Nell’inserto Tuttoscienze de La Stampa del 18 ottobre 2017 un articolo dal titolo “Mai scrivere “citolisi”. L’algoritmo segna in blu tutte le parole proibite” (1) presta una notizia alla riflessione sulla lingua della poesia.
Il tema è quello della comunicazione e della comprensibilità, per il pubblico di non addetti ai lavori, di argomenti e pubblicazioni a carattere tecnico-scientifico.
Con la premessa che un testo risulta comprensibile a non scienziati soltanto se il 95-98% delle singole parole suona familiare e con la finalità di guidare il ricercatore ad incontrare il lettore a metà strada tra un linguaggio specialistico ed un linguaggio di tutti i giorni, è stato creato un nuovo software, denominato De-Jargonizer in grado di segnalare agli autori di testi di argomento scientifico il livello di accessibilità per un pubblico comune. Sul sito (2) il nuovo software viene così presentato: De-Jargonizer, realizzato da professori e scienziati del Technion e dell’Holon Institute of Technology della Tel Aviv University, è attualmente disponibile per analizzare testi in inglese e in ebraico (non riesco ad evitare la battuta se in ebraico esistano parole non oscure…), e determinare il livello del vocabolario e dei termini del testo, attribuendo alle parole tre livelli:
- parole ad alta frequenza / comuni;
- parole poco frequenti / parole normali;
- termini gergali o tecnici.
Il De-Jargonizer mette in evidenza il gergo “problematico” in rosso, i termini poco frequenti in arancione, mentre il testo “comune” resta in nero. Ciò vuole permettere al divulgatore di valutare alternative meno potenzialmente oscure, utilizzando parole più familiari o di aggiungere spiegazioni.
È chiaro che parliamo di linguaggio altro (molto altro) rispetto a quello letterario e specificamente poetico. Superfluo insistere su questa premessa. Chiaro.
Però il tema è pur sempre quello sulla “comprensibilità” della lingua e l’indirizzo/scopo dell’algoritmo è quello di favorire la comprensione attraverso un passo verso il lettore/fruitore comune. Passo che potremmo chiamare, con punto interrogativo, abbassamento ?
Diventa curioso, stimolante, magari poco più che salottiero, ribaltare queste considerazioni sulla lingua poetica. Forse.
Potremmo così immaginarci insistite strie rosse nei versi del sanguinetiano Laborintus e costellazioni di grumi arancioni nella maggior parte della poesia ermetica o, più inessenziali, in tanta poesia amatoriale zeppa di arcaicismi, lirismi e aggettivazioni oblique e scimmiottamenti aulici? Tranquillamente procedere nel quieto e nero risultato di neorealisti, minimalisti e performatori di amorini (mi resta il dubbio del gergo strictu sensu e del torpiloquio...).
Io (che va sempre bene citarsi addosso, si dice) dovrei, ahimé, ma forse cogliendo opportunità di nuove comprensibilità, riscrivere quasi tutto, a cominciare da titoli inesistenti come Oltrelinee o Epimnesie, con cui rischio perfino di non ricordare cosa avrei voluto dire, se non me lo fossi segnato a margine.
Celia e (auto)ironia a parte, credo che il problema sia maledettamente serio.
Riassumibile nella datata, forse un po’ frusta, ma sempre riproponibile questione: “abbassare” il linguaggio, portarlo ovunque, “in strada” (ma poi, perché no?, nei tombini e oltre) o “resistere”, chiedere un passo (qualche passo) al lettore verso un linguaggio meno elementare, più ampio? “Resistere” avrebbe detto Montale. Non è che voglia qui aprire e affrontare questo tema fondamentale, la cui risposta è chiaramente già nei versi che ognuno scrive, ma il De-gergalizzatore mi ha incuriosito e, fatalmente, indotto a queste righe. Aperte e lietamente inutili.
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