(Dal diario di una casalinga)
7 Giugno 97, ore 10. Manca l’acqua e non c’è null’altro che possa fare in casa. E’ questa la libertà che corrisponde all’idea di Una stanza tutta per sé ?
La mia scrittura sa di museo, di foglie morte. Non riesce a riflettere la vita. Ma perché? E’ un problema di scrittura, o di vita che non è più dinamismo, ma pura proiezione mentale di qualcosa che ha luogo altrove?
Ho imparato a scrivere con difficoltà. Ricordo che a sei anni piangevo sui bastoncini e le asticelle che mi assegnavano a scuola come compito per casa. Proprio non mi riuscivano. Dovettero portarmi per mano, aiutarmi a tenere la matita nel modo giusto, poi a farla scorrere sul foglio, dall’alto verso il basso - attenta a non fare troppa pressione per non stracciarlo, il foglio - leggera, così da lasciare solo un piccolo solco grigio-bruno sul bianco immacolato. Per i bastoncini bisognava poi aggiungere la curvatura in alto. No, non così, da destra verso sinistra!... Per me, allora, un martirio, di cui ancora mi resta oscuro il senso.
In seguito, scrivere divenne per me una forma di vita, come sognare, come immaginare creature e luoghi diversi, da amare e da comprendere. (Cosa c’entrava, in tutto questo, il contare i gradini che salivo o scendevo, i passi che muovevo per tornare a casa?).
Scrivevo sulle copertine dei quaderni, sugli spazi bianchi dei libri, sui banchi di scuola. Scrivevo con caratteri piccolissimi per risparmiare la carta e prolungare la possibilità di scrivere ancora.
Ci fu anche un tempo in cui mangiavo la carta dei quaderni - mai un’altra. Mi nascondevo sotto il tavolo e masticavo i fogli per ammorbidirla, prima di ingoiarla. Si trattava sempre di fogli già scritti, quindi mangiavo insieme la carta e - con l’inchiostro - le parole che vi erano tracciate.
Il mio rapporto con la scrittura è nato quindi dal dolore e dalla difficoltà del fare concreto. Poi si è sviluppato all’insegna della clandestinità, come per un hobby colpevole, non foss’altro perché inutile sottrazione di energie alla fatica quotidiana del far-fronte alle necessità immediate.
Ma perché questa impressione di stantìo, quest’odore di muffa che emana dalla maggior parte delle cose che scrivo? Da dove viene quel senso di devitalizzato che caratterizza il mio modo di fare scrittura creativa ?
E’ questo il male oscuro che pesa sulla mia vocazione di scrittrice, che io avverto come autentica (se mai la parola ha avuto un senso) -, la quale prescinde da ogni ambizione di successo o di notorietà, ma che non può fare a meno di un qualche riconoscimento per potersi manifestare pienamente.
C’è un’impotenza creativa che si rivela nello stile: un impedimento da cui sembra nascere una percezione falsata della realtà. Come se un diaframma rendesse la mia immaginazione inerte e incapace di interagire con essa, per mettere il mondo in movimento. Ne deriva una visione estenuata delle cose, che appaiono smorte e statiche, perciò incapaci di produrre il dinamismo che caratterizza la vita dello spirito.
Da quale parte sia da attaccare l’ostacolo è la vera incognita da risolvere (ammesso che il saperlo basti di per sé ad abbatterne la resistenza).
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