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Il fantasy e le sue razze da un punto di vista simbolico

Argomento: Letteratura

di Andrea Pighin
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Pubblicato il 01/06/2018 09:46:21

Questa riflessione prende le mosse dalla lettura dell’interessante articolo di Luca Pappalardo, intitolato È tempo che il fantasy abbandoni le razze? (e che trovate qui, sul sito di N3rdcore).

Ci siamo così confrontati con gli antichi miti e con il significato che essi hanno avuto nel contesto di una società tradizionale, per poi analizzare come questa eredità sia stata recepita nel presente. In tal senso abbiamo seguito l’articolo di Pappalardo per proporre ulteriori sfumature al suo discorso.
In quanto al metodo, imposteremo il discorso non tanto in termini storici, quanto simbolici, altrimenti l’intero genere fantasy rischierebbe di perdere terreno rispetto alla realtà storica e sociale, con il rischio di subordinarsi ad essa. Al contrario, dal momento che riteniamo che il fantasy sia parte di un’eredità più antica (persino di origine sacrale), sosteniamo che quando esso sia cosciente del proprio passato e delle possibilità presenti, possa offrire utili contributi alla società stessa.
 
Partiamo con ordine, analizzando il concetto di “razza” espresso dalla cultura fantasy. Innanzitutto, qual è la distanza tra reale e immaginario? Esiste un peccato originale del genere o siamo noi ad aver frainteso quella differenziazione, ormai troppo legati a discorsi politicamente corretti? 
Il concetto di razza è una categoria che nel fantasy determina l’appartenenza a Uomini, Elfi, Orchi e via discorrendo. Che si tratti di un dogma – come suggerisce l’autore dell’articolo – è un fatto successivo: in origine non era ritenuto tale, poiché esisteva la coscienza di un’esistenza non solo in senso orizzontale, ma anche verticale. Questa origine era di tipo sacro e coinvolgeva la sfera spirituale.
 
Le dottrine sacre trasmesse oralmente hanno attraversato i secoli sotto due forme molto diverse: una forma sacerdotale, come quella conservata nella Bibbia o nei Veda, e una forma popolare rimasta orale fino ai nostri giorni e che si esprime nei racconti e nei miti, questi simboli incompresi. I contenuti delle leggende non sono, come si crede, favole infantili, ma un insieme di dati di natura dottrinale che celano la saggezza delle età antiche sotto una favola preservata, dalla sua stessa oscurità, da ogni deformazione. Queste narrazioni non provengono, come ipotizza una teoria di moda, da un inconscio collettivo, ma costituiscono una memoria ancestrale, una sovramemoria, si potrebbe dire, poiché questa memoria immanente forma il residuo incompreso di una coscienza antica. (Luc Benoist, L’esoterismo, Luni Editrice, Milano, 2015, p. 36)
 
D’altra parte, in tutte le tradizioni si riconoscono temi iniziatici, che alludono soprattutto a qualcosa di nascosto (Benoist ricorda il soma degli indù, il sacro Graal, la Pietra Filosofale degli alchimisti e molto altro). L’eroe si mette in viaggio e può subire sfide e metamorfosi, di cui la più estrema è la morte, ma al contempo gli è concesso di interagire con il soprannaturale e di utilizzarlo come strumento.
«È facile costatare che ciò che invecchia in un’opera, ciò che appare datato, è la sua “psicologia”, troppo legata alla classe sociale, ai costumi del tempo e alla sua storia. Ciò che invece resiste e che dura è la sequenza dell’azione, cioè quella dei riti. La storia d’un uomo, il suo cammino e la sua caduta attraverso gli ostacoli sono il soggetto eterno dei racconti e dei romanzi». (Benoist, p. 38)
 
J. R. R. Tolkien non fu affatto estraneo a questa “ritualità” e a questo “codice” narrativo, tanto più che anche nell’àmbito della suddivisione per razze, viene definito come il punto di partenza simbolico da parte di Pappalardo. Lo scrittore britannico visse in effetti in un’epoca che era molto interessata ad indagare il legame tra biologia, fisiognomica e razza. Gli esempi sono molteplici: senza scomodare Cesare Lombroso, basti ricordare tra i tanti il cugino di Darwin, Francis Galton, che catalogò diversi ritratti fotografici nel vano tentativo di individuare gli elementi distintivi di un criminale.
Dunque, questo razzismo ritenuto scientifico non indagava solo razze diverse, ma persino individui all’interno di una stessa razza, con la conseguenza di aggiungere un’ulteriore discrimine nella società. Se tuttavia tale era il background, scrittori come Tolkien attinsero a modelli e categorie che avevano una ragione prescientifica.
 
Detto ciò, qual è l’obiettivo di questa categoria? Bisogna distinguere un prima e un dopo. E si può considerare l’Illuminismo come uno spartiacque storico.
Abbiamo quindi ricordato che l’origine di queste figure (Elfi, Nani, etc.) risieda nel mito e nel folklore, declinato in varie forme (fiaba, favola, ma anche in forme legate ad altri generi come la letteratura odeporica). Queste creature rappresentano evidentemente un mondo “altro” rispetto a quello umano, in cui è coinvolta soprattutto la magia.
Pappalardo cita a proposito lo scrittore e politico Joseph Addison, quando afferma che bisogna evitare di far parlare le fate come persone della specie umana, poiché è vero che questi esseri possiedono l’intelligenza, ma la applicano ad un altro contesto che non è umano. Era il 1712, l’Illuminismo doveva ancora affermarsi, ma la guerra civile inglese aveva posto le prime basi di una generale rivoluzione nel pensiero occidentale.
 
Quando l’Illuminismo si diffuse, si ritenne che la ragione avrebbe potuto vincere le tenebre dell’ignoranza e della superstizione, coinvolgendo troppo spesso in queste categorie fenomeni che erano tutt’altro che ridicole speculazioni primitive. Nel caso del mito e del folklore, si trattava di un sistema di codici, di segni e di significati, da rapportare non solo all’esistenza terrena, ma ai diversi piani dell’essere.
Tuttavia, nei secoli successivi, questa razionale distinzione ridusse le stesse “razze” soprannaturali a semplici metafore materiali, individuando in esse il nemico storico di turno.
Se è vero che nel fantasy magico e umano rientrano in un medesimo discorso, questo – aggiungeremo – avviene proprio perché (se non altro in origine) vi è la convinzione che oltre all’Uomo possano coesistere ulteriori manifestazioni dotate di intelligenza. E che queste, esprimendo diverse caratteristiche della manifestazione, agiscono non solo in modo diverso, maappaiono all’Uomo anche in forme diverse. In questo senso, la distinzione “fisica” è riflesso di una funzione e non di una banale appartenenza di genere, come può essere quella di razza in àmbito scientifico.
 
Giungiamo così ad affermare per vie diverse che il concetto fantastico di “razza” non esprime una divisione in sé, ma – se così si può dire – una distinzione di ordine “pratico”.
Certamente, rimane un problema di fondo, ovvero la particolare connotazione assunta dal termine “razza” all’indomani dell’ascesa del nazismo.
Ma – lo ribadiamo – nel fantasy questa distinzione esprime una caratteristica, una funzione particolare della manifestazione. Così, per esempio, otteniamo Nani dotati di maggiore forza, personificazione delle forze della terra, oppure Troll, simboli dell’aspetto selvaggio della natura.
L’Uomo, invece, appare spesso caratterizzato in una molteplicità di forme, ma questo risponde a due ragioni: da un lato, l’accesso diretto alla propria forma, che permette di coglierne più caratteri; dall’altro, il fatto che l’Uomo – quale essere centrale nella manifestazione – non possa che risultare al centro di un discorso particolare come quello del fantasy (questo sempre in linea generale).
 
Ad ogni modo, ritenendo che il mito e il folklore siano prima di tutto espressioni sacrali, siamo consapevoli che il fantasy – così come si è definito nell’ultimo secolo – sia stato circoscritto soprattutto all’espressione narrativa (nell’ampio senso a cui fa riferimento Pappalardo).
Ancora una volta, però, giungiamo a conclusioni in comune, pur partendo da strade diverse. Nel fantasy, le diverse razze – in base alla loro specifica funzione narrativa – partecipano come strumenti alla trasmissione di un messaggio, che riguarda tanto l’essere umano nello specifico quanto la manifestazione nel complesso. Riprendendo l’esempio di Tolkien e dei suoi protagonisti Hobbit, egli si allontana solo apparentemente dal proprio antropocentrismo. Gli Hobbit, infatti, sembrano declinare un’umanità edenica, “fuori dal mondo” e per questo così pura e sincera in tutti i suoi aspetti di vita. Non a caso vengono chiamati spesso in modo dispregiativo “mezzuomini”, rifacendosi appunto ad una categoria fisica, esteriore, che viene respinta dagli stessi Hobbit attraverso la bontà e la determinazione delle proprie azioni. Almeno in tal senso, essi fungono dunque da modello all’umanità coinvolta nella sfida tra bene e male.
 
In definitiva, nel fantasy non esiste alcun “peccato originale”, poiché il termine “razza” si rifà ad una distinzione che non ha nulla a che fare con la biologia e la scienza moderna. Mescolare questi due aspetti, al massimo, può essere l’errore.
L’unico vero limite di questo termine, dunque, sembra essere di ordine sociale. Dal momento che il fantasy è sempre più partecipe del mondo, questo stesso mondo tende a reificarlo. Tuttavia, sostituire quel termine con altri come “genere” e “etnia” vorrebbe dire confermare l’idea di un errore originario dal quale invece sarebbe bene distaccarsi. Se il pensiero scientifico dovesse egemonizzare anche l’àmbito del fantasy, allora si ridurrebbe ancora di più lo spazio per poter trattare, anche in forma ludica e non per forza esistenziale, del rapporto che l’Uomo ha non solo con i sensi, ma anche con l’immaginazione e l’intuizione.
 
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Questo articolo è tratto dal mio blog, La Voce d'Argento (qui).

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