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Nel paese di mio padre

di Eliana Petrizzi 

Proposta di Luc Laudja »

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Pubblicato il 14/11/2012 23:35:29

       Le erbe selvatiche raccolgono il vento, iniziando il passante alla legge schiva del luogo.
       Ci fermiamo ad una cappella lungo la strada, costruita da un brigante a colpi di scalpello. Dinanzi al cancello c’è scritto: ‘Non so pregare. Non so che cosa dire. Non ho niente da dare. Accendo una candela. Questa luce che brilla è la mia preghiera che continua mentre io me ne vado’.
       Seduto accanto al fuoco, mio padre si addormenta come uno che pensa. Dietro la porta , vedo il quadro che mia madre dipinse di mia nonna; una donna con le mani in grembo, appena curva. Nei colori dello sfondo, l’immutabilità di una certa ora serena.
       La mattina, lungo i vicoli, non si sente una voce né un suono che non sia quello del vento tra i tronchi della legna accatastata. Qui, appena arrivati, si vanno a salutare le comari. Si sosta un poco da ognuna; si accettano un dolce fatto in casa per l’occasione, qualche uovo fresco. Si parla della salute, dei figli emigrati a Torino o a Carpi e si passa avanti.
       Quando muore qualcuno, le anziane vanno a salutare come stanno in casa: con grembiuli neri e antichi gioielli d’oro. In fila l’una dietro l’altra, toccano la bara con un gesto breve delle dita, come si fa nell’acquasantiera.
       Il tempo si deve ai frutti della campagna, alla cura degli animali, alla recita dei rosari.
       A pranzo, si cucinano i frutti dei propri campi e delle stalle, sul fuoco del camino, col tempo che ci vuole. Ci si scambia qualche parola. Osservo così che il dialetto lucano ha la stessa forma di questa terra; parole arse, brevi e cocciute, così come quelle di mare, ricordando la risacca delle onde, hanno suoni trascinati e vocali lunghe. Si resta  a chiacchierare con un’onesta fierezza di come si è preparato quel piatto, della stagione, dei morti e di nuovo dei parenti lontani. Le ore passano anche senza fare niente. Ricordando l’inutile urgenza di ogni giorno, capisco che ci vuole più tempo a fare le cose di fretta che con calma. Passo il tempo egualmente distante dai fatti e dalla noia. Ondeggiano gli ulivi che muovono l’aria azzurra e il calmo respiro della valle. Le tovaglie stese si gonfiano nel vento del nord. Al tramonto, durante la processione di S. Rocco, la litania dei fedeli prosegue nel volo dei semi nel sole.
       Le mie mattine in Lucania erano un vasto impero di aria. Le nuvole del mattino si posavano sulla cima delle colline come il velo sulla fronte della Madonna. Il fico e il ciliegio, il grano e l’ulivo, i papaveri e le ginestre, la vite e le querce, il passero e il ramarro. I tuoni dell’estate erano il segno di qualcosa che accadeva da qualche altra parte, lontano da me.
       Le mani del vento alzavano onde di rondini e di cicale, di rose e di uva pésta, di bande e di Santi che si pregavano ogni sera. Il canto degli uccelli ricamava un merletto impenetrabile sul pulpito del gelso. La gioia era semplice come un anello di cotone: bastava un canto, del vino con la verdura, canzoni in cui erano gli uomini a cercare le donne.
       Domeniche di fervore  per l’arrivo dei parenti: le uova fresche regalate dalla vicina,  le crostate di frutta, le conversazioni sul tempo e sul lavoro, il vento tra gli alberi con un brusio di miele caldo. E poi la pioggia sulle stalle e sui fiori, l’argilla azzurra della sera, il tuono dei tamburi nell’aia.
       Pedalando in corsa verso il fondo valle, incontravo gli odori uniti di mille cose; il cacio di capra appena cagliato, il respiro tiepido dei nidi, i dolci appena sfornati, il vento attraverso le gole dei camini spenti, il sugo che borbottava piano, il recinto di fresco dipinto, i pini. Poche gocce di pioggia portavano il profumo di un animale che si era posato sul terreno e che poi era sparito, il tempo di voltare lo sguardo verso la calligrafia indaco dei monti.
In primavera, restavo seduta sotto il tiglio nella piccola piazza del paese. Un giardino di rose, la fanfara delle rondini appena nate, il fischio dei falchi sopra i tetti, il Padre Nostro della Messa in TV che migrava dalle finestre di tutte le case.
       Mio padre è morto: irraggiungibile, ciclo chiuso, pensiero impensabile. Ogni giorno la Natura mi dice: “Tutto al suo posto, tutto a suo tempo”. Per ogni cosa mi indica la direzione e l’esempio. Mi insegna l’armonia di ciò che è riunito, la febbre quieta dell’attenzione.
       Non bisogna mai tornare nei luoghi che ci videro felici. Oggi ho camminato per le strade della mia infanzia. Non un suono intorno. Poche anziane con le figlie nate vecchie accovacciate fuori i gradini delle case. L’unica cosa che conta qui è arrivare alla fine del giorno con pasti, bucati e mésse regolari.
       Percorro la strada che porta dove è nato mio padre. Le cose di ogni giorno camminano da sole. Vanno svelte, si incastrano perfettamente tra di loro. Funzionano. Ma c’è un occhio dall’alto che le osserva e che le vede ancora più piccole di quanto non siano: l’occhio del dolore trasparente ed immenso. Passano gli anni, ma resta immobile: cadavere che non si decompone, rovente sole buio al centro dell’universo.
       Ci sono cancellature che lasciano lèggere sempre un poco le parole negate. La morte no, nemmeno in trasparenza, alzando il foglio contro  luce, è possibile ritrovarle.
       Quando la Morte entra nella  vita, non è un vento che passa, un tanfo che esce, un rumore che smette. Al centro dei giorni si cambia il mobilio, si puliscono le lenzuola, si ripongono i panni del defunto. Si spazza dove l’occhio non vede. Ma resta un ristagno incurabile. Nel cambio di turno dal prima al dopo, anche gli oggetti cambiano pronuncia, perdono il tono fermo di quando chi amavamo ci era accanto; diventano rumori sordi, bruschi, stridenti come unghie sull’ardesia.
       Ad ogni sopralluogo della memoria, i ricordi pignorano quote di vita; il presente si sfibra mentre il passato si ingrossa, acqua dell’oramai che devasta al suo passaggio.
       A dispetto degli anni che passano e che pure avrebbero dovuto asciugarmi dall’ultimo incontro, incasso dentro l’urto di un mare ogni volta più denso.
       Veglio la grandiosa amarezza della vita che passa e che non incontrerò mai più. Eppure , ogni momento si salva. Può fidarsi di queste poche righe, del quadro che dipingerò, del mio esserci totalmente, fino alla prossima deriva.


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