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Morte di un’avara

di Teresa Nastri
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Pubblicato il 08/02/2014 17:42:59

morte di un’avara

(Appunti per un racconto)

 

 Parole che nessuno vuole ascoltare... o leggere, ma che lei – l’avara – non vuole gettare via, perché sono l’unica cosa di cui trabocca, una specie di energia cosmica che si dissolverebbe nell’aria, avvelenandola. Quell’energia a volte la riempie fino a soffocarla quasi, allora cade in una specie di delirio interiore, come per effetto di un’implosione. La chiamano depressione, ma questo è già il dopo, quando le ceneri hanno sedimentato e sono diventate un peso intollerabile e lei si chiede: ma che senso ha tutto questo... questa che chiamano vita è solo una tragiparodia, e quella massa di residui combusti le sale in gola, come un urlo soffocato. Ma chi sta soffocando realmente, è lei.

Oppure, ma accade sempre più di rado, spinta da un’altra forza che tenta di contrastare la prima, corre al piccolo tavolo su cui poggia la tastiera di un minuscolo PC, e comincia a vomitarle tutte quelle parole, sul piccolo schermo luminoso che se ne gonfia fino alla saturazione.... E lei le guarda mentre prendono forma, e a volte vorrebbe poterle toccare con mano e sistemarle in tondo, come una corona di fiori per il caro estinto. Oppure a forma di croce, ma non è possibile, sono loro stesse a decidere come collocarsi sul rettangolo bianco del foglio virtuale. E non che le riesca almeno di mettervi ordine, di farvi spazio fra una cartella e un file, perché quelle icone col titolo in vista lei cerca di tenerle insieme, stipate in un contenitore unico, per lasciare in ordine il desktop. Ma quella scrivania virtuale è subito diventata una proiezione dell’altra, quella di mogano inglese con la vernice sbiadita, dove cartelle raccoglitori e fogli sparsi, a volte strappati da un vecchio quaderno, si mescolano in modo scomposto, perché ogni tentativo di riordino finisce col rendere tutto più incasinato, dato che lo spazio è poco e i ritagli di tempo in cui può farlo sono troppo frammentati... No, virtuale o vero, quel luogo destinato a produrre e accogliere parole s’incasina da solo, cercando forse di aiutarla, più di quanto già fosse incasinata quella strana nicchia di mattoni e legno ch’era diventata la sua tana. 

 

Qualche volta però una terza fonte di energia riprende per un attimo vigore e lei corre al telefono. Quando la voce che risponde è quella che sperava di sentire, un diluvio verbale comincia a calare sul malcapitato. Scatta allora l’antica abilità di seduzione, perché tutto non finisca troppo presto, prima che il rigurgito dia luogo a un più pacato processo di metabolizzazione.

 

Tutto l’errare è intercalato da pause di riflessione sulla condizione esistenziale di chiunque sia portatore di un bisogno insaziato di spazio e tempo umano, ma di un’umanità che lei può solo immaginare, perché ancora ignota. Come un’immagine sognata di cui si è appena intravista la luce, ma che non si sa dove si trovi. Un bisogno che è nostalgia di luoghi e tempi diversi... più umani, appunto. Se non fosse che una elucubrazione fantastica, perché mai lei sentirebbe l’anima che brucia, sospesa su un oceano di silenzio...  Quel sentirsi altrove, nella desolazione di un dove senza orizzonti, la paralizza per lunghi tratti, come una malattia indomabile che le lascia qualche sprazzo di quiete solo perché la sua vulnerabilità non si assottigli troppo nell’abitudine alla sofferenza. Fin da bambina aveva sperimentato quell’essere dentro-fuori, esule volontaria o bandita, senza un posto legittimo nel mondo degli altri. Poi aveva letto degli artisti che soffrono un disagio simile al suo, e si era sentita artista. Ma cos’era allora l’artisticità? Un destino o una vocazione?

Domande che non aspettano risposte perché l’arte stessa è cosa diversa a seconda degli interessi di chi deve maneggiarla. Perdita dell’aura, qualcuno aveva detto... l’arte riproducibile. No, no! non era questo il problema. Ma che cosa realmente fosse lei non poteva saperlo... sapeva solo il sapore acre della solitudine e del silenzio agghiacciante...  e ne era pervasa, ed era stanca e senza più voglia né forza per pensare..

 

Poi ogni tanto riprendeva qualche foglio scritto – carta recuperata qui e là da vecchi quaderni o rubriche da buttare – e rileggeva le parole e le forme che lei vi aveva tracciato, e ne scopriva il senso, e si sorprendeva ogni volta perché non le riconosceva  più come sue.

Un tempo ricordava quasi tutto a memoria, quello che aveva scritto, senza doverlo rileggere e poteva ripeterselo nella mente e sentirvisi ancora a casa. Ora non più, e quando rileggeva quelle cose che le apparivano nuove si sentiva più esule e apolide, più sola che mai. Ma riflettendo per convincersi che solo lei poteva avere scritte quelle cose, su quei fogli, le sembrava di ritrovare la via di casa, solo che poi non vi giungeva mai. Proprio come le accadeva un tempo nei sogni  che tornavano di continuo... la via di casa c’era un istante e poi diventava un sentiero sconosciuto e per quanti sforzi facesse non ritrovava più quel tratto di familiarità rassicurante e la prendeva l’angoscia di una solitudine assoluta, in un mondo alieno e deserto... popolato solo da sassi bianchi.

 

Alla fine si dà fuoco nella piccola Fiat, con tutte le parole scritte (sue, ma  anche di altri, quelle che non era riuscita a leggere, o a capitalizzare), che non riesce a gettare semplicemente via come fossero nulla – o spazzatura da eliminare – lei che da piccola, alle elementari, mangiava la carta dei quaderni già scritti e conservava le parti bianche per potervi scrivere altre parole....

 

Aveva imparato a ruminare, parole e pensieri che nessuno sembrava interessato a ricevere. Prima fece l’esperienza del soliloquio, ma di essa conservava un ricordo chiaro e mutilo, isolato dal prima, dal processo che l’aveva portata a farla quell’esperienza. Si rivide per un attimo tra i 5 e i 6 anni, nella grande camera della nonna, sdraiata supina sul lettino nell’angolo opposto a quello dov’era il letto di lei, troppo alto per essere scalato da una bambina. Parlava ad alta voce guardando la tela del soffitto, con tanti disegni enigmatici e misteriosi, intonati al rosso antico – o porpora – delle mattonelle vietresi e della carta da parato che rivestiva tutto. Anche i disegni del pavimento e delle pareti erano coordinati tra loro e quella stanza le sembrava perciò importante e misteriosa. E lei guardava il soffitto e parlava ad alta voce. E mamma entrò e fece una strana faccia, ma non disse nulla. Solo pochi giorni dopo, quando incontrarono quella giovane toscana che faceva la cameriera dallabaronessa, la quale abitava l’appartamento  sul piano nobile, mamma disse che forse aveva fatto una figlia un po’ scema, perché parlava da sola. Che cosa avesse provato o pensato allora non lo sapeva, forse nulla. La mamma era la mamma e si doveva ascoltarla in silenzio, e quando si arrabbiava non bisognava neanche tentare di scappare per evitare le botte, o un’altra punizione; si doveva stare farmi e accettare ciò che decideva, e poi chiederle perdono... Ma lei non ricordava di avere mai parlato da sola, prima. In fondo, a pensarci bene, forse quell’intervento di mamma aveva fatto da collante per fissare il ricordo della circostanza monologante, che altrimenti avrebbe dimenticato.

 

Ora fluttuava per lo più su un “oceano di silenzio, in cui l’animo annega”, come aveva scritto in una vecchia poesia. E quando le capitava di incontrare qualcuno con cui poteva parlare, perché disposto all’ascolto e allo “scambio di esperienze” – come oggi con  Maria Luigia –  cominciava a parlare con foga e le parole le si affastellavano in gola costringendola spesso a ricominciare daccapo perché il suo eloquio risultasse coerente. Dopo si accorgeva di aver ritrovato energie che credeva perse per sempre, come se quel flusso a lungo represso le avesse assorbite, congelandole all’interno in tutto quel tempo. Ora si sentiva nuovamente in grado di riprendere i vecchi interessi e di liberare il tempo che le restava da vincoli e condizionamenti paralizzanti...

 

Il silenzio – si accorge che è diventato una condizione di esistenza che si manifesta anche nelle parole con cui la pensa quell’esistenza - per esempio in quelle poesie, delle poche che aveva scritto nel corso di mezzo secolo: A PPP ( “è rimasto di qua.. un più immane silenzio”), Ta-Tam (il dolore si perde... nell’oceano di silenzio in cui l’animo annega), Ascolta! (“come le mille parole senza suono che cadono.... nella voragine sorda del nostro silenzio)... Ma cosa significava tutto questo? che il silenzio le cresceva dentro come un’escrescenza morbosa e diventava parole, e se lei non poteva dirle doveva tentare di espellerle, attraverso la scrittura. Così la vita stessa, o quello che chiamano vita, a poco a poco si era trasformata in una ininterrotta rappresentazione simbolica, in cui convogliava ogni eccesso. Una sorta di metabolismo assimilava parte di ciò che quel processo produceva, il resto veniva rifiutato ed espulso come scorie dannose.

 

Ma quando era cominciato tutto? Ora si sentiva rimproverare anche i brevi occasionali lamenti per il dolore improvviso al pollice sinistro, all’anca che non le dava requie di notte – qualunque posizione assumesse...

Poi capì che anche lo stress le era diventato indispensabile, perché lei era cresciuta e si era costruita sullo sforzo di contenere le parole che le sorgevano dentro come fiotti impetuosi e che senza quella tensione continua la vita per lei sarebbe diventata una non-vita

 

“Adonde están las palabras ?”

ricordava ancora quel viso di ragazzo, la voce che bisbigliava quella frase mentre le sue mani sembravano carezzare non un corpo materialmente esteso, ma l’immateriale armonia dei vuoti e dei pieni che i polpastrelli curiosi si limitavano a sfiorare. Lei non osava allontanarli...

 

La qualità delle parole

Mettere una buona parola – dire una parola buona... ma che vuol dire ? ciò che è buono per te può non esserlo per un altro. Anche nella pratica della solidarietà, ciò che serve e che bisogna saper trovare è la parola giusta, non quella c.d. buona.

 

                                               ***********************

 

 

(ritrovato per caso il 4-1-2012, mentre cercavo un file appena chiuso, con testi di Rino Mele, ricopiate dal Calendario Gutenberg 2011  - Interrogato,  l’archivio di Finder, mi dice che è stato creato sabato 23 settembre 2006 alle 16.59)


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