Il mercoledì c'era l'appuntamento con la composizione di italiano. Le cose si svolgevano così. Si portava a scuola un quaderno a righe per la bella copia e qualche foglio per la brutta, si disponevano sul banco il nettapenne, la gomma, la matita e si controllava che il pennino fosse in ordine. Il capoclasse tirava fuori dall'armadio un vecchio vocabolario, lo appoggiava sulla cattedra e tutti aspettavamo l'inizio della lezione.
Quando la classe era al completo la maestra, che fino a quel momento era stata sulla porta a chiacchierare con la collega della classe vicina, saliva in cattedra e dettava il titolo. Non c'erano mai troppe sorprese. Si trattava di un argomento di cui avevamo parlato e discusso durante la settimana e ognuno di noi poteva scrivere qualcosa in proposito.
Una delle ultime settimane dell'anno però, la maestra si ammalò e venne sostituita da una supplente. Di lei ricordo che aveva un viso pallido, malaticcio ed una gonna nera così lunga che spazzava il pavimento. Si sedette in cattedra senza nemmeno guardarci, poggiò la borsetta sulla destra e chiese:
- Cosa fate il mercoledì?
- Tema, signora maestra - disse volenteroso il capoclasse.
- Composizione, quindi - ribatté lei, e dopo pochi secondi: - Bene, scrivete questo titolo: Vi spiego perché voglio bene alla mia mamma.
Seguì un silenzio imbarazzato. Poi il capoclasse disse: - Signora maestra, Lia e Giovanni non hanno più la mamma...
Lei non si scompose affatto e domandò: - E il papà l'avete tutti?
- Sì - disse il capoclasse.
- E allora scrivete: Vi spiego perché voglio bene al mio papà.
Dopo alcuni minuti di sconcerto qualcuno cominciò a scrivere; le compagne per prime, che brillavano sempre nella composizione e altri seguirono. Io invece rimasi completamente bloccato con la testa vuota come un guscio d'uovo dopo che qualcuno ne ha estratto il contenuto.
A differenza della maestra, che passava regolarmente tra i banchi e controllava, suggeriva, correggeva, distribuendo, se necessario, qualche ruvido scappellotto, la supplente se ne stava arroccata in cattedra a sfogliare una rivista di ricamo e cucito. Così rimasi per un'ora abbondante a fissare le ombre del soffitto succhiando il portapenne. Ero abbastanza sicuro di voler bene a mio padre, ma altrettanto sicuro di non saperne spiegare il motivo. Invidiavo i mie compagni che di motivi invece dovevano averne parecchi, visto che stavano riempiendo pagine su pagine senza dubbi o ripensamenti. Possibile che non avessi nulla da dire in proposito? Eppure era così e il foglio continuava a restare bianco. Alla fine mi decisi: urtai con il gomito il compagno di banco che aveva già a proprio favore un bottino di tre pagine fitte fitte. Silvano era talmente concentrato che non sentì il mio segnale e dovetti chiamarlo di nuovo. Mi guardò con aria trasognata e infastidita, come se l'avessi tirato giù a forza dall'empireo.
- Cosa c'è?
- Ma cosa stai scrivendo? - dissi con un groppo alla gola - dimmi qualcosa, perché non mi viene in mente niente!
Silvano capì che dovevo trovarmi in una situazione difficile e mise sotto il banco il braccio sinistro, con cui fino a quel momento aveva, per inveterata abitudine, "protetto" il suo lavoro, in modo che potessi dare una sbirciatina. Mi disse, coprendo le labbra con la mano: - Io ho detto che gli voglio bene perché lavora tutto il giorno per mantenere la famiglia, perché non mena mai mia madre, perché non si ubriaca... tutte cose così, insomma, ma non copiare troppo, perché altrimenti quella se ne accorge. E' facile! - E ripiombò nel suo slancio creativo.
Io rimasi interdetto: ubriacarsi? picchiare mia madre? non avevo mai pensato che potessero verificarsi situazioni del genere... chi poteva combinare cose simili? Volergli bene perché lavorava tutto il giorno? Mi sembrava che fosse del tutto normale per un uomo lavorare per mantenere la famiglia. C'erano dei padri che non lavoravano? Io non ne conoscevo, tutti i genitori dei miei compagni di scuola e dei miei amici lavoravano senza tanti problemi, non mi sembrava che fosse un motivo per volergli bene.
La campanella della supplente infine squillò, scotendomi da queste elucubrazioni. Il tempo era finito. Bisognava consegnare. Nel brusio che seguì, scostai per un attimo il capoclasse che aveva il compito di raccogliere i quaderni e scrissi: "Io voglio bene a mio papà perché è mio papa".
Alcuni giorni dopo la supplente ci consegnò i quaderni corretti. Quando giunse il mio turno disse: - Ecco qua uno che ha dormito due ore. Quattro meno! Il meno te lo sei guadagnato perché non sei capace nemmeno di scrivere in modo corretto la parola papà! - La supplente non si era certo risparmiata l'inchiostro rosso: l'errore era sottolineato più volte e il voto occupava tre quarti del foglio.
Poi, siccome le disgrazie non vengono mai da sole, disse che sarebbe stato bello far firmare il lavoro ai nostri genitori, perché capissero quanto gli volevamo bene. La proposta fu accolta con grande entusiasmo da buona parte della classe.
Tornato a casa pranzai ancor più velocemente del solito e mi dileguai nei prati vicini cercando di distrarmi, ma senza riuscirvi. Qualsiasi cosa vedessi, mi riportava lì, a quel quattro gigantesco che dovevo mostrare a mio padre. Mi pareva di aver ingoiato e dover portare in giro una croda di due chili. A cena fui silenziosissimo e distratto, tanto che la mamma mi chiese se mi sentivo bene.
Verso le nove, come ogni sera, mio padre disse: - E' ora di andare a letto, hai fatto la cartella per domani? - Come un sonnambulo mi alzai dalla sedia, mi avvicinai alla mensola su cui avevo appoggiato la cartella, tirai fuori il quaderno e glielo diedi dicendo: - C'è una cosa da firmare...
Avevo le labbra secche e pronunciai queste parole quasi piangendo.
- Di che si tratta? - disse lui curioso, e cominciò a sfogliare le pagine. Giunto al punto dolente, dopo un breve momento di sorpresa, la sua bocca si piegò in una smorfia che poteva essere anche un lieve sorriso e firmando disse: - Beh, anche io non avrei saputo dire molto di più.
Quella notte dormii profondamente.
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