Pubblicato il 02/11/2013 17:37:46
“Su, figlio mio, è ora di andare a scuola, schiodati dai libri!”, la voce della donna suonò squillante tra le pareti azzurrine di casa. Il ragazzino, che adorava studiare gli insetti , disse: "arrivo, mamma, un momentomologo". Il solito, pensò la madre che sempre più egli paragonava a una termite: per avere scelto quella palazzina sotterranea. La signora vestiva sempre di chiaro, tanto che il figlio la chiamava: Formica Bianca. Il ragazzo stava leggendo un libro sulla vita delle api... ma improvvisamente fu catapultato dentro a un alveare, fuco lui stesso. Non si riusciva a capacitare di essere diventato un giovane fuco, così da un momento all'altro... e poi pensò alla madre che, pur di strapparlo al libro, l'avrebbe, detto volgarmente... affucato! Ma lui già era tutto incravattato come un ronzante cicisbeo ansioso di convolare a nozze con la simpatica regina: “eh, niente male”, pensava, “se a primo colpo mi faccio una regina... bel colpo se me la faccio a primo colpo!” e a dispetto della sua volgarità diceva: “Ho un animo nobile anch'io”. E si lucidava le ali. Non mi interessa la classe delle operaie, ma in fin dei conti non sono poi così deplorevoli: se consideriamo che stanno lavorando enormemente per costruire le culle per i miei figli. No, non sono da disprezzare tanto. Anche le bottinatrici non sono da buttare: mi ingozzano di miele, si, decisamente: si meritano la mia stima. “Questa casetta esagonale sembra un capriccio di Borromini, complimenti a tutte voi, ragazze”, uscì da un triplo mento una voce che canzonava, suadente e sensuale, la dignità di tutte quelle creature che si affaccendavano per costruire posti letto per i figli del giovane fuco e ampolle di miele per nutrire i suoi lombi che tutti speravano utili. Ma lui scambiava tutto questo per affetto. Così si confidò con le guardiane del ritrovo " a Rio Api" che era una colonia di api in riva a un fiumicello. Disse loro, ironicamente: "sappiatevi guardare da altri fuchi, non sono tutti sinceri come me". Ed esse risposero che quella era la loro professione e Fuco si sentì un po' sciocco.
Fuco sognava il momento in cui avrebbe conquistato il cuore della sua regina e doveva prenotare un colpo di vento per salire in alto, in alto, dove l’aspettava la sua alcova celeste. Si diceva: “Ho preso amore a questo sogno”. Ma nessuno gli aveva detto che dopo il grande passo sarebbe morto. Come di regola. Quella notte infatti lui ridivenne un ragazzino e, come una macchia di colore che va precisandosi in un dipinto, lo circondò la sua stanzetta e sulle ginocchia il libro aperto lo induceva a informarsi, prima di decidere stelle e drammi sul suo futuro. A distendergli un sorriso felice sulle labbra era il fatto che, per i suoi doveri di fuco, in cui di lì a un’ora si sarebbe nuovamente mutato, non aveva l’obbligo di andare a scuola: poteva restare a sognare in quel mondo dove il primo bacio coincide con l’ultimo. E si chiedeva se era giusto immolare una vita per un unico volo azzurro. La sua sposa, piccola ape regina, in quel periodo stava nascendo alla bellezza, nutrita di tutte le delizie apposite per svilupparle l’illustre ruolo. Il ragazzino lanciò un’occhiataccia all’orologio a passo svelto verso il sacrificio: gli restavano pochi minuti per finire di leggere il libro e scoprire che fine avrebbe fatto una volta trasformato in fuco. Scoprì così con amarezza che fine lo attendeva, lui che aveva soltanto tredici anni… ma ormai era deciso che doveva assumere l’identità di amante della regina. Si disse: “avrei voluto costruire una vita lunga e felice, accanto alla persona amata... ed ecco che mi tocca barattare l’azzurro di un momento con un eterno nero”. Presto trasformato, si ritrovò dalle guardiane dell’Alveare. Una gli propose un indovinello per capire se era fatto per conquistare la regina o fuggire pauroso di ciò che di orrendo immensamente incombeva: un infinito buio dopo il più fulgido cielo. Gli disse: “fai l’anagramma di alveare”. E quello, battendo i denti, rispose: “a levare”. “Lo sapevo”, disse la guardiana. “Non dategli più miele, lo faremo morire in quell’angolo di inedia”. E l’ordine si sparse: detto in un ronzio cupo, la tragedia lo avvolse con un abbraccio mortale: compatte, le api, stavano attorno al fuco che disperava la dolcezza di quell’incontro che non sarebbe più stato. Ma fortunatamente riuscì a evadere e se doveva per forza morire, tanto valeva darsi alla sua regina. Ella intanto cresceva, viziata dalle carezze delle antenne delle sue amiche e dalle più squisite pietanze. Però, un giorno, accanto alla sua stanza stavano delle principessine che le rubavano il sapore del potere, difficile a farsi sputare via. Era minacciata dalla loro bellezza e dalla loro fecondità… La piccola Imenottera- questo era un ordine sia entomologico che un ordine di far festa: ovvero il suo fastoso e indimenticabile imeneo- si avvicinò alle piccole creature sbuffando tutta la sua disapprovazione e intonando una litania che lasciò le rivali immobilizzate, attonite dentro la sconfitta. Il piccolo fuco aspettava il giorno del banchetto nuziale con animo diviso: da una parte correva come tutti gli esseri verso la felicità, a cavallo del vento, e sopra le logiche della gente e di tutti gli esseri senz’ali; dall’altra sapeva che un passo dopo l’azzurro c’era l’abbraccio freddo dell’ignoto. Ma, quel fatidico giorno, solo i poeti, i bambini e tutti gli altri sognatori avrebbero sentito nelle vene le spire di vento dell’acutissima festa. Fuco, che era stato un ragazzino sognatore, si disse: “Sì, forse la vita è proprio questa: ridere con un amore e poi addormentarti per sempre... e chissà… forse un sogno abiterà il tuo sonno eterno, forse ci sarà anche lì un altro volo!” Poi pensò: “Beh, passiamo all’atto pratico: morirò quindi dopo averlo fatto non avrò sensi di colpa..” e si mise a ridere della sua stessa ironia, mai stata così cruda e dirimpettaia alla morte. Tutte le operaie gli facevano i complimenti, indovinando che il baldo giovanotto che avrebbe avuto quella fortuna sarebbe stato lui. Lui sorrideva a metà e diceva: “ssss….” “Perché dici questo”, ronzavano le ventilatrici, “vuoi dirci di star zitte?” “No”, ammise Fuco con la voce che da sensuale gli era diventata atterrita: “Volevo dire: ssssss/ fortuna!” “Ah”, fecero quelle, “e dove sta la tua virilità, bello?” E questi rispose, credendo di fregarle: “sono caldo anche ora, allora perché mi ventilate?” In coro quelle dissero: “Ma è la nostra professione, lavoriamo al miele, che c’entra la tua virilità e il tuo gradasso calore?” E Fuco si sentì, come prima con le guardiane, un’altra volta sciocco. Tutto era quasi pronto per strappare quella luce speciale al buio che attendeva, portando con sé il concetto tremendo del comunque… Ma il piccolo sposo disse a tutte le sue amiche: “non ho voglia di smembrarmi non appena finito l’incontro, non mi sembra la migliore delle prospettive… vorrei lasciare il mio cuore nel suo e non parti di regioni non guardate dal giorno nella sua borsetta detta spermateca dove s/permarranno per un po’ di tempo”. E le amichette dissero: “non hai amore per la specie?” E Fuco rispose, ricordandosi in realtà chi era: “io in realtà sono un artista, un ragazzo artista, e si sa che noi abbiamo altri tipi di figli, letterari… capite, amiche mie? Lavoriamo tutti quanti, io e voi, per il miele… io sono più simile a voi, mie dolci operaie, che alla regina o al fuco…” “Questi.. come si chiamano? Arti.. artisti”, fece una piccola ape, stanca, che non era tanto sofisticata visto il lavoro che faceva, “questi artisti si nutrono pure di miele?” “Sì. Noi ci nutriamo di miele e lo diamo, e spesso non abbiamo figli nel senso comune, ma c’è chi produce romanzi, chi poesie, chi quadri…” Così, dopo aver detto quella verità, il ragazzino ringraziò le bottinatrici di averlo rifornito di una marea di miele e, finalmente, d’amore sincero (dato il loro – del ragazzo-fuco e delle bottinatrici- commensalismo d’ideali) e di colpo, ma dolcemente come il ricordo del miele nella memoria e nei modi -che travalicavano il mondo delle api e lambivano di nuovo la sua stanza- si ritrovò con la testa sul libro, con la voce squillante -come le trombe della vittoria- della madre che lo chiamava per andare a scuola… E lui le disse allegro: “sai, mamma, stavo per avere dodicimila figli!” La madre lo guardò tenera, con allegria e picchiò scherzosa l’indice sulla tempia del bambino. Poi il piccolo si mise a saltellare e aprendo le braccia come a voler spiccare il volo disse: “Ero un fuco, ma preferisco essere un artista: posso vivere una vita più lunga e partorire figli letterari senza morire!” “Hai fantasia, ragazzo mio”, la madre disse, continuando il sorriso anche negli occhi. Ma a prova della verità il ragazzo tirò fuori dalle tasche quattro bottigliette di miele e gliene porse una: “Questa è per te, Formica Bianca!”
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