancora quel rumore di passi, sordo, attutito, ovattato, sempre uguale. Un primo leggero tonfo poi subito dopo un altro e quindi una pausa più lunga. Rimasi lì immobile, ginocchia a terra, gli occhi chiusi; cercavo di individuare la provenienza del suono ma non vi riuscivo, sembrava nella mia testa, ecco sì, sembrava provenire dalla mia testa ma ero certo che non poteva essere così, io non sono pazzo, quel rumore esisteva! Da quel momento non ho cessato di udirlo un solo attimo, imploravo un piccolo, insignificante momento di pace, resistere era impossibile. Sono ormai più di tre settimane che mi ossessiona senza requie, non me libero mai, giorno e notte, qualsiasi cosa faccia. Non sono più uscito dalla mia stanza, ho fatto imbottire le pareti, il soffitto e il pavimento. Quel rumore non sembra provenire dall'esterno. Hanno chiamato un medico, ho spiegato ciò che stava accadendo, egli ha blaterato qualcosa a proposito di un aneurisma. L'ho cacciato. Ormai la mia disperazione è al culmine. Ho tentato di allontanare quel battito zaffandomi le orecchie prima con del cotone poi con della cera molle. E' stato inutile. Anzi senza l'influenza dei rumori esterni, se pur deboli, quel suono si amplifica, diviene più netto e rimbomba rimbomba, rimbomba, come il rintocco gelido e solenne di una campana di ferro che suoni a lutto. E rintocca, sì, rintocca, rintocca, rintocca,come un perfido orologio che misura a ritroso quanto mi resta da vivere. La notte, il succedersi ritmico di questo orrido battito mi fa impazzire; lo stesso buio illumina il suono di questo lamento di morte che sembra trasformarsi in una risata meccanica come quella di un automa, ma che al contrario di questa non si attenua o scompare con l'esaurirsi della carica. E continua, Dio, continua. Ieri pensai pertanto di distruggere l'organo deputato a ricevere questi suoni. Non potevo fare altro; riscaldai un ferro lungo da calza fino alla fiamma rossa, lo feci raffreddare un poco e quindi lo infilai nel condotto uditivo arrivando fino al timpano. Il dolore fu violento e atroce, ma chiusi gli occhi e continuai, prima un orecchio poi l'altro, il sangue uscì a fiotti ma si arrestò quasi subito per il cauterizzarsi delle ferite. Certo, sarei stato sordo d'ora in poi ma ciò per me ormai, rappresentava la salvezza, avrei potuto vivere. Il dolore terribile che seguì la manovra di perforazione mi stordì, caddi a terra con le mani sulle orecchie e per un attimo, uno soltanto che non dimenticherò mai, ebbi la gioia, la furiosa gioia di non udire più quel battito e risi, risi convulsamente e della mia risata non udii altro che una vibrazione nel cranio. Mi alzai e mi diressi verso il bacile dell'acqua, mi lavai il viso, mi pettinai, mi cambiai la camicia. Tutto in un religiosissimo silenzio. Avevo vinto, il battito era scomparso. Mi specchiai, mi parlai , ma ancora una volta il movimento delle labbra fu accompagnato soltanto da vibrazioni confuse nella mia testa. Ciononostante capii cosa avevo detto: Silentium. Divina parola, dolce come un pomeriggio di primavera, lenta, solenne come un pendio di montagna e serena, serena come solo la morte può essere. Silentium ! Presi la brocca dell'acqua e la lasciai cadere a terra! Nessun rumore! Chissà, attirati dal frastuono, là, dietro la porta si trovavano i servitori, allarmati, che cercavano di chiamarmi, di aprire la porta, poichè io non rispondevo, sì, non potevo rispondere, perchè io non li avevo sentiti, io non sentivo più nulla ora! Nulla! Le mie previsioni erano esatte, infatti notai la maniglia della porta muoversi rapidamente sù e giù, proprio come se dall'altra parte qualcuno stesse cercando di aprirla. Sù e giù, e io non sentivo nulla! Ah! Ah! Ah! Non potevo sentire nulla ! Chissà, forse stavano anche battendo sulla porta. Battete, battete, io non posso........Rimasi paralizzato, fermo come una statua e osservavo, osservavo la maniglia muoversi sù e giù, poi osservavo la porta, si muoveva. I colpi pensai, i colpi la muovono ma io ora udivo quei colpi, dovevano essere ben forti quei colpi se anch'io potevo udirli. Urlai con quanto fiato avevo in gola, urlai di fermarsi, di non battere più . La maniglia si fermò, anche la porta si fermò, ma essi ancora battevano! Il battito era ricominciato, ritmico, sempre uguale, Un odioso battito sempre uguale che non voleva abbandonarmi. Portai le mani agli occhi e spinsi con forza, accecandomi, pensai puerilmente, forse non udrò più . E invece sentii, sentii una pulsazione netta, un rimbalzo sulle mie dita. Erano i bulbi oculari che si alzavano e si abbassavano, battevano e battevano e battevano con quel battito che mi perseguitava. Portai allora una mano al petto. Avevo capito. Ormai non ho scelta. Mi sono fatto portare tutto il necessario per estirparlo. Devo, devo farlo, devo impedirgli di battere ancora, quel rumore, quel battito, è il battito del mio cuore!
Id: 226 Data: 08/09/2008 11:03:48
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