Pubblicato il 10/06/2013 08:19:02
Non so quale felicità avremmo vissuto, o quale guancia avremmo offerto all'offesa se felicità c'è stata, se c'è stata offesa. Così lo scrivo, ne faccio segno, per capire come si spiega l'albero la potatura, il papavero lo strappo i bambini il tempo e lo spazio: - dove va la notte quando è giorno? - mezz'ora è tanto o poco? O come si spiega il vuoto degli esseri che ci stanno accanto come un'assenza o il senso irsuto della vita, il suo difficile che diventa facile quando cominci ad amare.
Basta additarci, basta l'ingratitudine l'aspettarci sempre un segno e non saperlo riconoscere non saperci segno. Dammi allora almeno la capacità di dirlo con parole conosciute, semplici, quotidiane come quando chiedo il pane o un bicchiere d'acqua, ma vanno bene pure parole un po' sbagliate come Damiano quando dice «pesa un chilometro». Dammi allora la capacità di tracciare piano, giorno dopo giorno, la mappa del tuo corpo e che sia come quando l'anima viene alla superfìcie e si distende sulla pelle.
L'inchiostro scorre e si rapprende come lava fa fertile il foglio fa anse all'ansia spicca il vuoto alle cornici ai cornicioni chiede la vertigine per il salto nel pieno della vita.
Non è che l'ombra del silenzio questa parola che irrompe e sgorga necessaria come tutto il bene che in questo momento è compiuto nel basso della terra e si misura ad altezza d'uomo.
Pregano per noi di materia imperfetta di sostanza sopraffatta, bisbigliano novene in una loro lingua d'inconciliabile verità. Pregano loro già stati loro scrocifissi dal mondo.
(tratte da "L'ospite indocile", Passigli editore 2012, http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/643-Lucianna-Argentino-Lospite-indocile.html)
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