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L’Autobus Formidabile
Si vociferava in giro che per la città viaggiasse un Autobus Formidabile dove sperimentare la conoscenza di se stessi. Io li conoscevo tutti, gli autobus, e li amavo perché non disdegnavano mai di farmi brillare capelli e pensieri al sole. Mi incuriosì questo fatto di un autobus così... allora mi informai con un passante: "Scusi, signore, ne sa mica nulla dell'Autobus Formidabile?" Quello ebbe un attimo di piena trascendenza. Seguì un pensiero che era una passione. Poi mi aprì il sorriso, e uscirono le tanto attese parole: "scusi, se non ho risposto subito... ma, sa, chi ci ha viaggiato su, come me, ha tutto il fiato tolto dall'esperienza fatta". "Cosa ha questo autobus di così particolare?", domandai al signore che aveva ancora il fantastico viaggio così dolce negli occhi. Quello tentennò allegramente e disse: "ha presente gli altri autobus? sì, ecco, può capitare che facciano degli incidenti... o che potenzialmente potrebbero farne..." Io ascoltavo, ma non potevo dire di aver afferrato... Quello proseguì, e fu la cosa migliore: "questo certo Autobus Formidabile non solo non fa incidenti, ma fa controincidenti". "Non ne fa?" Quello si spazientì un po', ma poi, con un entusiasmo alato, disse: "non solo non ne fa... ma fa proprio il contrario: fa delle occasioni di consapevolezza, sulla strada degli incidenti percorsa da altri autobus". "Formidabile!", dissi io. E lui mi rispose: "Questo dicono tutti quelli che lo aspettano... aprono l'anima al formidabile! e poi niente ti può far male, la vita diventa...incantevole e non ci saranno più temporali, dopo!!" "E che si deve fare per prenderlo? e come lo si può riconoscere?" L'anziano signore disse: "E' facile, deve soltanto entusiasmarsi molto... a lei cosa piace tantissimo? “A me scrivere piace un mondo!!” “Lo sospettavo. Ha gli occhi che sembrano aver visto cose lontane… Allora deve chiudere gli occhi e sognare, sognare, sognare tanto!" "Ma se è così, con gli occhi chiusi non lo vedo, lo perdo". L'uomo disse: "no, è lui che ti aspira... e io sono felice che sia così.. ah, non dimenticare che per decidere la posizione sull'autobus devi metterti il cappello più verso destra. Almeno se sei come me... noi artisti abbiamo tutti il cappello pendente verso destra… " Lo guardai mentre danzava a tratti, quando mi giravo, credendosi non visto. "Se io sono come lei in che senso?" Quello disse: "se anche lei preferisce mettersi il cappello verso destra, simbolo che va in viaggio verso le Isole di Capacità... e così compensiamo i mancati appuntamenti con l'ospite sinistro. Questo caro assurdo ospite è pigro e dà da lavorare al suo dirimpettaio... così questo, stanco e offeso, fugge verso le Isole di Capacità. E io ne approfitto per fare dei viaggetti niente male..." "Credo di capire", gli dissi, "ma che c'entra questo con l'Autobus Formidabile?" Lui mi disse soltanto: “Eh, caro mio, se poi vorrà scrivere una memoria di questo viaggio, non potrà farlo se non essendo guidato da queste Isolette di Capacità… esse guideranno il suo viaggio…” E mi resi conto che stavo già narrando a me stesso il mio itinerario, già alla fermata stessa, quindi ero già guidato dall’ispirazione.. Ma la risposta intera me la diede lo stesso mezzo che, mentre il vento mi faceva pendere il cappello verso destra, mi aspirò dentro. Non appena catapultato dentro l'autobus, lo spettacolo che mi si offrì mi sconvolse: c'era un controllore chiamato Tertulliano che mi si fece vicino e mi disse: "Tu dove vuoi stare?" "Mah, dove capita.. non so..." Disse a un collega: "Mandalo davanti, questo è uno che si conosce poco..." Mi scivolò il cappello e mi sentii smarrito… ma c’era da imparare. Tertulliano disse: "anni e anni di civiltà solo per essere capaci di secessione... Sono disgustato. Avessero almeno imparato a dialogare. Ma dicono che non hanno tempo l’uno per l’altro! Quando si domanda loro perché non stiano insieme… rispondono: abbiamo tempi diversi di risposta, e poi non siamo mica coniugati” Cominciai a familiarizzare con l'intorno. La gente mi guardava curiosa, ma io risposi solo una piccola grande incredulità. Viaggiavo avanti e indietro sull'autobus: dietro si mangiava e ci si amava con una certa lascivia. Le donne sembravano dei ragazzacci volgari, mentre man mano che andavo verso il conducente, le parole diventavano sofisticate e le vesti sobrie ed eleganti. La memoria diventava sempre più debole via via che si andava alla testa dell'autobus. Infatti le signore che stavano avanti erano le più multate perché dimenticavano di fare il biglietto e stavano tutte ferme ai loro posti attente a non mischiarsi con le altre persone. Ogni volta che c'era una frenata per loro era un trauma. Infatti significava essere invasi da corpi o invaderne a loro volta... Tertulliano mi chiese: “Biglietto, prego!” Io gli risposi: “è che non ho visto dov’è la macchinetta”. Il controllore disse con un certo disappunto: “la macchinetta è avanti, per avere il diritto di stare su quest’autobus bisogna andare avanti!” Infatti era lì che tutti chiedevano scusa e dicevano: “gentilmente, cortesemente, se è possibile…” Mentre noi che stavamo in mezzo all’autobus eravamo pigiati e scalciavamo con parolacce che si facevano calci, e avevamo solo una spinta animale ad andare avanti. La calca partiva dal fondo dell’autobus dove molti si perdevano a palpeggiare invitanti paesaggi dai contorni arrotondati come se l’agente atmosferico della loro fantasia li avesse smussati e adattati alle loro mani e ai loro desideri prensili. Ogni volta che l’autobus sbandava, la gente, dietro, sbatteva contro i sedili e i poggia- mano, messi in alternativa ai fianchi delle donne; per questa popolazione un po’ primitiva, anche i sedili avevano un’anima, quindi si poteva scegliere a chi dare la colpa se sbattevano contro signore o cose: in tutti e due casi i rozzi erano felici. Vedevo un signore che prendeva a botte un sedile e gli chiesi: “ma scusi, cosa fa?” E quello: “C’era seduta mia moglie, lei è cattiva, quindi il sedile è complice!” Io restai paralizzato, poi gli dissi: “Ma si segga, su, non faccia così, non crede di essere un po’ proiettivo e animista?” Ma egli non capiva bene le mie parole, disse: “lei mi guarda male, come tutti, e poi se le dice a me, queste cose, deve dirle a tutti, qui. Non vede che siamo tutti così ammassati gli uni sugli altri e indistinti?” L’omone indicò ciò che prima non avevo notato: una montagna di persone ammassata dietro di lui e pronta a vedersela con me. Non potei rifiutarmi di dare ragione al signore e lo chiamai: Carissimo. Era un discorso senza luce, il mio, che un muro di corpi oscurava. Mi diressi, con fatica, avanti. La gente si andava diradando, lì. Respirai sollievo, anzi, soltanto: respirai. In fondo l’aria era irrespirabile, parlava di sudore e le parole sudavano prima di uscire. C’erano solo immagini di gente desiderosa e devastata. Che non sapeva contare, era un’unica massa informe, ma ognuno un numero indefinito e tante cose per amanti. Ristorata andai vicino al conducente, dove la temperatura era freddina e ognuno leggeva o ascoltava musica, misuratamente avulso dal mondo circostante. Si sentiva solo il rumore di pagine girate e le scuse dette in modo magistrale al controllore sul mancato biglietto. Erano così brave a inventare discorsi, facevano disquisizioni sull’essenza dell’assenza, su quante mancanze nel mondo di oggi ci sono: dalla sterilità, alla solitudine della vita, all’esistenza o no di Dio. Il controllore, Tertulliano, si accalorava a discutere con loro, ma la sua setta di Bigliettai Estremisti & Stremati non ce la fece più a imporre le sue condizioni fiscali, si mise a raccontare di quando anche loro viaggiavano per passione e si crogiolavano al sole ed erano tutt’uno col sorriso... Una donna disse: “Eravamo felici e stavamo sempre in fondo all’autobus… era una grassoccia voglia di vivere, quella prima di diventare estremisti!” Poi Tertulliano si rivolse al suo collega e gli disse: “Bene, Socrate, scrivi tu la multa per quella ragazza lì!” E quello rispose: “No, io non scrivo!” “Il solito”, disse Tertulliano, “si rifiuta sempre di scrivere…” Io feci: “Ma si sa che Socrate non ama scrivere, perché non diciamo di fare la multa all’altro controllore, come si chiama… a Platone?” Platone, sentendosi chiamato, rispose: “Quel che è stato è stato! Ciò che è Stato è la cosa più preziosa per me…” “Ma”, obiettai io, “è stato che la ragazza non ha fatto il biglietto… e ora… sarà la multa, è logico…” “Senti, ragazzino”, mi disse spazientito, “non venire a dire a me ciò che è logico o non lo è, potremmo discuterne fino a domattina, se vuoi, per me non è un problema… sono dialetticamente imbattibile, e quando dico che ciò che è stato è stato, nessuno può superarmi…” La ragazza si aggiustò capelli e borsa, evidentemente soddisfatta di non dover pagare la multa… anche la storia era dalla sua parte e doveva ringraziare col pensiero il pensiero dei filosofi e con lo stato d’animo lo stato utopico di cui si trattava”. Mi diedi a un altro po’ di osservazioni dell’Autobus Formidabile… Così imparai che la popolazione in fondo tendeva a spingere per andare avanti e quando li si intervistava, dicevano: “Come perché andiamo avanti? Siamo in evoluzione psichica, anche se parte del nostro gruppo ci chiama a sederci di nuovo dietro. Ma noi fingiamo di non ascoltarli…” E così l’Autobus Formidabile andava avanti, beandosi al sole della civiltà, nonostante il richiamo di quella gentaglia palpeggiante, bestemmiante e sguaiata. E quando si chiedeva a quelli avanti perché non andassero d’accordo con quelli dietro, questi ripetevano, per una memoria che era più di parole che altro: “Abbiamo tempi diversi… Non siamo mica coniugati!” E, sceso dall’autobus, mi sentii formidabile per aver visto un assaggio della storia dell’umanità
Id: 2235 Data: 20/04/2014 21:07:49
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Lettera al mio papà
Non ci sei più, ma il modellino della barca è ancora in piedi. Tutti i tuoi libri mi raccontano di te: li leggo come una seconda ondata della vita: ho da apprendere lo splendore di vivere dal ricordo del tuo sorriso e del tuo amare forte la vita, anche se avevi dimenticato le parole uscire, correre. Ma avevi lo studio arredato di ancore, timoni e altri piccoli avvii al sogno, che ti facevano un viaggiatore anche se apparentemente immobilizzato dalla tua malattia. Viaggiavi verso i cuori della gente, li conquistavi: eri il pioniere dei cuori vuoti, soli, di quelli che non vincevano mai. Tu posavi una luccicante corona sulla loro solitudine, tu ci stavi con la loro tristezza, la arricchivi col tuo sorriso. E cosa dirti, Papà? Le mie amiche ti ricordano come l’esempio della forza di un eroico quotidiano, valoroso nel profondo. Psicoterapeuta per passione, padre per vocazione tenerissima e viaggiatore per conoscere tutto quello che c’è quando si chiudono gli occhi. Steso a letto mi parlavi di terre bellissime: quelle illuminate dalla sensibilità, quelle terre che sembrano giornate d’estate che durano e che non vogliono chiudere i loro occhi. Io ti ringrazio per avermi regalato tutto questo tesoro che non si spegnerà mai… Io lo parlerò, lo dividerò come il pane per far crescere la bellezza dei miei giorni e di coloro che amo. Avevi un fare principesco che si inchinava davanti a tutti, forse per il semplice atto indimenticabile di dare una mano a chi non era stato mai ascoltato, né dalle persone, né dalla vita. La tua anima c’era per il loro dolore. Sento lo sciabordio tenue delle tue parole, lo ritrovo nella riva dell’oggi che mi tocca i piedi e mi insegna che ogniqualvolta mi verrà voglia di ascoltarti, tenderò l’orecchio al mare e ti troverò, con i tuoi sogni azzurri e sfumati di lontananze, dove si perde la terraferma e si comincia a camminare tra nuvole felici. Cosa mi dici dal tuo cantuccio caldo e celeste? Di certo sei felice perché sognavi di attraversare il blu del mare e ora attraversi il cielo. Questo cielo che anche da vivo portavi nello sguardo con quella bellezza che solo i piccoli dell’uomo hanno. Leggo i tuoi libri e ti trovo in una data, in una firma, in una dedica… Questa lettera è una chiacchierata con te, ma non c’è una data perché tu sei sempre; non c’è la mia firma perché la mia firma sono queste piccole lacrime che ti inventano accanto a me. E la dedica è la mia vita: la volgerò alla dolcezza del tuo ricordo e la farò diventare incantato presente. Caro Papà, e così è Natale senza di te… ma poi mi guardo attorno nel tuo studio e mi sembra tu mi sia di fronte e che tra un attimo mi abbraccerai come una volta quando ero spaventata dal mondo, una ragazzina ribelle e fragile: abbraccia ancora dall’alto questa ragazzina… e io sentirò le onde parlarmi del tuo amore perché in effetti la vera festa, quella che non ammutolisce mai e canta in me, è stata e sarà sempre averti avuto come papà
Id: 2205 Data: 28/03/2014 18:48:45
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L’avventura del ragazzo- fuco
“Su, figlio mio, è ora di andare a scuola, schiodati dai libri!”, la voce della donna suonò squillante tra le pareti azzurrine di casa. Il ragazzino, che adorava studiare gli insetti , disse: "arrivo, mamma, un momentomologo". Il solito, pensò la madre che sempre più egli paragonava a una termite: per avere scelto quella palazzina sotterranea. La signora vestiva sempre di chiaro, tanto che il figlio la chiamava: Formica Bianca. Il ragazzo stava leggendo un libro sulla vita delle api... ma improvvisamente fu catapultato dentro a un alveare, fuco lui stesso. Non si riusciva a capacitare di essere diventato un giovane fuco, così da un momento all'altro... e poi pensò alla madre che, pur di strapparlo al libro, l'avrebbe, detto volgarmente... affucato! Ma lui già era tutto incravattato come un ronzante cicisbeo ansioso di convolare a nozze con la simpatica regina: “eh, niente male”, pensava, “se a primo colpo mi faccio una regina... bel colpo se me la faccio a primo colpo!” e a dispetto della sua volgarità diceva: “Ho un animo nobile anch'io”. E si lucidava le ali. Non mi interessa la classe delle operaie, ma in fin dei conti non sono poi così deplorevoli: se consideriamo che stanno lavorando enormemente per costruire le culle per i miei figli. No, non sono da disprezzare tanto. Anche le bottinatrici non sono da buttare: mi ingozzano di miele, si, decisamente: si meritano la mia stima. “Questa casetta esagonale sembra un capriccio di Borromini, complimenti a tutte voi, ragazze”, uscì da un triplo mento una voce che canzonava, suadente e sensuale, la dignità di tutte quelle creature che si affaccendavano per costruire posti letto per i figli del giovane fuco e ampolle di miele per nutrire i suoi lombi che tutti speravano utili. Ma lui scambiava tutto questo per affetto. Così si confidò con le guardiane del ritrovo " a Rio Api" che era una colonia di api in riva a un fiumicello. Disse loro, ironicamente: "sappiatevi guardare da altri fuchi, non sono tutti sinceri come me". Ed esse risposero che quella era la loro professione e Fuco si sentì un po' sciocco.
Fuco sognava il momento in cui avrebbe conquistato il cuore della sua regina e doveva prenotare un colpo di vento per salire in alto, in alto, dove l’aspettava la sua alcova celeste. Si diceva: “Ho preso amore a questo sogno”. Ma nessuno gli aveva detto che dopo il grande passo sarebbe morto. Come di regola. Quella notte infatti lui ridivenne un ragazzino e, come una macchia di colore che va precisandosi in un dipinto, lo circondò la sua stanzetta e sulle ginocchia il libro aperto lo induceva a informarsi, prima di decidere stelle e drammi sul suo futuro. A distendergli un sorriso felice sulle labbra era il fatto che, per i suoi doveri di fuco, in cui di lì a un’ora si sarebbe nuovamente mutato, non aveva l’obbligo di andare a scuola: poteva restare a sognare in quel mondo dove il primo bacio coincide con l’ultimo. E si chiedeva se era giusto immolare una vita per un unico volo azzurro. La sua sposa, piccola ape regina, in quel periodo stava nascendo alla bellezza, nutrita di tutte le delizie apposite per svilupparle l’illustre ruolo. Il ragazzino lanciò un’occhiataccia all’orologio a passo svelto verso il sacrificio: gli restavano pochi minuti per finire di leggere il libro e scoprire che fine avrebbe fatto una volta trasformato in fuco. Scoprì così con amarezza che fine lo attendeva, lui che aveva soltanto tredici anni… ma ormai era deciso che doveva assumere l’identità di amante della regina. Si disse: “avrei voluto costruire una vita lunga e felice, accanto alla persona amata... ed ecco che mi tocca barattare l’azzurro di un momento con un eterno nero”. Presto trasformato, si ritrovò dalle guardiane dell’Alveare. Una gli propose un indovinello per capire se era fatto per conquistare la regina o fuggire pauroso di ciò che di orrendo immensamente incombeva: un infinito buio dopo il più fulgido cielo. Gli disse: “fai l’anagramma di alveare”. E quello, battendo i denti, rispose: “a levare”. “Lo sapevo”, disse la guardiana. “Non dategli più miele, lo faremo morire in quell’angolo di inedia”. E l’ordine si sparse: detto in un ronzio cupo, la tragedia lo avvolse con un abbraccio mortale: compatte, le api, stavano attorno al fuco che disperava la dolcezza di quell’incontro che non sarebbe più stato. Ma fortunatamente riuscì a evadere e se doveva per forza morire, tanto valeva darsi alla sua regina. Ella intanto cresceva, viziata dalle carezze delle antenne delle sue amiche e dalle più squisite pietanze. Però, un giorno, accanto alla sua stanza stavano delle principessine che le rubavano il sapore del potere, difficile a farsi sputare via. Era minacciata dalla loro bellezza e dalla loro fecondità… La piccola Imenottera- questo era un ordine sia entomologico che un ordine di far festa: ovvero il suo fastoso e indimenticabile imeneo- si avvicinò alle piccole creature sbuffando tutta la sua disapprovazione e intonando una litania che lasciò le rivali immobilizzate, attonite dentro la sconfitta. Il piccolo fuco aspettava il giorno del banchetto nuziale con animo diviso: da una parte correva come tutti gli esseri verso la felicità, a cavallo del vento, e sopra le logiche della gente e di tutti gli esseri senz’ali; dall’altra sapeva che un passo dopo l’azzurro c’era l’abbraccio freddo dell’ignoto. Ma, quel fatidico giorno, solo i poeti, i bambini e tutti gli altri sognatori avrebbero sentito nelle vene le spire di vento dell’acutissima festa. Fuco, che era stato un ragazzino sognatore, si disse: “Sì, forse la vita è proprio questa: ridere con un amore e poi addormentarti per sempre... e chissà… forse un sogno abiterà il tuo sonno eterno, forse ci sarà anche lì un altro volo!” Poi pensò: “Beh, passiamo all’atto pratico: morirò quindi dopo averlo fatto non avrò sensi di colpa..” e si mise a ridere della sua stessa ironia, mai stata così cruda e dirimpettaia alla morte. Tutte le operaie gli facevano i complimenti, indovinando che il baldo giovanotto che avrebbe avuto quella fortuna sarebbe stato lui. Lui sorrideva a metà e diceva: “ssss….” “Perché dici questo”, ronzavano le ventilatrici, “vuoi dirci di star zitte?” “No”, ammise Fuco con la voce che da sensuale gli era diventata atterrita: “Volevo dire: ssssss/ fortuna!” “Ah”, fecero quelle, “e dove sta la tua virilità, bello?” E questi rispose, credendo di fregarle: “sono caldo anche ora, allora perché mi ventilate?” In coro quelle dissero: “Ma è la nostra professione, lavoriamo al miele, che c’entra la tua virilità e il tuo gradasso calore?” E Fuco si sentì, come prima con le guardiane, un’altra volta sciocco. Tutto era quasi pronto per strappare quella luce speciale al buio che attendeva, portando con sé il concetto tremendo del comunque… Ma il piccolo sposo disse a tutte le sue amiche: “non ho voglia di smembrarmi non appena finito l’incontro, non mi sembra la migliore delle prospettive… vorrei lasciare il mio cuore nel suo e non parti di regioni non guardate dal giorno nella sua borsetta detta spermateca dove s/permarranno per un po’ di tempo”. E le amichette dissero: “non hai amore per la specie?” E Fuco rispose, ricordandosi in realtà chi era: “io in realtà sono un artista, un ragazzo artista, e si sa che noi abbiamo altri tipi di figli, letterari… capite, amiche mie? Lavoriamo tutti quanti, io e voi, per il miele… io sono più simile a voi, mie dolci operaie, che alla regina o al fuco…” “Questi.. come si chiamano? Arti.. artisti”, fece una piccola ape, stanca, che non era tanto sofisticata visto il lavoro che faceva, “questi artisti si nutrono pure di miele?” “Sì. Noi ci nutriamo di miele e lo diamo, e spesso non abbiamo figli nel senso comune, ma c’è chi produce romanzi, chi poesie, chi quadri…” Così, dopo aver detto quella verità, il ragazzino ringraziò le bottinatrici di averlo rifornito di una marea di miele e, finalmente, d’amore sincero (dato il loro – del ragazzo-fuco e delle bottinatrici- commensalismo d’ideali) e di colpo, ma dolcemente come il ricordo del miele nella memoria e nei modi -che travalicavano il mondo delle api e lambivano di nuovo la sua stanza- si ritrovò con la testa sul libro, con la voce squillante -come le trombe della vittoria- della madre che lo chiamava per andare a scuola… E lui le disse allegro: “sai, mamma, stavo per avere dodicimila figli!” La madre lo guardò tenera, con allegria e picchiò scherzosa l’indice sulla tempia del bambino. Poi il piccolo si mise a saltellare e aprendo le braccia come a voler spiccare il volo disse: “Ero un fuco, ma preferisco essere un artista: posso vivere una vita più lunga e partorire figli letterari senza morire!” “Hai fantasia, ragazzo mio”, la madre disse, continuando il sorriso anche negli occhi. Ma a prova della verità il ragazzo tirò fuori dalle tasche quattro bottigliette di miele e gliene porse una: “Questa è per te, Formica Bianca!”
Id: 2064 Data: 02/11/2013 17:37:46
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La Regina dell’Emisfero Noia
Un materasso di piume d'oca attutiva gli urti delle amiche della Corte Debordante: ad ogni istante i confini che le disegnavano vacillavano nel loro proposito di contenerle. Così le loro pance degradavano verso sud, non prima di avere invaso il campo lì intorno. My Dear era il pittore di corte, ma aveva dimenticato cos'era un disegno poiché disegnava e poi cancellava i contorni... e quindi poi non sapeva cosa colorare. "My Dear", disse una matrona pannosa fra le altre che non erano meno nella gara al punteggio più elevato di diabete... continuava a dire, prendendo fiato a ogni parola: la stancava la vita attiva: "my dear, cosa... ci disegni... oggi?" L'uomo aveva lo sguardo avventuroso e per questo le donne lo avevano scelto: era un antidoto di successo contro la noia. Si guardò intorno tra i nobili focoselli desideri delle dame: loro mischiavano il corpo con l'arte per due motivi: il primo, tristemente imperioso, era la noia; il secondo: per arrivare alla fine della loro vita e non morire senza un ritratto immortale e allo stesso grado languido. Come potevano pensare di andarsene da questa vita senza avere rapito il cuore del loro pittore: almeno avrebbero vissuto con questo qui, se non con il loro.. Che bellezza vivere per sempre fra i colori dipinti per mano del latore di un cuore sublimato! I quadri erano sempre ciò che seguiva al saporito fuocherello d'amore e ciò che precedeva il vapore nei vetri della stanza. Ma allora non sarebbe stato uguale farsi una doccia?
Il My Dear non rispose subito, ma mormorò un: "uhm..." e tutte capirono che stava cercando un soggetto e molte di loro dissero: "i.. i...", non riuscendo a completare la parola “io”, e lui capi che doveva dipingere “i soggetti...” Così prima di finire il quadro si addormentarono tutte, ma a esser sinceri il quadro non fu mai finito poiché i contorni venivano sempre male dato che erano in libera fluttuazione aerea. Al risveglio nessuna si preoccupò di andare a vedere il dipinto e non perché non fossero interessate, ma perché nessuna riusciva ad alzarsi dal suo placido posticino con cerchi di grasso, come sassi in un lago che rifletteva la pecorella smarrita che era la loro volontà. E al pittore davano noia gli apprezzamenti, così non mostrò il dipinto o quello che era l'abbozzo di un dipinto o meglio l'idea dell'abbozzo del dipinto, anzi per l'estrema esattezza: la sensazione dell'idea dell'abbozzo del dipinto.
Ma presto sarebbe tornata la Regina dell'Emisfero Noia. In quella stanza tutta spiumacciata di piume d'oca e fervori sonnolenti, di braccia stiracchianti a metà in modo da non arrecare troppo sforzo, di sbadigli pensati... La Regina che era stanchissima dell'ultimo viaggio (ogni tanto doveva viaggiare per diplomazia ma avrebbe preferito che essa fosse come una lavatrice che ripulisse i capi nel rapporto fra loro, nell’essere a contatto e che la coscienza fosse di nuovo bianca senza che lei facesse questo viaggio in lavatrice... ah no.. in aereo...)
Durante il suo viaggio aveva dormito tutto il tempo ai congressi, e poi si era giustificata dicendo che quel viaggio e quella gente era stata un sogno per lei. E tutti ne furono lusingati e non osarono replicare. Ma per tutto il tempo della sua assenza aveva sognato anche il suo matrimonio col pittore My Dear... e ora lei che era stata sempre così pigra, non aveva mai fatto ginnastica né semplici passeggiate.. ora doveva fare il grande passo! "Ma quanto grande?, i miei legamenti sono arrugginiti...” Per non parlare poi della prima notte di nozze: lui avrebbe dovuto intuire che sotto quegli strati di grasso che la ricoprivano come una matriosca si nascondeva la donna che aveva sposato.
E arrivò il giorno del matrimonio. La signora Lulù le domandò, raccogliendo tutto il fiato che richiedeva quella frase... (si parlava sempre con monosillabi in quella corte): "Chi saranno i tuoi testimoni?" E la Regina rispose come loro erano abituati a vederla rispondere. Semplicemente rispondeva indicando con gli occhi i prescelti. I due si alzarono debolmente dal mare beato e sonnolento della folla e furono lusingati, tanto che sentirono quel pomeriggio meno vacuo e stracco, un pomeriggio lievemente divertente. Meglio di sempre, di certo.
Ma subito dopo sposati, le cose non andavano né bene né male, poiché organizzavano sempre mostre per non annoiarsi (o meglio le organizzavano gli altri perché avevano tanti dipendenti, nel sonnacchioso Emisfero Noia, ai quali piaceva lavorare un po' perché erano sì annoiati, ma non regalmente come gli sposi e poi non litigavano mai perché le liti erano motivo di noia.
E vissero circondati da tanti amici che pernottavano pure da loro in modo da non avere la noia di alzarsi presto la mattina per tornare alla Corte Debordante, dove più diminuiva l'iniziativa più aumentava una gioia, una gioia spaparanzata su divani e materassi… Il viaggio di nozze era troppo faticoso e poi chi aveva voglia di girare per le città, di fare dei commenti sui monumenti...? Essi avevano già tutto stravaccati tra quelle piume d'oca e per vincere la noia sparlavano ogni giorno una nazione diversa...
Id: 1996 Data: 13/09/2013 18:02:25
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I dolci amici
Come un vagheggino intorno alle sue dame, ronzavo attorno ai gusti dei gelati in vetrina. Mi sentivo a mio agio, mi dicevo: "visto che la vita oggi ha tutti i gusti, perché non sentirmi splendidamente?" Non era affare da poco il canto di quei colori. Forse non sarebbe ricapitato. Presto sarei dovuta tornare a casa, e di quelle meraviglie soltanto un nostalgico: "erano belli da guardare". Rivaleggiavano per il posticino nel palato, il gusto Puffo e Pistacchio. Il primo disse: "la vincerò io, questa gara: una volta in bocca, il palato diventa la volta celeste". "Presunzione! Soltanto perché sei azzurro, non ti credere votato alle altezze supreme...", disse il Pistacchio. Ma poco poteva ribattere colui che era verde di vergogna: era ben cosciente: richiamava troppo la figura di uno stagno. Quindi rimase muto e non poteva portare avanti nessun discorso: tutte le sue opinioni non erano da gusto maturo. Si intromise la Panna, che era simile a una matrona per quanto era grassa e gonfia. Disse: "ma perché queste contumelie? Non le sopporto." Pistacchio le disse: "Eh, vedi, tu fai una vita dolcissima, più di tutti noi, e quasi sempre dimori nel palato di tutti. Lo stesso non si può dire di noi: in lotta per essere scelti. Ci sono giorni che non veniamo presi in considerazione dalla gente, ci sentiamo dei falliti. Tu e tuo marito, il Biscottino, siete in testa alle classifiche, siete gettonati". E Cioccolato difese Panna, ma loro erano grandi amici, e si sentivano degli eletti. Però coloro che erano chiamati "gli opportunisti" erano i gusti alla frutta, che vivevano le loro storie d'amore coi palati quasi soltanto d'estate. Altra nomea era: "i ragazzi", perché amori seri, che portassero avanti per il resto dell'anno, non ne avevano. O erano casi rari. Il Limone era il più latin lover di tutti poiché piaceva a moltissimi. Poi c'era il Bacio che non perdeva tempo, quando veniva ordinato, ad accostarsi alle varie bocche, aveva buon gusto nell'amare: era delicato e non disdegnava le piccole orge, infatti finiva sempre insieme a due, tre amici nel cono. Ma capita sovente, un po' a tutti gli amici. La signora di queste riunioni dal dubbio gusto era la Panna: stava volentieri in ambigua compagnia. Li avrei voluti tutti nella mia coppetta, ma ahimè, non potevo. Scelsi Fiordilatte, che stava abbondante, sinuoso, candido e virgineo in un angolino, quasi dimenticato. Non aveva conosciuto mai palato, era emozionato nel talamo della coppetta, lo portai con me a fare una passeggiata in riva al mare e, boccone dopo boccone, il suo destino fu adempiuto con dolcezza. I gusti alla frutta, solitari nella vetrina, stavano a parlottare rabbiosamente fra loro: si aspettavano di vivere la loro magnifica esperienza estiva per poi gloriarsene con gli altri. Ma la mia scelta cadde sul piccolo Fiordilatte che era tutto per me, per sempre, e da cui "i ragazzi, gli opportunisti", avevano solo da imparare. La vita era in quell'incontro tra gusto e palato, ma anche la morte: com'è in fondo l'amore. L'amore che diventa parte di noi, una parte eterna, anche se l'incontro è stato un lampo di poesia nel cielo nero. Un lampo di poesia che può essere significativo, come per Fiordilatte, o storia da raccontare per noia, per "i Ragazzi". E i gusti alla frutta, mai di questa lezione raccolsero i frutti
Id: 1984 Data: 31/08/2013 17:43:47
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L’Espansiva
In quella ragazzotta gli occhi erano repentini come ali di colibrì, affondati nelle guance che raccontavano una storia di salute ed estrema confidenzialità. Tutti la chiamavano l'Espansiva. Per la strada raccoglieva stupiti sguardi come moscerini periti sul retino delle piscine. A chiunque lei rispondeva con un lampeggiante sorriso, e alla gente pareva che la stessa vita sorridesse. Non si sperava altro, in quel quartiere dove tutto sembrava spento, opaco, nient'altro che il passaggio di quell'icona pienotta, quasi su sfondo dorato (pareva infatti che scegliesse sempre di passeggiare al tramonto). Rina, una signorina avvizzita anzitempo ad opera dei marinai, chiese all'amica Jessy: "Ma quanti anni avrà, ora? Possibile sia sempre così giovane e noi... invecchiamo?" Ma quello che Rina non sapeva era che la sua cara amica aveva tantissimi amici e viveva un po' con Tizio, un po' con Caio, per gli uomini era una stella, per le amiche un guaio! Infatti la stessa Jessy non sapeva che ad alleggerire la sua vita da pensieri ed emozioni era stata proprio lei. Ma una fissa dimora l'Espansiva non l'aveva, saltellava allegramente da un abbraccio all'altro, non senza un certo romanticismo salvifico. Il giudizio della gente era corroborato dalla immensa simpatia di quegli occhi di colibrì e dalla sua ingenuità che sfiorava quasi l'inconsapevolezza. Ormai son bastate queste righe per perdonarle i suoi torti, se torto si poteva dire tuffarsi a testa convinta nell'oceano dei suoi sentimenti. Jessy le chiese, quando si trovò seduta al bar con lei: "Hai visto il mio ex, Manlio, ultimamente?" L'Espansiva fibrillò di luce e disse come una bimba: "Certo che l'ho visto. Gli ho dato un passaggio venerdì e poi mi ha detto che voleva andare al mare... con me". Jessy si irrigidì un po'. Poi, prendendo il coraggio chissà da dove, disse: "Ma ci siamo lasciati solo da una settimana!" Al che l'altra rispose: "Secondo me, voleva andare al porto per vedere le navi, come quando siete andati in crociera". Ma Jessy esclamò: "ma ci voleva andare con te!" Più serena di un bianco Natale, l'Espansiva disse piano: "magari era troppo insostenibile il peso del ricordo e voleva un'amica". La piccola Jessy si arrese, voleva credere anche nelle bugie. Guardava l'amica e si diceva: "Come non credere a una che ha codesti candidi, simpatici e amichevolissimi occhi?" Così nessuna si adirava mai con lei. Anzi le volevano bene. E i ragazzi trovavano nel suo modo di fare un'allegria che ci vuole e nel suo corpo un posto sulla ruota panoramica che fa vedere splendidi paesaggi pieni di poesia. Ma poi tutti tornavano alle storie d’amore poco prima interrotte per la gioia di un ballo. A volte, si cominciava a vociferare in paese, la ragazzotta dormiva anche alla stazione, seguendo dei tipi malconci che masticavano gomme da farsi venire mal di testa e che avevano più tatuaggi che ideali. Tutti si preoccuparono, anche le ragazze, seppure per qualche istante erano state arrabbiate con lei. Una sera, l’Espansiva incontrò Rina, più sfiorita che mai nel giardino curato male della sua vita. Questa le disse: “Senti, devi stare attenta… non puoi dormire qui”. L’Espansiva la guardò stranita e poi disse, a ogni parola le guance facevano su e giù come una palestra: “Io non lascio soli i miei amici, con chi parlerebbero se non con me, la notte?” “Mah… fra loro…”, replicò Jessy. Ma l’altra non era convinta: “No, cara mia, hanno bisogno di espansività e io ne sono la portatrice”. Poi Jessy la vide alzarsi e dare delle monete, molte, a uno che diceva di essere il “Cavaliere dell’umano”. Si stava lentamente depauperando, senza dormire e dissipando tutto ciò che aveva, che era già poco, vista la vita che faceva prima. Un altro signore le si avvicinò col bastone e lei lo baciò in fronte. Questi sorrise, era quasi cieco, e si mise a parlare di ciò che aveva a portata di mano: i ricordi d’infanzia. Ma la cosa più bella di tutte, in questo percorso remunerato solo dal calore della gente stessa, fu che aveva preso a far colazione nelle case di riposo. E nella mattina incipiente, i vecchietti vivevano l’inizio della giornata e la fine della vita: ma erano accompagnati da quegli occhi formidabili, che splendevano solo di sentimento. E la bella icona pienotta cominciò a lavorare in una casa di riposo, dove tutti l’andavano a trovare, tutti gli amici, anche soltanto per prendere con lei un caffè speciale
Id: 1936 Data: 17/07/2013 10:44:18
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Le pareti bianche
Ero in una sala d'attesa bianca, un po' giallina, ma l'attesa è bianca quindi la stanza d'attesa era bianca. Molti personaggi affollavano la sala, molti erano proprio fondamentali come i pilastri che al confronto sembravano più precari. Li guardavo, sapevo di trovarmi in un luogo un po' stranito: mi continuavo a ripetere: sto assaporando l'eterno. Infatti erano tre giorni che aspettavamo lì, senza mangiare e senza bere. Avevamo solo parole e attesa. Ogni tanto un infermiere spuntava alla fine del corridoio, ma veniva ingoiato dalla stanza accanto, e tutto tornava ad essere sconcertante per quanto era immoto. Sentivamo nelle vene perfino lo sforzo che faceva l'orologio nel suo duro lavoro. Una donna ripeteva a ognuno di noi la stessa cosa, velocissima, ma nessuno capiva. Lei proveniva dalla Clinica "Keep the Queen" e non sopportava che quella in cui noi ci trovavamo fosse migliore a quella del suo cuore. Che fosse il cuore di una situazione che fosse migliore. Ripeteva supersonica: "Un'equipe equiparata a chi? Chi ha detto che è qui l'equipe equiparata a Keep the Queen?" La vocina aveva un che di altisonante di malagrazia. E proveniva dalla signora seduta di fronte a me: aveva rari capelli bianchi, come porzioncine di luna non tanto generose: giusto un po' poetiche quando le si paragonava all'ultima stagione della vita. Ma sorprendeva in questa donna la malinconia agguerrita contro tutte le dolcezze della vita: si slanciava in avanti come per vagliare l’intorno, se c'era idea di pericolo. E gli occhietti: : ti fissavano fino a farti confessare che la vita è amara: le strade sono in salita, se non lo sono allora ci sono fossi; se non vedi fossi, ci sono fossi nascosti; le persone ti deludono, o ti rubano il fidanzato, o ti rubano in casa. Insomma tutto questo comunicava la cara signora che calzava e poteva calzare un solo nome: Adunca. Ma poi feci caso alle sue parole, visto che le ripeteva, poiché nessuno afferrava subito il significato. Capii che rimpiangeva la sua vecchia clinica dove tutto andava a meraviglia. E ognuno di noi rimpiangeva qualsiasi cosa, bastava che non fosse il posto dove purtroppo eravamo costretti a stare. C’era una costrizione che era più forte di tutte le cose che ci circondavano, una stramaledetta costrizione interiore, ferrea e imponente, che ci costringeva a ripetere ogni volta la delusione: la notizia che dovevamo rimanere lì: lo diceva l’infermiere a cui noi chiedevamo sempre sapendo che la risposta sarebbe stata quella. Non c’era neanche una diafana possibilità di scelta. Eravamo come costretti a sorbire le parole, sempre le stesse, e di cui noi eravamo stranamente avidi. A causa di una qualche balorda punizione che avevamo bisogno di auto-infliggerci. L’infermiere tirava un lungo e loquace sospiro, poi con gli occhi illividiti da quelle finestre sempre chiuse, quegli occhiettini che conoscevano solo i libri e che non erano abituati alle persone e alle cose, diceva: “tutto uguale, tutto regolare, niente di nuovo… che si deve fare? Non c’è niente da fare”.
Noi ci guardavamo, poi guardavamo attorno l’aria e non avevamo più nemmeno forza di controbattere, e volevamo bene persino a quell’odioso infermiere. Sentivamo che le sue parole e i suoi occhiettini erano le nostre parole e i nostri occhiettini. Diceva ed era quello che noi –dentro- dicevamo ed eravamo. La nostra ribellione, che il primo giorno era davvero grintosa, diventava pian piano sempre più flaccida. E così i nostri corpi, lontani dalla musica e dall’amore.
Anche il telefonino che qualche volta, sempre più scoraggiato, suonava, noi come per un impulso, lo spegnevamo: era un impeto fatto di morte. Lo stesso orribile condizionamento che ci obbligava a morire, ogni momento, di una morte vivente. Prima, quando il telefono suonava, noi subito ci rallegravamo perché rappresentava la vita che voleva vivere; ma ora perdio! pigiavamo il tasto per spegnere,; il male veniva da dentro: molti provavano a dimenarsi, a scappare dalla sedia, ad aprire la finestra, ma tutto curiosamente avveniva dentro la stanza che assomigliava a una pancia e noi eravamo nel corridoio dove transitavano barelle che, a loro volta, somigliavano a cibo che la stanza ingurgitava. Eravamo dentro noi stessi. E per questo ogni punizione era come se venisse dall’esterno, invece l’avevamo proprio dentro, e niente si poteva fare per ribellarsi. Ci tornavano alle orecchie le parole dell’infermiere: “E che si deve fare? Non c’è proprio nulla da fare.” Io dissi alla signora Adunca: “è inutile che si dibatte, non c’è nemico contro cui combattere: siamo noi i nostri nemici, e ci combattiamo!”
Un uomo aveva preso a insultarsi da solo, visto che non poteva rivolgersi più al suo odiato nemico che era fuori la clinica. Si ingiuriava perché doveva, la sua mano destra picchiava quella sinistra, e l’occhio destro guardava male il sinistro. E non ci lamentavamo che non c’era mensa, perché lo strano infermiere ci diceva: tra le pareti di bianca malinconia non ci può essere mensa. D’altronde era una frase perfetta per noi, esseri fatti di perfetto dolore, e l’accettavamo quasi con un sorriso che era la conversione in gesto della nostra paura. Io pensavo: “Vuoi vedere che ognuno rivolgerà le armi contro se stesso, come fa questo signore…” E la cosa strana era che non ce ne vergognavamo, tutti eravamo spudoratamente accaniti contro noi stessi e contro la nostra irresistibile tendenza a punirci. Persino la signora Adunca che prima elogiava la sua clinica “Keep the Queen”, ora sembrava non veder più niente a parte il posto dove eravamo. E dove saremmo rimasti: prigionieri del bianco dell’attesa: a poco a poco si faceva tutto sempre più incolore, neanche più bianco si poteva chiamare… era proprio una sconcertante povertà di colore. E infatti pian piano ci scordavamo che esisteva al nostro fianco una persona. Niente, avevamo perso l’interesse degli altri. Ed eravamo sempre più intenti a badare a noi stessi, e ai nostri ricordi. La signora Adunca, dalla malinconia cattiva, ci aveva contagiato. Il sole dietro le serrande sembrava allontanarsi e lasciare il posto a un freddo che si impossessava di noi, lentamente ma inesorabilmente affamato della nostra vitalità.
Passò di nuovo l’infermiere e sentimmo le sue parole, con la nostra voce, e mi diede un effetto strano: era la voce di ognuno di noi che ripeteva: “E che c’è da fare, non c’è proprio, ma proprio nulla da fare”, ma lui non muoveva neanche la bocca: tutto partiva dal nostro cuore avvilito che si suicidava in mancanza di soffi di vita. La signora Adunca e l’uomo che lottava con se stesso ogni tanto si addormentavano ed anch’io ed era allora che facevamo pace con noi stessi: ci facevamo dei regali, ogni sogno era il nostro compleanno… ma, quando ci svegliavamo, cozzavamo contro la durezza del bianco dell’attesa: eravamo bambini trascurati che attendono un dono, nel nostro caso un infermiere buono che ci desse una bella notizia, ma l’infermiere eravamo noi, e la clinica era la nostra pancia. E facevamo finta di non saperlo: talmente eravamo sconcertati dalla penosità della situazione. Ricordavamo la vita supersonica che c’era fuori, ma quella appunto era la vita. E noi non ne sapevamo più niente. Echi di sole bussavano alla finestra, ma facevano in fretta a scappare via, come impauriti dalla nostra tristezza che dilagava e sembrava quasi un lutto. D’altro canto un lutto davvero per noi era stata la delusione dell’amico che era fuori dalla clinica, e con cui noi avevamo litigato, e che prima amavamo. Quello che ci aveva fregati… strano a dirsi, era la nostra perplessità nell’amare le persone, sì, l’ambiguità. Ci avevano catturati in questa orribile clinica senza tempo perché degli infermieri ci avevano visti dubitare nella conversazione con i nostri amici. La signora Adunca per esempio parlava con la figlia, ma fu sorpresa mentre esitava nel parlare con lei, e subito gli infermieri l’hanno intrappolata nella clinica dove ora lei pensa solo a se stessa, e sempre con se stessa si arrabbia e si auto-rimprovera. Come tutti noi, del resto, che abbiamo avuto la colpa dell’ambivalenza, e per questo siamo stati puniti. E invece di odiare gli altri, il flusso dell’odio si è rivolto dalla metà del nostro corpo all’altra metà. E finirà che ci annienteremo se continuiamo così…
Ma dicono che verrà il tempo che spalancheranno le finestre e il sole ci tornerà a benedire e ci addosseremo la festa, e sarà molto presto, perché il ricovero in clinica –l’ho saputo da poco!- ha una durata ben precisa, e poi passeremo dalla parte opposta, dove tutto è euforia: ma sarà soltanto, spiegano gli infermieri, per non pensare più alla tristezza di questa clinica: cercheremo altri amori, e sarà sempre per rimpiazzare il dolore di questo brutto periodo con tutte le sue delusioni terribili… Faremo baldoria per non pensare alla malinconia. Ma può darsi che strada facendo, all’uscita della clinica, troveremo un dottore che non sia, come gli infermieri, la nostra voce interiore, ma sia “staccato da noi”, eppure anche come un padre, un fratello, o quello che noi decideremo che sarà… e così possiamo far pace con la nostra ambivalenza, e ci apriremo al rapporto vero con le persone e non ci chiuderemo dentro al bianco delle pareti dove invece ora… ci sono dipinti paesaggi di sogno, i paesaggi dimenticati che formano la bellezza della vita. Proprio sulle pareti pallide della clinica ho scritto questo racconto, e così esse hanno smesso di essere fatalmente bianche
Id: 1935 Data: 16/07/2013 22:05:12
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Pan e il suo sogno
Quel venditore ambulante dal canticchiante incedere era un uomo piuttosto simpatico a vedersi. Certo, ci si perdeva in qualcuna delle sue pance, a volte. E dividendo qualche chiacchiera con lui, ci si rendeva conto di avere davanti un sant'uomo: tanto era pieno di premure per la sua golosa utenza. Queste premure si esprimevano in grossi panini con crocchè e panelle. E una spruzzatina di sale per i panini e le zucche ancora sprovvisti.
Sembrava che quel sale desse davvero un sapore a tutta la comitiva felicemente addentante.
L'uomo si chiamava Pan: il dio delle panelle. Tutti si davano appuntamento: "alle dieci da Pan", invito anche per chi era ancora a casa, a ciondolare in pan... pantofole!
Anche quel giorno Pan si rivelò un dio: con fare musicale dichiarava cosa friggeva e come scoppiettava la panella, quasi smaniosa di essere assaporata.
Con gesti di microacrobazia le crocchè volavano sul panino, in fila indiana, come in lista d'attesa per il saporito traguardo di quella mattinata gonfia d'olio e di sapore.
Una ragazza si avvicinò alla lambretta e disse: "vorrei due panini, solo crocchè, da portar via".
Pan la guardò tenero e disse (ormai la conosceva da anni): "è per tuo figlio? Che caro ragazzino, è per via delle mie canzoncine, passeggiando con il carrettino, che ho conquistato le vostre fauci..."
Infatti Pan oltre a essere un bravo panellaro, era anche un mirabile scrittore di testi per canzoni.
Le sue canzoni, accidenti, erano belle davvero! ma il problema era sempre uguale: dopo mangiate le sue bontà, a tutti prendeva un sonno che sapeva appunto di una beata sazietà.
Prima dalle canzoni venivano attratti e compravano, poi però non gli davano agio di andare avanti nel mondo della musica perché confusi dalla squisitezza di ogni miracoloso bocconcino.
Un bimbo, una mattina, gli disse: "Sai, Pan, mio padre ora lavora in una casa discografica... e vorrebbe che tu cantassi davanti a... non so... certi signori..."
Pan diventò più piccolo del bimbo che gli parlava. Le sue pance tremolarono sotto a un petto che ebbe un sussulto. E disse: "Certo, quando?!"
Il bimbo disse: "ha detto di presentarti alle otto, domani sera..."
Pan pensò, per un solo attimo irritato: "Vorranno la cena, i miei panini, e poi al solito si addormenteranno, lasciandomi panellaro più di prima e cantante meno che mai".
Quindi in lui sempre combattevano il dolce: le canzoni e tutte le romanticherie appresso... e il salato: la sua professione che accendeva il gusto.
Fatto sta che quella sera, importantissima per il suo futuro, si presentò puntuale, come la sua speranza di cantante in cerca di entrare nel cuore e nei dischi della gente.
Il bimbo, che aveva fatto così dolcemente da ponte tra Pan e la sua realizzazione, gli disse: "Pan, vai, ti aspettano", e fece un caldo sorriso.
L'uomo disse fra sé: "bene, bene, hanno visi simpatici e... sono tutti così magri..."
Poi venne a scoprire, qualche tempo dopo, che erano tutti dei modelli nel tempo libero e non potevano abbandonarsi a quei magici panini... Pan, ormai famoso, disse, alla fine di un concerto: "Un grazie alla casa discografica "Le forme dell'Arte"
Poi pensò, felice: "E grazie anche alla loro dieta! grazie alla loro mancata pennichella..."
La canzone che concluse la serata fu Rendez-vous, che chiamava due parti in causa: l'arte e il palato. E tutti cenarono con i suoi straordinari panini, quella sera. Poi sognarono tutti, Pan e amici compresi, quello che ora era realtà!
Id: 1919 Data: 27/06/2013 18:02:43
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Gino Stambecchi
Gino Stambecchi era un vecchio commerciante di sogni: li tirava fuori -come un commediante appassionato e sincero, non certo privo di una qualche chiara magia di bambino- non appena lo stuolo di professori psichiatri, con nasi compagni di occhiali, lo accerchiavano senza cattiveria, così come ogni giorno pallido di lenzuola e mattino. Gino non poteva che essere contento: raccontava cosa sognava, ma in realtà solo lui sapeva che ciò che veniva ammainato da un sorriso vuoto di denti, non era altro che un impetuoso fantasticare. Creava per quei dottorini delle pietanze così saporite che era difficile credere fosse frutto di una mente ormai alla deriva dell'umano, dove ci sono immagini sguinzagliate di parole, e disancorate dalla logica. Quell'uomo gentile come un maggiordomo coi dottori, nel salutarli calorosamente con un triplo inchino del capo, non badando a spese di umiltà; mite come un cagnolino che ha scelto te come il migliore essere interplanetario; e, infine, silenzioso durante la giornata come una nevicata che ha quasi timore di cader giù. Il motivo del suo soggiorno in ospedale? Enigma di qualche spicciolo per se stesso, per la sua coscienza asservita al bisogno materiale, nonché creativo; ma un dilemma tra i dottori sul come mai non si schiodasse da quel letto, che, se fosse stato vivo, lo avrebbe lanciato su per le stelle, e il tutto senza l'accompagnamento rassicurante della poesia. Il dottore più spelacchiato, e quindi più riflessivo, che sembrava vedere già da dietro la porta la situazione psichica del paziente... proprio non indovinava un bel niente del malato Stambecchi. E si ripeteva: "invece di migliorare, ha una strada assicurata.. peccato che sia un'eterna discesa...." La dottoressa Rayante, con voce leggermente stridula, proferì una fotocopia di quella che era la verità della situazione: "forse non se ne va di qui, perché non ha nessun posto dove stare". Ma la pura verità era che gli piaceva avere a che fare coi dottori, poiché anche lui stesso era studioso di psicanalisi, e... cosa che non disdegnava: le polpettine e il riso al pomodoro: li gustava con ogni vogliosa papilla gustativa. Il nostro vecchio preparava con cura ogni dì, già dalle sei dell'imberbe mattino, la sua storia... Diceva fra sé: “se parlo di una voliera dove stanno rinchiuse le colombe, mi prenderanno per una frustrazione poco nobile, in senso freudiano? o in senso junghiano come uno sprigionarsi della mia creatività repressa in una gabbia, e ogni colomba sarà il simbolo della santa pace che l'opera d'arte mi darà col suo volare? O ancora in senso adleriano come uno sprigionarsi del mio potere sociale al momento della liberazione, io, sottomesso e femminino? Se dovessi seguire Adler, sicuramente, dovrei protestare moltissimo contro il padrone del negozio – che deve essere per forza di sesso rude- e che tiene le colombe recluse. Si sa... questi padroni di negozi sono i più avvantaggiati nel negozio di questa vita… Ma queste sono vecchie storie, inattuali." Anche quel mattino i dottori lo accerchiarono, e Gino vide nei loro occhi l’avidità selvaggia dei sogni tra qualche momento raccontati, quell’impossessarsi della verità di quel paziente dalla fantasia in eruzione, senza neanche un velo di dignità per quei dottori che faticavano, più stambecchi feriti di lui, a stargli dietro con orecchie di brace. E lui percorreva – con l’estro di un artista folgorante e dai racconti colmi di una quasi erotica passione- sentieri impervi di donne gravide senza figli dentro e di uomini con collezioni di ciglia di donna… che colmavano di lacrime per ricordare le donne andate via, per vedere brillare ancora una volta una lacrima della loro donna. Poi eruttava domande, improvvise e brutali, del genere: “perché un uomo dovrebbe collezionare ciglia di donna?” Il dottore disse: “Non so, dovrebbe dirmelo lei…” E il buon Gino: “Ma dottore, anche lei è stato bambino e non aveva una gran paura che avesse giacca e pantaloni e non il cravattino?” Il dottore rosso e impacciato e senza quasi più aria, se non quella dell’imbarazzo, disse: “Lasci parlare noi, le domande le facciamo noi, lei esponga solo i suoi sogni!” E così, felice che i suoi discorsi passassero per suoi complessi, pensava al piattino di riso al pomodoro. L’infermiere arrivò con il carrello del cibo. Il piccolo ometto con un grosso carrello (anche quella sproporzione era spietata, considerò triste Gino) tutto ciò che riuscì a meritare fu un largo sorriso senza denti del vecchio Gino. Questi era davvero soddisfatto che il suo “sogno” gli avesse procurato un altro piatto caldo, e un passo in più nel capire la rossa reazione delle guance del dottorino e il suo incredibile, grasso divertimento...
Id: 1907 Data: 13/06/2013 19:56:35
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Racconto di Natale
Parlando con chi incontravo sul cammino divenuto ombra, i miei verbi si rifiutavano di essere al passato. Mio padre è la casa, la famiglia, il cuore. E'... cioè era un tesoro, ma è più giusto secondo la legge dell'amore, dire tutto al presente per evitare di negarlo alla vita di nuovo. Ora l'albero di Natale continua a brillare e a diffondere una soffusa atmosfera natalizia. Io lo sto a guardare, e sembra che i miei occhi non siano abbastanza: le luci che si accendono e spengono sembrano il linguaggio della speranza, mi conforta l’allegria un po’ sbiadita di questo Natale, il malinconico svegliarsi delle luci nelle case, il sapore di forza e abbandono, dell’intermittenza del vivere. Ora papà semplicemente gioca a nascondersi, nelle foto, nell’anima, nelle nostre parole , laddove risiede, regina, anche una grande energia, e di questa ci serviamo per muovere i nostri passi. Mi faccio coraggio e guardo i vasi da cui stanno nascendo i gelsomini, con tutta la delicatezza che appartiene a loro. Nascono e lui lo sa, forse lui è nella stessa delicatezza di questi fiori, si nasconde nel loro profumo e si fa accarezzare da noi. Chissà, forse lui ora è diventato un tramonto, e ripete l'atto di salutarci all'infinito. Fiore di veronica ogni giorno. Io e la moglie di mio padre lo facciamo rinascere a ogni abbraccio, a ogni carezza. Ora dobbiamo pensare a come non pensare sempre ai ricordi. E con i rumori di piatti e stoviglie coprire il silenzio che... potrebbe parlare dell'assenza.
Ma mai l'assenza potrà ingoiare quello che ricordo di lui, fresca nella mia mente è l'immagine della fiducia che lui aveva per me e per i miei scritti. Rivedo i momenti in cui, nella sua stanza, gli leggevo racconti e poesie e lui in un sussurro, a questo era umiliata la sua voce, mi diceva: "mi piace molto". Mentre lo diceva, sorrideva con gli occhi e con la bocca e poi, sempre sorridendo, abbassava lo sguardo. Io vagavo in così tanta dolcezza, nei suoi campi radiosi e morbidi, e uscivo da quella stanza con la forza che quell'uomo, così debole in quell'insulto di letto, mi dava.
"Indovina cosa ti ho regalato?", sussurro a Paterina, e lascio cadere la domanda sul letto dove si addormenta la curiosità, e mi addormento anch’io, spento l’interesse del mondo. Quando mi sveglio penso subito al regalo: mi vengono in mente tante cose che possono essere utili alla casa. I sogni scendono sempre su di noi come una benedizione di poesia dorata. Nel sogno infatti si susseguivano a mo’ di placante risposta al mio interrogativo una serie di regali: oggetti per la casa, libri, vestiti. Tutte cose che però sfuggono al cuore: non sono proprio queste le cose che voglio regalarle. Penso di regalare una me stessa nuova, più dolce e comprensiva, e nello stesso tempo ospitare senza paura la sensibilità che è a sua volta un regalo di mio padre. Una me stessa così esiste, più che in altre cose, nel magico specchio del foglio che premia il dolore con la bellezza. Ciò che sto scrivendo è il regalo che sento più di ogni altro. Lei saprà sorridere leggendo, penserà che ancora si sia salvato un amore, in questa vita che minacciava di portare tutto via con sé, con lui che non c'è più: nel doppio senso tra realtà e linguaggio. Tra quello che ci dice il silenzio e i ricordi che parlano. Oggi è la vigilia di Natale: stamperò questo racconto, aggiungerò un sorriso e una lacrima nell'oggi dove un allegro e anche triste ieri sopravvive. Ma noi chiudiamo la porta a ciò che è triste. Facciamo accomodare a casa tutto ciò che è sacro: i veri amici, le fotografie col suo dolcissimo sorriso, i suoi libri che mi avvicinano ancora di più a lui. Scriverò alla fine del mio racconto di Natale: "A Paterina, i miei auguri e la mia gioia di sentirla accanto, e se non riusciamo a usare verbi al passato parlando di lui, vuol dire che lui stesso non vuole, e che sarà continuamente un giorno di festa: noi tre insieme, come oggi, come sempre. Non ci sarà temporale che potrà dividerci, perché il calduccio della casa ha lo stesso dolce tono della voce di papà: le cui parole offrivano rifugio alla gente che disperava, o che era un po’ spaurita di fronte alla montagna della vita, quando si è tristi. Ora c’è solo una lunga distesa di pagine da riempire, con l’antico inchiostro. Una storia nuova e vecchia, qualcosa che non dimentica, ma che chiede di essere, di continuare a essere, con poesia, con forza
Id: 1703 Data: 25/12/2012 11:12:11
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Ricchezze d’altri mondi
La ragazza, Vicky, e la signora, Franca, erano in realtà due intellettuali che interponevano tra il pensiero e l'azione un poetico oceano. Erano sempre in alto mare, perse nella loro inerzia... che quasi la ebbero in odio. Infatti si decisero un giorno: essere più pratiche e tentarono nella loro profonda indolenza la strada della politica. Che avrebbe dovuto avere la funzione di svegliarle dal torpore, una risposta all'ozio che le rendeva due sonnolenti esemplari di bradipo, due mummie mezzo sorridenti, non del tutto perché lo sforzo sarebbe stato maggiore.
Allora conobbero un tipo mezzo matto, mezzo genio, che vendeva le sue ciambelle per la strada del paese. Questo tale si chiamava Fizio dell'Ori. E il suo rione d'appartenenza era Madonna del Soccorso. Perché quando lui passava la gente chiudeva le finestre invocando la sua Madonna, che li salvasse da quell'uomo e dalla tentazione di quel diavolo sempre iperglicemico.
All'angolo della stanza, le due amiche stavano lì a parlare e talvolta aleggiavano attorno a loro delle risate, come a dire: "che bella giornata, che bella la vita quest'oggi!" Ma poi tornavano mute, forse come a ricaricarsi dall'energia impiegata nel ridere. Fizio si avvicinò: la gente allegra lo rendeva intraprendente, e ne carpiva sempre più allegria da portare con sé nei suoi giretti per il paesino. Fizio era ricco, si diceva che fosse un parlamentare che però voleva mantenere quella vetrina di semplice e allegro venditore ambulante, con le maniche alzate e il sorriso alla portata della gente che incontrava. Ma il guaio era che non sempre Fizio era allegro, a volte aveva interi mesi di depressione... e allora cantava canzoni funebri e la gente si segnava con una furtiva croce, e invocava la Madonna del Soccorso.
"Franca, dobbiamo porre un argine al nostro ozio, affinché non ci mangi tutte". Vicky le diceva questo non senza una vaga ansia, forse era per quella che si manteneva in linea, coi suoi problemi di colite che erano la sua più fortunata sventura. Al che Franca approvò in pieno, come una botta in piena fronte, quell'azione di cui sentiva tutto il carattere pratico. E bisogna dire che loro vivevano come staccate dal mondo. Quando lo ricordavano, mangiavano... ogni tanto. Vivevano leggendo e perdendosi in pensieri distratti. Dovevano darsi la sveglia, ogni giorno, telefonandosi. Ma, puntualmente, la parola che si dicevano per telefono era: "Buonasera, e non buongiorno".
La politica era l'unica via per rimettere i piedi sulla terra e atterrare un po' a dispetto dell'ascesi che le innalzava e tagliava i fili che legavano agli amici e ai fidanzati rendendole delle entità aeree senza amicizie. Ma con una carissima amica: l'albagia di sentirsi più in alto di tutti. Si capisce adesso come un uomo, Fizio, talmente orizzontale da far invidia a un orizzonte, rappresentasse l'esigenza di un nuovo amico.
Lo incontravano ogni mattina: il primo passo fu questo: "svegliarsi prima del calar del sole". Lui era lusingato di avere come amiche due intellettuali, nel suo campo, in politica, non ne conosceva. Però, a rotta di collo, un danno seguiva l'altro: le due signore ne combinavano di cose: si addormentavano su quelle comodissime poltrone riservate ai pezzi grossi e poi dicevano che era impossibile non addormentarsi lì, e sputavano la colpa alle poltrone: le definivano tendenziose.
Ma Fizio le aspettava ogni pomeriggio per portarle a casa con la sua lambretta. E, a cavallo di quel destriero economico, tra ciambelle che facevano recuperare energie alle due donne stava Fizio che doveva stare attento alla guida con i gomiti perché con una mano mangiava la sua ciambella e con l'altra lisciava i capelli di Vichy e le sussurrava: "come sei dolce!", e lei rispondeva nervosetta: "certo, mi hai impomatato di zucchero tutti i capelli!"
In poco tempo le due politiche divennero davvero sospette, e il caso volle addolorarle con una colpa che non era loro: mancavano dal ministero del tesoro diversi soldini... e tutti sentirono che loro due dicevano: "il nostro tesoro ci aspetta, che bel giro faremo!", ma loro si riferivano a Fizio e al giretto nella mitica lambretta che avrebbero fatto. Niente di subdolo.
Infatti anche quel giorno Fizio le aspettava lì, all'uscita dal loro comodo lavoro. Era più allegro del solito, disse: "il mio motto è...", e le due donne conclusero, sorridendo, per lui: "tutte le mie opere hanno il buco. Sono tutte riuscite", Fizio dell'Ori diceva questo ed era un momento roseo della sua giornata. Il colore di questa parola lo fece sorridere, e gli occhietti divennero maliziosi, come due marachelle di bimbo.
E tra le risate, ponderate, dei tre scansafatiche, il vento girellando per il paese li contrariava confondendoli. Stava per arrivare un bell'uragano, ma loro scesero dal loro macilento destriero gonfio di ciambelle e a piccoli passetti corsero dentro casa. Le due amiche abitavano una al primo piano, l'altra al secondo della stessa palazzina.
Ma tanta era la loro vicinanza amicale, non proprio spaziale, perché le separava un piano, e quell'ascensore aveva uno sportello così pesante... mica era automatico come loro sognavano...
Quindi a supplire questa lontananza delle due, che vivevano come in una simbiosi divertita, c'era il provvidenziale telefono: regalo della tecnologia che alleviava le loro distanze. E le dipingeva di calore umano.
Ma tutto loro potevano immaginare, ma preferivano il minor dispendio di idee, perché se no le rubavano alle loro opere letterarie. Il telefono era controllato. Qualcuno spiava le loro conversazioni che ahimè erano innocenti, ma tutte le frasi involontariamente tendevano al fraintendimento.
"Il nostro tesoro, dobbiamo proteggerlo", disse Franca, e i due poliziotti si guardarono e dissero fra loro: "perché non dicono dove lo proteggono? che vi facciamo un salto... un salto scrosciante di monete…", disse un certo Ispezio dell'Oro che era pure corrotto come il suo collega. I due poliziotti pesavano ogni parola, sperando di pesare anche ogni moneta, allo stesso modo.
Le due signore continuavano a parlare del caro Fizio. "Per ora il nostro caro Fizio dell'Ori è entrato nel tunnel, è così triste". E al posto della brutta depressione i due capirono: nel tunnel della malavita. Mentre il lettore può dare la sua, di interpretazione. Certo, era che quell'uomo vagava nel suo tunnel buio e aveva lavorato così appassionatamente alle sue ciambelle, perché venissero tutte rigorosamente col buco che quasi quasi era finito prigioniero nel lavoro delle sue creature. Di cui vantava sempre la riuscita. Era un'artista delle forme tondeggianti e del varco di simpatia che si apriva fra la gente quando i suoi clienti si scansavano quando lui si avvicinava, per fargli posto. Alcuni per andarsene perché quella tentazione minacciava l'integrità di stomaco e di buon gusto.
"Se non fossimo passati da lui, avremmo ancora la nostra incolumità...", disse con un po' di rabbia la giovane artista, che si riferiva alla loro indigestione, poi aggiunse: "è da tutto il pomeriggio che vado avanti e indietro dal bagno, e getto tutto, è una liberazione gettare tutto". "Ma come?", disse Ispezio, "gettare tutto? dobbiamo impedirlo, si tratta di un capitale!" Il suo collega disse: "è pericoloso tenere tutti quei soldi, forse si sentiranno in colpa. Credo di cogliere un po' di rimorso".
La più matura delle amiche disse: "ma perché l'abbiamo seguito, il nostro Fizio? lì in alto a mangiare su quel colle, a festeggiare? Ma poi quanto c'era da mangiare!" "Ne desse un pochino anche a noi. Anche noi vorremmo mangiare!", disse il più corrotto dei due. "Ma ora non mangeremo più per una settimana, di questo passo". "Lo dicevo", disse Ispezio, "lo dicevo io sono impaurite e hanno fatto il fioretto di non mangiare più ingenti somme... ma noi no!" "Aspetta, la cosa deve essere molto più estesa del previsto. Hai sentito: dicevano che hanno seguito Fizio in alto, quindi è con altri potenti che hanno mangiato". "La solitudine è brutta", disse l'altro poliziotto, ma voleva dire: "la solitudine di una piccola banconota senza compagnia di altre..."
Alla conclusione della telefonata, le due si dissero di voler tornare alla più pacata vita d'artista. Franca disse: "ritorniamo alla solita vita, con le nostre risorse?" "Sarebbe meglio", rispose la cara amica e con un sospiro di sollievo disse: "noi abbiamo un pozzo da cui attingere senza fatica..." Al che i due colleghi si scambiarono uno sguardo d'intesa e dissero: "è fatta, dov'è questo pozzo?" E come in risposta, le due signore che continuavano il loro discorso, dissero: "dal pozzo dei nostri sogni. Le ricchezze che ci vengono incontro, così senza nessun sudore, naturalmente". Franca parlava serafica, poi ancora disse: "è un mondo, questo, che non ascolta più i suoi sogni". Il poliziotto disse, non senza una dolce lacrima in un viso così duro: "il mio sogno era quello di sottrarre loro il denaro per regalarlo alla mia mamma che vorrebbe creare un circolo culturale. E' una pittrice… la mia mamma..." "Mah", disse l'altro, "vediamo un po' dove abitano. Magari possono darci qualche consiglio, qualche sogno..." "Sì, siamo più ricchi. Ed essere ricchi, seppure in questo modo, è un sogno nella vita. Ma in fondo è bello essere ricchi, almeno in sogno. Prima non lo eravamo né in sogno, né nella realtà". E le due donne per telefono si salutarono piene di un dolce affetto, stanche della lunga conversazione, bramando il riposo; mentre i due poliziotti scoprivano di avere un cuore
Id: 1470 Data: 29/04/2012 12:46:25
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Andrea o l’inaccessibile felicità
"Su, Andrea, svegliati", la signora Depaupe diede un colpo al figlio che fermò il suo sogno e lo catapultò nel mattino. "Ma è ancora prestissimo, mamma!" Non ne voleva mai sapere di smettere i sogni e cominciare la realtà. La madre lo svegliava così presto tutte le mattine, perché se lo portava a lavorare. Andava di casa in casa a fare le pulizie e il ragazzo sempre con lei. "Per non farlo stare da solo a perdersi", diceva la donna fra sé. Andrea aveva tredici anni, ma era già uomo. La sua adolescenza se l'era presa la povertà di soldi e d'affetto. La madre, ovviamente, gli voleva bene; ma il sogno che lui custodiva profondamente era quello di crearsi una famiglia. E solo quello avrebbe fatto felice la vita. Andrea non si alzava dal letto, ancora, con gli occhi chiusi.... chissà se li aveva mai aperti... La madre era ancora nido per lui. Così anche quel giorno Andrea andò con la madre presso una famiglia accesa di felicità quotidiana: i bambini giocavano nell'atrio del palazzo e lui mai che avesse fatto parte di tale fortuna. Era sempre come guardare un bellissimo film, ma lo schermo era la resistenza alla gioia. Ciò che divideva amore e solitudine. Guardava le mamme, così prese a fare raccomandazioni ai figli: erano così mamme, e i bambini erano così bambini da correre quasi che la vita la sorvolassero tutti insieme, acchiappandosi e ridendo nelle giornate afose. E i papà erano così papà che i figli correvano loro incontro quando tornavano da lavorare. Insomma ad Andrea pareva che la sua vita non avesse la verità di quelle famiglie: lui aveva solo una mamma che parlava a schegge, frasi spezzettate e senza colore: mai un bacio in quelle parole. La donna diceva: "anche oggi abbiamo finito di girare, ma chi ci aspetta a casa?" Nessuno li aspettava, neanche il padre del ragazzo aveva aspettato che nascesse. Ma una malattia aveva desolato la luce d'amore che avvolge una famiglia. Stavano, madre e figlio, in una casa disabitata di parole e sorrisi. Però in quell'assenza tremenda di vita era sbocciato il desiderio di Andrea di sposarsi e avere la sua, di famiglia. Un sogno semplice, che era tutto per lui, ma niente nella realtà. Si girava e gli occhieggiava la sua immagine, alla finestra nera, sola nella sera. "Saper costruire una famiglia è cosa facile per chi ci è abituato, per chi l'ha avuta, sicura e calda come un nido. Insomma a me quest’idea sembra un animale bellissimo, ma aggressivo, e se apro la gabbia mi uccide. Posso solo ammirarlo e dargli da mangiare -attraverso le sbarre- i miei piccoli grandi sogni. E lo faccio con occhi pieni d'un amore che fa più male che bene.
La signora Depaupe disse: "oggi andiamo dalla signora Ginevra". Andrea ne fu entusiasta: quella era la famiglia più bella che avesse mai visto. Erano quattro i figli, l'ultimo nato era ancora di pochi mesi. I più grandicelli stettero con una signora anziana che badava loro. Mentre Andrea si fermò sulla porta, bloccato dalla visione della signora Ginevra che allattava il figlio. Era come un candidissimo abbaglio. E disse alla donna: "Siete una sola cosa, ora: come le case e il sole, come un bacio atteso o una promessa mantenuta" La signora disse che le sarebbe piaciuto parlare altre volte con lui. Disse che era sensibile come lei e poi aggiunse anche: "in fondo, in fondo sei un poeta". Ma lui rimase un po' interdetto perché la bassa stima che aveva di sé non lo portava a dirsi poeta. Così disse: "Io non sono un poeta e quindi non posso né decantare la famiglia, né farne parte. Questo significa che sento la voglia di narrarmi la storia dolce del futuro, ma il dolore mi nega le parole; e in ogni famiglia sono un ospite. Cioè non sto né di qua, né di là". Si fermò, poi con gli occhi che brillavano disse: "Nel cuore degli altri io non sono che un ospite".
Ripensò alle parole che disse a quella giovane mamma, e trovava ridicolo fare della poesia e poi non entrarci dentro. "I poeti dovrebbero scrivere della strada percorsa e non di quella immaginata..." E si perdeva in tali riflessioni.
Da un po’ di tempo, Andrea era diventato improvvisamente curioso di sapere degli zii che abitavano al nord. Si sentiva insofferente, sentiva il bisogno di saggiare una vita diversa. La madre gli parlò a lungo di tante cose, di come prima erano stati così uniti, e avevano vissuto insieme per tanti anni, fino a quando lei non si era sposata con un uomo molto più grande di lei e con tanti strani vizi. E così si trasferirono: avevano una catena di negozi. Ma non ne vollero sapere più niente della sorella ribelle e la lasciarono sola. Ma tanta fu l'insistenza di Andrea nel voler andarci che la madre gli fece un biglietto come si dice una scommessa. E un giorno via, partì. Lo zio Tommaso si mostrò cordiale, quasi affettuoso; e il ragazzo si mise a lavorare di buona lena. La sera a cena, la cugina, Sonia, si mise di fronte a lui, a tavola. Era un po' timida e lo sguardo sconfinava in una dolcezza mai vista prima in una donna. Facile come bere quel vino, fu innamorarsi di lei. Faceva l'attrice di teatro e ci teneva a sottolineare che solo ora, a trentacinque anni, aveva avuto il suo successo. "E' un mondo un po' strano, ma mi piace". Andrea, che aveva sedici anni ed era sognatore, ingenuo, saltò tutte le loro differenze e la scelse per la sua timidezza e i suoi modi gentili. "Che cosa conta l'età?", pensava, "ci sono coppie così diverse, eppure la gente le guarda e dice, guardando su, come ad aspettare una benedizione: <<L'amore...>>”
Presero a vedersi spesso: nel pomeriggio facevano delle passeggiate, poi lei sembrava quasi scappare da lui, quando guardava l'orologio e con un'espressione che era una smorfietta, diceva: "ora vado a teatro". O poteva essere il cinema, o chissà che altro. Ma tutto questo altro... senza di lui. Che si vergognasse di lui?
Lui non capiva se nella ragazza lui fosse spazio o tempo tolti, o cuore e mente da ritrovare... E si rodeva le notti e con lei era sempre più strano, più scontroso. Pensava: avere più soldi, più anni, più cultura? Io voglio solo dei capelli da pettinare con le dita come fossi vento fresco per lei, o essere un fiato che dia voce al segreto della notte. E poi svegliarsi e vedere nel suo viso il riposo che ha ancora le tracce del sogno. Intanto Andrea scriveva di più di prima. E le rime, anche quelle che piovevano sul foglio come lacrime, erano belle.
Lei un giorno, mentre si preparava per andare a teatro, lo incontrò sulle scale. Sonia era tutto un luccichio che poco aveva di vero. Le disse: "ti devo dire una cosa che mi brucia dentro". Lei, quasi infastidita: "cosa?" "Tu non ami nessuno. Tu vuoi solo recitare per sentire gli applausi. Non pensi a nessuno quando reciti. Solo alla tua voce e al tuo corpo. Perché l'anima è tutto un altro affare". Lei stette un po' in silenzio. Poi disse: "ma lo sai quanti anni ho?" "Lo so, ma la differenza che ci divide non sta in questo". "No?” “No. Tu hai avuto tutto. Basta guardare la tua famiglia. Io ho solo le mie parole nell'impallidire della sera e delle speranze. Ma non mi basta". Lei non sapeva che dire. Si guardava intorno e lui le sbarrava la strada. Poi le diede un bacio che le fece quasi male, per quanta rabbia vi era dentro. E così la lasciò andare via, lì, nel mondo del tutto già scritto, degli effetti speciali che non la sorprendevano più, al contrario della vita di lui. Questo era il teatro per lei. Lui ne aveva un'idea diversa, che sapeva di autenticità, ma questo lei non l'aveva mai capito. Eppure lui sentì che la vita che faceva lui, ordinaria ma piena di sogni, era più reale di quella di lei: realizzata e sdegnosa. E fu grato al suo dolore per averglielo fatto capire.
Andrea depose l'incanto -quello dei primi tempi- ai piedi della ragazza, lo fece con lo sguardo. I suoi pensieri erano così reali che gli sembrava di vederli. E lei con passo leggero si avviò per la sua strada e lui si disse: "sta pestando il mio incanto"
Id: 1243 Data: 04/11/2011 18:50:49
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Il disegno della bambola divisa a metà
Vincent era un ragazzo che ormai non aveva più una vita da ragazzo, era intelligente ma ormai la sua vita non era intelligente, ed era anche bello, ma con le ragazze venivano sempre fuori le ferite, e niente era bello. Lui viveva in un ospedale psichiatrico, sempre tra letto, finestra e i suoi ricordi. Si spaventava del presente, non riusciva a organizzare o pensare semplicemente a una vita fuori da quel luogo triste, da quella macchina che andava avanti a pensieri e passato. Ciò che ricordava era un mosaico spietato, scomposto di episodi, alcuni enormi. La cosa a cui pensava più spesso era che una volta, si era sotto Natale, la mamma decise di portare lui e sua sorella a farsi fare le fotografie come si usa con Babbo Natale e altri personaggi. Vincent aspettava a casa che venisse la mamma a prenderli. Insieme alla sorellina quante canzoni! Quanta felicità! Poi punita. La signora Geli disse a Vincent : “tesoro, andiamo, dammi un bacino”, però lo disse soltanto, ma neanche si avvicinò a lui. Diceva una cosa dolce, ma in lei c’era più sale di una statua di sale. E allora il bambino pensò: “Non mi posso abbandonare a lei, lei mi dà affetto con le parole e con i fatti me lo toglie”. Certo, a quattordici anni il ragazzo aveva già una serie di problemi non di poco conto. E sempre aveva in mente quella foto in cui la madre era seduta accanto a lui, con Babbo Natale, e gli poneva una mano sulla spalla, ma non sorrideva e gli occhi erano sperduti chi sa dove, in quale paese di strano dolore. Fatto stava che ogni Natale ritornava a camminare sulla crepa che divideva la vita e la morte. E quando la malinconia si faceva più acuta camminava avanti e indietro come a seminare per l’ospedale il suo io offeso, ma non ne nascevano musiche o parole. Tutto rimaneva dentro. Un solo abbraccio lo avrebbe salvato. Ma la sorella usciva tutti i giorni, presa dai suoi vestiti e adolescente, e non lo andava a trovare; il padre era malato La madre soltanto veniva a regalargli un po’ di neve, con sguardi indecifrabili, chiusi al mondo.
Lì in ospedale Vincent si mise a disegnare. Sentiva che in qualcosa doveva trasformarsi questa serpe che aveva dentro, per non avere più paura del suo veleno e poterla contemplare, innocua e perfino interessante. I primi disegni furono tutti contrassegnati dal doppio o dalla divisione in due di facce, oggetti… Un disegno che colpì il suo medico fu una bambola con una linea nera e bastarda che la divideva in due perfette metà. Ma a lui l’interpretazione del medico non interessava, lui voleva sapere se avesse valore artistico quello che faceva, tutte le altre cose le intuiva da solo. E quando l’uomo disse al giovane paziente: “perché disegni tutte cose divise a metà?” Il ragazzo rispose: “perché io sono diviso a metà”. “E perché sei diviso a metà?” “Perché nessuno ha riunito le mie due parti con un abbraccio. Tutti mi hanno dato solo forma e non sostanza, bellezza e non verità”. "Ora", gli rispose l'uomo, "devi pensare che la vita è bella. Solo questo". Il ragazzo assunse un'espressione quasi cattiva, disse: "perché mi dice questo? Lei pensa il contrario. Gliene importa qualcosa davvero di me?" Vincent evitava di guardarlo, o canzonava le sue frasi facendogli eco o ripetendo i suoi movimenti. "Li so benissimo i luridi trucchetti di voi dottori. La vita è bella, meravigliosa... La viva lei la mia vita, allora!" "Io non lo dico per dire. E tu hai bisogno d'aiuto". "Ma se anche chi dico io mi ha dato ghiaccio e mi ha detto di amarmi... Io a questo punto non credo più a nessuno. E se uno mi dice, qualunque persona, che mi vuole bene, ecco: sotto c'è un tranello".
E dicendo questo disse brutalmente al medico di lasciarlo solo, visto che aveva voglia di disegnare un po’. La stanza era come affetta da malinconia, un sole né bello né amico illuminava la stanza. Tuttavia non era meglio il buio. Poi il pomeriggio che finiva gli riservò un’emozione che cominciava. Una ragazzina, pure lei ricoverata lì, gli andò vicino e gli disse: “anche io ho quello che hai tu” Ma cosa avevano queste parole per emozionarlo tanto? Non avevano apparentemente niente di speciale, eppure gli piacevano perché non conosceva nessuno che capisse come si sentiva. Lui sorrise, scoprendo di saper provare ancora un’emozione. Il mare scioglieva i grumi di sale che gli parevano eterni nel cuore. Allora esisteva ancora il mare, da qualche parte, quello che placa e che non si può dividere in due. Pensava con aria di importanza e contentezza: “il mare non si può dividere in due, così come dovrebbe essere il sentimento”. “Ho visto i tuoi disegni”, disse la piccola ragazza, si chiamava Vera, coi polsi fasciati e gli occhi dolci. Vincent sussultò, questa frase lo colse all’improvviso, disse: “ti piacciono?” E lei: “Molto” “E perché?” “Perché anch’io mi sento come i tuoi disegni”. “Bello”. Ma era quasi ora di cena e il ragazzo non era abituato a così tanta delicatezza, e soprattutto a qualcuno che sfiorasse il suo mondo senza essere un medico. Ma una semplice ragazza con la sofferenza ai polsi e una voglia di vivere tumultuosa negli occhi. “Ma che ne so io delle ragazze?”, si diceva rabbioso con se stesso. Lei era veramente carina. E poi aveva una voce delicata, era come se con la voce bussasse cortesemente ai pensieri di lui. E poi, pensava lui, sicuramente non era divisa a metà e sapeva abbracciare e riunire le due parti in lotta mortale fra loro. “Forse lei è il mare, l’indiviso… penso cose assurde!”, si diceva. E un nuovo senso come una nuova luce gli giocherellava dentro. Durante la cena i due si misero accanto e lei gli diede il suo pollo, e lui la ringraziò e in quel gesto c’era più amore che in tutte le parole della signora Geli. Poi si coricarono e ognuno dalla sua stanza immaginava amore. Era l’amore chiuso da anni in loro, come un bandito pericoloso, e ora improvvisamente innocente e puro come un bambino piccolo. La madre di Vincent venne a trovarlo, gli portò dei dolci ma lui li assaggiò e disse che erano amari. E la mamma: “ma come possono essere amari i dolci?” “Mamma, fidati, i dolci sono amari”. Tacque un attimo e poi disse: “lasciamene due, li mangio dopo” Invece voleva darli a Vera. Con lei le cose dolci erano sempre dolci. Non c’era contraddizione in quella piccola amica. E quindi ci si poteva abbandonare senza rischiare l’amarezza.
La cosa bella era che ora non si sentiva più distaccato dal mondo. E non sentiva più le voci, quelle voci che erano i simboli del calvario, che gli ordinavano di non amare la vita, che lo costringevano a parlare ancora con il passato e ad uscire devastato da questa conversazione. Ogni voce era una spina che lo faceva maestro dell’abisso. Ma ora qualcosa aveva smesso di sanguinare in lui. Ma la ferita era ancora aperta e si chiudeva quando si apriva il sorriso di lei.
Il mattino ora aveva sguardi migliori. Dalla finestra il mondo non era sparito e Vincent avrebbe voluto camminarci allegramente con lei. Sapere che le strade aspettavano i loro passi leggeri e che il vento voleva raccogliere le loro parole per farle migrare dove non c’era più pianto: questo voleva. I giorni passavano tra dolcezza e malattia. Non c’era carezza senza pianto, non c’era ricordo senza comprensione. Non c’era cicatrice che non avesse un senso. Ma poi la ragazza fu dimessa e di nuovo cominciò a nevicare dentro Vincent, cominciava a considerare inutile mangiare o dormire. E pensava sempre che il freddo era il tormento della sua vita. Eppure lei aveva saputo sciogliere la neve con il calore del suo corpo in ascolto, come anche il corpo fosse stato anima. Il medico gli faceva iniezioni per stimolare l’appetito. Una vecchia zia gli portò una camicia nuova. Lui non vedeva niente tranne due ragazzi che camminavano leggeri per la città buona, la città bella che li voleva. Insieme. “Non lo voglio più il Natale! Non voglio le luci accese delle case dove all’interno non c’è amore, e le fotografie con i simpatici personaggi delle favole bugiarde”, poi pensava: “se io fossi uno scrittore, scriverei favole solo vere e accese di un amore gigante, tutto quello che non ho avuto”.
Un giorno Vera fece una sorpresa a Vincent. Si presentò sulla soglia della sua stanza e ancora lui non poteva crederci. Aveva in mano un grosso girasole che sembrava irradiare desideri di vita per la stanza. Lui la abbracciò, lei ricambiò perché lei era il mare, indiviso e buono. “Ciao, ti aspettavo”, il viso di Vincent era tutto lacrime piccole, bambine, dimenticate. “Ci tenevo a venirti a trovare perché ho pensato che è vero quello che dicevamo, cioè che ci perdiamo negli altri, che abbiamo paura di fonderci con la gente perché la realtà non è solo buona, ma in lei sonnecchia il suo contraltare”.
Lei aveva una borsa molto colorata e i polsi non erano più fasciati. Gli occhi ridevano, adesso. E lui disse: “Sì, ma io ora ho la misura dell’infinito nel tuo abbraccio. Prima avevo la misura del vuoto d’infinito della vita...” “E io ho capito che il dolore finisce quando comincio ad annegare in te”, detto questo sottovoce, la ragazza disse entusiasta: “La città ci aspetta!”
Silenzio, poi lui disse: “ti racconto una favola: c’era una volta un bimbo che era figlio dell’inverno, ma aveva la missione di essere uno scopritore di terre lontane, quelle dove è sempre estate. Ma poi gli spiegarono che dopo l’estate c’è sempre l’autunno e lui pianse forte. Poi però capì un segreto: dentro l’inverno si può accendere un fuoco e scaldarsi, o abbracciarsi tra la neve ed essere tu stesso fuoco. Così come io adesso rido fra le lacrime con te”. “Eh già”, disse lei, “è una bella favola, e questa favola è nata dal suo contrario. Come succede con tante cose belle”. Poi lui spaventato disse: “ma tu sarai sempre così? Sempre come il mare, non ti taglierai mai a metà?” “Mai”, promise lei. “E se dovesse avvenire, tu abbracciami e riunisci le parti”
Id: 1173 Data: 09/09/2011 10:56:06
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Il mondo del lettino
"Bimbo piccolo ha paura grande... " Era davvero un bambino piccino che pronunciava queste parole; la famiglia lo amava, ma aveva anche cominciato a temerlo, in casa erano imbarazzati quando lui parlava. Infatti lo considervano un bambino un po' pazzo. Asociale e scontroso. All'asilo passava ore a guardare i compagnetti giocare e lui avrebbe voluto unirsi alla loro allegria, ma pensava sempre che loro erano bravi, belli e simpatici e lui non era né bravo, né bello, né simpatico. Lui era quello che aveva un'altra vita nascosta nel buio della sua stanza e, proprio quando la mamma gli spegneva la luce, la sera, si accendeva un mondo fantastico con tanti, tanti amici che gli volevano bene. La maestra era anche lei come tutti gli altri del mondo fuori dal lettino. Anche lei non capiva. "Certo, il mondo del lettino è fatto per bimbo e basta", diceva il piccolo. La giovane maestra un giorno volle parlare con la mamma di Facito, questo il nome del bambino. Si incontrarono in una mattina, e tutto sembrava pesante. Facito aveva cominciato a piangere già da quando era in macchina. E aveva continuato alla vista della maestra. Lui pensava: "Ora mi levano il mondo del lettino e i miei amici!" E la disperazione era quella di un esiliato dal suo paese buffo e necessario, e costretto a vivere in un paese, invece, dove c'è solo profondo pianto. Poi il bimbo si mise a giocare, sempre con un'aura di tristezza sul viso delicato. Quasi senza voglia, senza energia, si mise a giocare col trenino. Poi gridò: "mamma, mamma, quando è stanco il trenino dove va a dormire?" "Sta un po' fermo alla stazione, gli danno a mangiare il carburante e poi va di nuovo", disse la mamma, ma Facito voleva sapere tante cose. "E quando dorme è solo?" La maestra disse: "tutti quando dormiamo siamo soli" "Bugiarda, la maestra è bugiarda!", il bambino piagnucolava. La mamma: "mi scusi, signorina: è un problema, davvero, educarlo" Il bambino disse: il treno ha pure i suoi amici quando va a dormire. E io lo so" Poi con molta convinzione, buffa per un bambino così piccolo e che strascicava le parole: "il trenino si stanca di sentire tutte le persone che litigano: le valige pesanti, gli orari delle partenze... " Poi con aria d'accusa, disse: "Non è bello che il trenino debba sentire sempre le liti, le grida, il chiasso. Non è bello. Poi la notte lui incontra i suoi amichetti e sta bene con loro perché loro gli vogliono molto bene e parlano tutti a voce molto bassa, e si dicono: <<tesoro, amore, gioia>>" La maestra e la mamma erano senza parole. Ci sarebbe voluto uno psicologo, ma quando la maestra lo fece presente alla sua interlocutrice, questa si scandalizzò e disse: "noi non abbiamo familiarità con queste cose. Cercheremo di aiutare nostro figlio come meglio possibile" Poi sembrò commuoversi, ma forse di più per se stessa, per l'immagine di sé che stava costruendo alla donna che l'ascoltava: "Sapesse quanti soldi spendiamo per lui... Fa piscina, ha un maestro di pianoforte, ha un letto a castello. E' un principino" La maestra chiese da cosa nascesse questa irrequietezza del bambino. L'altra le rispose: "forse è nato così. Noi siamo tanto a posto, sa? Certo spesso litighiamo, ma lui non se ne accorge perché lo metto nella sua cameretta con i giochi e gli chiudo la porta. Gli dico che quando vuole qualcosa non deve fare altro che bussare" Questa era la loro filosofia stupida. Ma il bambino sentiva le liti anche con la porta chiusa, anche se non c'erano liti sentiva il clima di guerra, e la sua trincea, dove per poco poteva stare al sicuro, erano i sogni della notte. Mentre se ne andavano via, la mamma disse: "papà ci aspetta, andiamo!" Ma il piccolo voleva capire il mistero del trenino: "mamma, ma com'è che il trenino va così veloce, da dove la prende tutta questa energia?" "E' elettrico, l'hai detto tu" "Sì, mamma, ma io dico: se lui soffre per la gente che si lamenta sempre di giorno, e poi di notte non vede i suoi amichetti e sta solo...io questo non lo capisco!" "Un trenino è solo un trenino" "No, un trenino è importante perché è un viaggiatore, è uno che conosce il mondo brutto ed è per questo che poi si ferma alla stazione, perché ha bisogno d'affetto, di entrare nel suo magico mondo, dove c'è l'amore e sono tutti belli" La madre era sempre più spiazzata e gli disse: "bimbo ha troppa fantasia. Quello che dici tu è un mondo di fantasia..." "No, mamma, non fare pure tu la bugiarda come la maestra!" "No, non ti preoccupare, che mi devi dire?" "Volevo dire", disse lentamente, ceracando le parole, " non è un mondo di fantasia, mamma" e si andava infervorando sempre più: "io quando mi sveglio ho le lacrime agli occhi e sono vere come la sensazione di buio al mattino, e fuori c'è il sole... oppure rido e ancora sono caldo degli abbracci che Herr e Frau mi danno... E sento le loro parole. Mi dicono: <<Ti insegneremo a essere come noi>>, perché loro sono giganti, sai? Loro sono pure grandi come voi, mamma e papà, ma voi in confronto siete piccoli come bambini". E si mise quasi a sghignazzare per quanto lo divertiva questo paragone. Poi però disse: "Mamma, scusa" Lei era quasi ammutolita, però gli chiese con un soffio di voce: "E come sono questi Herr e Frau? Sono simpatici?" Il bambino era entusiasta della domanda e si mise ad andare lontano con lo sguardo. Sembrava che tirasse fuori dalla sua miniera sapori, colori, stelle filanti, abbracci, compleanni, fiducia, splendore... "Sì, mamma, loro sono meravigliosi: Herr ha la barba lunga e bianca, ma fino a terra! E a volte io mi metto seduto sulla barba che striscia per terra e mi faccio portare, come su un tappeto volante... che bello! Perché, sai qual è la cosa più bella di tutte? lui va forte e io non cado perché con loro non succedono mai cose brutte. Se io sbando e sto per cadere lui subito mi afferra con una carezza. Lui mi vuole bene. E anche Frau". "La mamma, confusa, disse: "E com'è Frau?" "Gigante anche lei. E' bella, con gli occhi dolci, ha delle ciglia così lunghe che quando sento caldo lei le sbatte e c'è un bellissimo fresco. Perché loro sono diventati giganti perché hanno avuto un papà e una mamma giganti, e loro mi dicono sempre che mi danno baci e mi amano così divento un gigante come loro... Ma t'immagini! Stupendo! io un gigante! E poi faccio diventare così anche voi, che siete piccoletti, anche voi sarete dei giganti. Promesso!" E così dicendo si baciò le dita con l'altra mano sul cuore. La mamma rise, ma non l'abbracciò: "Il mio piccolo eroe. Vado a preparare il pranzo, Facito" "Ma, mamma, lo sai che questi giganti non mangiano, si nutrono delle cose che leggono e dell'amore..." "Sì, ma noi umani dobbiamo mangiare..."
Già il bambino pregustava la notte che era vicina quanto il suo desiderio di quel regno, tanto più reale per lui quanto più forte era la delusione del giorno. La mamma gli diede la buona notte. E lui le disse: "Io spero che un giorno conoscerai anche tu Herr, Frau e tutti gli altri. Sono tanti, mamma!" La mamma spense la luce, e si sentì come spegner il cuore. Com'era lontano il suo bimbo dalla vita di ogni giorno! Non riusciva neanche a fare i compiti, non si vestiva da solo, prima di alzarsi, al mattino, indugiava un bel po', con gli occhi ancora chiusi, ma sveglio. Ma forse era lei a essere lontana dalla vita e non lui. Lui un giorno, magari da artista, avrebbe fatto ritorno al mondo portando in dono il suo mondo personale. Avrebbe fatto il più largo e meraviglioso viaggio per poi portare dei regali luccicanti di colori a chi era grigio.
"Mamma, dove hai messo il parrucchiere per matite?" "Cosa dici?", la mamma a volte non lo capiva. "Sì, mamma, così lo chiama Frau". "Ah, il temperamatite, vuoi dire?" "Brava, mamma, ma vedi che loro sono più divertenti delle persone di qui? qui infatti non sanno parlare come i miei grandi amici. Non mi piacciono le loro parole che sento nel giorno, soprattutto quando rimproverano. Herr invece non mi rimprovera mai. Mi dice che posso dire tutto perché in Mondomio tutto è buono e le cose brutte quindi non vengono neanche in mente..." Tacque un momento assorto in un pensiero per lui importantissimo, poi disse: "Mamma vorrei che tu venissi là, con me. Sono sicuro che diventeresti un gigante anche tu". I suoi occhi erano tristi. E la mamma gli accarezzò i capelli. "Lo vedi, mamma!", esplose di gioia il bambino, "io ti parlo di loro e tu mi accarezzi, sono sicura che li hai visti anche tu. E' perché te ne ho parlato? Confessa!" E rideva felice. "Buona notte, Facito" "Buona notte, mamma. Ah, non chiudere la finestra, ok?" "Cerca di dormire" "Certo che dormo, i miei amichetti mi aspettano e anche i pulcini che devono nascere. Sono zebrati, quelli più vanitosi, con colori fosforescenti... e sono teneri... e sono anche furbi perché essendo così belli e teneri si fanno accarezzare sempre!" "Basta", lo interruppe la mamma, "dormi, ora". E si prese il capo tra le mani e cercò di ricordare se nella sua famiglia ci fosse qualche caso strano, qualche disturbo. Poi si disse: "No, io dallo psicologo non lo porto. Gli passerà"
Il papà di Facito spesso era assente, e sia il bambino che la moglie ne risentivano. Una mattina, Facito si svegliò e disse: "Herr e Frau si sono sposati, mamma. Erano così graziosi: lui le ha detto: <<ti starò vicino sempre>>, e ha legato la sua barba al collo di lei, come una sciarpa. Avresti dovuto vederli, mamma!" La mamma sorrideva, ma il bambino si accorse che quella era una contrazione dei muscoli facciali, e basta. Invece la mamma era molto preoccupata, ma non sapeva essere diversa. "E' meglio che stiano uniti, perché poi il piccolo che nascerà potrà fare il coro con loro". "Il coro?", la signora non capiva. "Sì, certo, il coro. Quando un bambino è piccino la mamma e il papà cantano con lui. E lui impara che la musica è la cosa più bella del mondo perché puoi parlare del mondo in un modo... buono... e se lo fai in coro a chi ti vuole bene... ti unisci a loro. Io", e qui si rabbuiò un po', "io non ho mai cantato insieme a nessuno, però la musica è sempre nelle mie orecchie, forse perché voglio cantarla un giorno a qualcuno, e lui poi mi amerà" "Sì, bimbo, sì", la mamma era commossa, ma allo stesso tempo non riusciva a capire se fosse un bene o un male avere un bambino già adulto nelle sue discussioni. Certo era innaturale. Le faceva paura.
Segretamente dal marito, che la pensava come lei riguardo la psicologia, andò da un suo vecchio amico che aveva lo studio vicino casa della signora. La donna si sentiva priva di forze. Bussò lievemente, come a bussare fosse la sua paura. "Prego, avanti", una voce sicura rassicurò la mamma che entrò e prese posto. I due si guardarono sorridendosi, poi si dissero qualche frase di circostanza, ma poi tre parole caddero come un macigno sopra di loro: "il mio bambino!" "Calma, non gridare così", disse l'amico. "Come faccio a non gridare: mio filio è... mio figlio è... anormale" Gli raccontò nei minimi dettagli tutto. E alla fine il medico disse soltanto: "ci vuole più amore"
Con questa frase, ed era una frase che le piangeva dentro al cuore, ritornò a casa. Il bambino la aspettava insieme al papà davanti alla finestra. "Scusatemi", fu tutto quello che riuscì a dire lei. Poi lo ripeté, pregna di dolore: "scusatemi" "Perché la mamma dice sempre 'scusatemi'?" "Forse", disse il papà, cercando di essere credibile, "forse è perché è in ritardo e noi l'aspettavamo. Guarda l'orologio!" Tutti e tre contemporaneamente guardarono l'orologio, come in un incanto. Poi il bimbo disse: "lo sai, papà, che nel Mondomio quando tu chiedi che ore sono, tutti rispondono: <<l'ora di abbracciarsi>>. E se dici: <<scusa il ritardo>>, loro dicono: <<allora abbracciami più forte>>. "Ah, sì?" Il papà e la mamma si asciugavano le lacrime, facendo il possibile per sembrare disinvolti. Eppure, per la prima volta, quelle lacrime a lungo trattenute, ora erano quasi delle lacrime felici. E solo delle lacrime felici possono fare dei bambini felici. Ma com'è che ora mi abbracciate? Avete parlato coi giganti?", chiese Facito. "In un certo senso sì", disse la madre. "Continuate ad abbracciarmi, così diventiamo tutti altissimi!" Quasi non si volevano più lasciare. Poi Facito disse con forza: "anche il trenino va nel Mondomio, io lo so... però secondo me tutta l'energia per correre gliela mettono le persone buone, anche di giorno. Perché se no, lui vive soltanto quando è fermo, invece, oltre alle grida ci sono gli innamorati che si baciano alla stazione, le mamme che salutano i loro figli. Tutte queste cose, capito?" "Bravo, amore", disse il papà. "Mondomio esiste quando spegni la luce, è il mondo del lettino. Ma io mi sentivo come... come ve lo spiego? mi sentivo un poco senza forza, nel mondo del giorno, come se la luce mi bruciasse gli occhi, non volevo fare i giochi dell'asilo con gli altri bambini... però ora io so che qui, nel giorno, ci sono cose che io racconto e persone che mi ascoltano. E' come se fosse ogni mattina Natale... sempre regali!!" "Sei tu il nostro regalo", disse il papà. "Sì, ma tu poi parti!", così si lamentava quell'angelo monello. "Io parto come il trenino che si deve ricaricare e che poi torna. Perché senza di voi non ho più energia" Facito cambiò discorso: "Sapete come nascono i pulcini nel mondo del lettino?" "Come?", disse la madre divertita. "Da un bacio. Frau dice le parole magiche: <<caro pulcino, è il mio bacio che ti chiama al mondo. Tu senti il bacio che io ti do e puoi nascere sicuro e felice e ricercherai sempre, tutta la vita, questo bacio. Se la vita non te ne darà>>"
Id: 1169 Data: 06/09/2011 12:01:15
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La barca capovolta
Stava sorprendendolo di nuovo il ricordo –quello che lo mordeva e gli rimordeva da tanto tempo, insidioso come un verme in un frutto: il frutto più delizioso di tutta la sua vita: averla amata. Che cosa rimaneva di tutta quella poesia, ora scottante, a quest’uomo? “E’ orribile”, pensava, “come quei giorni, che io ho amato come il figlio più caro, adesso mi riconoscono come un padre degenere. Eppure li ho amati, li ho partoriti io. Sì, questo è stato il mio destino. Destino! Questa parola mi tormenta, fosse una parola! Invece sono mille, duemila, milioni di parole… il che vuol dire ricordi, splendente bellezza di un viso che ora uccide, sogno che prima era intero e noi eravamo due, e ora io sono uno, uno!, e il sogno è in mille cocci, così aguzzi che mi hanno tagliato il cuore irrimediabilmente. Sì, perché non credo più a niente ora, dal momento che ero signore e padrone nel sentimento, avevo braccia, ormai inutili, per sembrarle il mare e lei nuotava dolcemente aggrappandosi a me. Avevo storie che inventavo io stesso, e lei come stregata… ah quanto male le ho fatto, egoista!, lei stava assorta ad ascoltarmi, piccola, innamorata, e con una curiosità un po’ spaventata, come una bimba emozionata al primo giorno di scuola. Tutto questo onore era per me! Pensavo fosse una bella cosa, mi dicevo: lei mi ama moltissimo, lei ha un disperato bisogno d’amore e io ho bisogno di sapere che la sto aiutando. Non è solo per me che l’ho fatto, credetemi, io l’amavo, e l’amo ancora… ma sapete l’errore dove è stato? Bene, l’errore era che io sapevo che non sarei restato a lungo nel piccolo paese dove abitavamo, e tuttavia l’ho illusa che sarebbe stato per sempre. Il fatto è che anch’io avevo bisogno di essere amato e l’ho illusa, quindi, per illudermi”.
Il nome dell’uomo, beffardo e sincero: Primo Re, era uno specchio macchiato di sangue, che gli rimandava con lancinante precisione tutto ciò che era stato e, quindi, tutto ciò che era. Forse il primo dei re del rimpianto e del senso di colpa, il primo, il sopravvissuto re che ha escluso tutti i suoi compagni, sapendo che, se prima era stato il re di una doppia felicità, ora era il re della passata felicità, vale a dire il re del ricordo, del bicchiere a volte usato come confessore e poi come fanfarone che cambia la realtà e inganna con amore chi soffre, come sonnifero; il re dei colori sbiaditi, dei sorrisi anziani nella spontaneità. Prima tutto era naturale come fare l’amore con chi si ama. E ora? Ora l’unica compagna di questa penosa e pesante solitudine era la musica. Qualche briciola di dolente poesia era rimasta nella sua anima. E anche se non parlava con nessuno da mesi, non si era arreso al silenzio dei ricordi che è la fine di tutto. Quei ricordi continuavano a cantare attraverso i suoi dischi. E, se anche soffriva, era meglio una malinconia autentica che un’ allegria fasulla. Lui era sempre per la verità. Solo quella frase, sarebbe bastata solo quella: <<senti, io poi partirò>> Questa sì che era la verità che lui avrebbe dovuto dire, ma non era mai riuscito a pronunciare queste poche e brucianti parole. E anche ora, a distanza di anni, queste parole continuava a non ascoltare. Il suo sbaglio più enorme: fardello di ieri, flagello di oggi. Amari i momenti in cui questa consapevolezza diventava una croce e una bocca. La bocca lo attirava e la croce poi lo feriva. Anche la sensualità di lei, del ricordo, continuava ad agire su di lui: amava quello che era stato e quello che non poteva essere più. Ma il suo corpo era triste e la stanza era vuota. E quasi odiava il suo corpo, che era ormai dove la strada diventa più buia. Con lei giocavano a indovinare l’estate, con lei tutto era così meravigliosamente nudo, i corpi come il cuore. E anche le parole che sognavano insieme erano nude di censure e aperte come un regalo.
Primo Re faceva, che terribile e simbolico gioco della sorte!, i tarocchi alla gente. Aveva bisogno di pensare al destino degli altri per non pensare al suo. “Cosa mi riserva il futuro?”, una donna truccatissima e incerta domandò all’uomo. Questi fece un sorriso pieno di lontananze; come ogni volta quando gli facevano una domanda come questa.
La donna, toccata anche lei forse dalla medesima, offesa solitudine, sprofondò in uno sguardo senza più occhi, viaggiati lontano per non soffrire il presente di quelle parole. “Allora?”, fu il duro aggancio di lei alla realtà. “Qui vedo dei giorni”, l’indovino disse, “tanti giorni che non hanno più il piacere del loro scorrere. E una stanza vuota, una casa senza amore e senza bambini, non sento musica nel suo futuro, insomma”. “Lei è cattivo però! Mi scusi!” “Io ho imparato a capire gli occhi, mi perdoni, signora” “E a che scopo demoralizzare la gente?”, quanta sofferenza in questa domanda. E anche quanta paura. “Per unirci, perché un corpo ha bisogno di vuoto per muoversi, lo ha studiato anche lei, no? Ma è un concetto meno filosofico di quanto si possa pensare. Cioè, mi spiego, per incontrarci ci vuole il vuoto del dolore, per poter compiere il passo che ci unisce. Se non ci fosse vuoto… va bene, diciamo spazio (che fa meno male) fra noi, non cammineremmo più l’una verso l’altro” “Ma è strano: ora non mi sento tanto sola, nonostante abbia la mia sorte!” “Allora ha visto che il discorso sul vuoto è vero? Tutto sta nell’incontrarsi e poi le lacrime fanno il resto”. Improvvisamente venne a Primo un desiderio spietato di dire qualcosa di buono a qualcuno, fosse anche una piccola bugia. Ma voleva crederci, era come fare il ruffiano col destino, voleva un piccolo regalo, magari che una donna gli dicesse: “anch’io ci sono passata e ancora soffro, io ti capisco. Possiamo riscrivere una storia, diversa e felice, insieme!” Questo era quello che sognava. Una, solo una che comprendesse il suo passato e come si sentiva ora. E poi forse si sarebbero addormentati fantasticando la vita che li aspettava da tempo. Aveva paura di essere solo un bimbo che pretende tutta l’attenzione, che piange e batte i piedi, perché nessuno si accorge di lui e Primo Re quasi si era abituato ad essere trascurato e anche la felicità gli sembrava un affare non suo. Ma appannaggio di chi se la merita e lui era quello che aveva illuso, lui era l’usuraio della felicità, a buon prezzo ma con alti interessi… un discorso come questo, così assordante, non gli faceva sentire la felicità. Poi si sentiva simile a Beethoven, con la stessa condanna: quella di non sentire più, ma quella di lui era più grave perché non sentiva più col cuore. E avrebbe voluto essere come il compositore per non sentire più le voci attorno a lui, e invece ascoltare soltanto la passione, la musica che si ha dentro. Non aveva più voglia di sentire il mondo, che gridava così forte! Voleva solo sentire le voci di dentro. Voleva solo ricordare in pace. Era il più lieve dolore che gli potesse capitare, tutto pur di non pensare alla casa vuota.
Le bianche tende erano -la notte- fantasmi che si prendevano, per vivere, la sua stessa vita. E solo così lui sentiva di vivere, vedendo danzare quelle creature, quegli incubi leggiadri come era per lui ora la ragazzina triste della sua gioventù. Si potevano amare -l'uomo e il suo ricordo- la notte, grazie allo sfinimento che dopo avere bevuto lui conosceva. E allora i movimenti divenivano lenti, quasi dolci, e lui con il lasciapassare del vino, entrava nel suo passato e fra le braccia di lei. Niente gli gridava la sua colpa perché era come amarla da lontano e dirle ancora: “scusa, piccola, se ti ho fatto così male, ma io ti amo ancora come vedi”. Poi al mattino puntuali le cattive parole assassinavano il ricordo. Ciò che la notte era dolce, di giorno era una macchia. Lottava con se stesso per evitare di pensare alla bellezza della ragazza, ma così evitava, come un terremotato dell’anima, la sua salvatrice: la bellezza della vita. Perché vita era anche saperla –invisibile- dormiente sul suo letto e invitante di sapori. Tutta questa sua poesia non sapeva arrivare alla coscienza –era una poesia dolorosa- e restava confinata nella notte del rimpianto e della colpa. Solo prima tutto era diverso: anche la biancheria abbandonata dovunque –allora- era più ordinata e giusta che adesso i suoi pensieri e la sua vita. Continuava a pensare che lei era una ragazzina distratta e disordinata, ma creativa perché l’amore la faceva artista. E anche lui. Ed erano allegri, clown di se stessi… Certo, lei era una ragazza di suo molto triste ma l’amore aveva cambiato le loro facce. Lui aveva voglia di dare gioia a lei e lei urgeva d’amore. Anche l'occasionale rabbia di un momento, anche la noia, tutto era animato da un’energia radiosa che li avvicinava nell’alba che tutti sognano nella vita, nell’alba dell’incontrarsi che giustifica tutte le notti solitarie e senza significato di valore. Primo uscì, una sera, ne aveva poca voglia, ma si accorse che non poteva stare a casa, che aveva bisogno di aria pulita e immemore.
Col cappotto vecchio e logoro, voleva quasi nascondersi, andò dritto in piazza a fare il suo lavoro. Non salutava nessuno, non vedeva nessuno a parte tante sagome scure e lontane come le barche che vedeva dal lungomare. E lui era più lontano delle barche lontane, più inconscio e doloroso di loro, più solo di chi si perde perché forse ha paura di trovarsi e preferisce la notte che verità lampanti, come il giorno, che però aspettava e che sembrava un sogno di mai.
La stessa donna lo aspettava seduta sulla seggiola al tavolino dove di fronte a lei lui si sedette. Lei aveva un’aria così innocente e dolce, e soprattutto soffriva. Lui poteva quasi sentire le parole di questa sofferenza, gli parlava una lingua ben familiare. E si sentiva grato a quella donna che non aveva giudizio per le colpe dell’indovino triste. “Ciao”, e dicendo questo la signora mise una mano su quella dell’uomo che un po’ impaurito ma con un incerto sorriso, si ritrasse di un poco. Era emozionato e silenziosamente felice, respirava l’aria del mare ed era diversa. Ovvio che pensava sempre al suo dolore, ma qualcosa non era più come prima. Lei percepì questa piccola emozione e sorrise, non intorbidendo lo sguardo cristallino e leggermente velato. Era bellissima. “Allora”, Primo cercò le parole, “allora… vediamo le carte…” “Non me ne importa delle carte, so già che saranno fortunate. E’ inutile farle. Voglio passeggiare con te lungo il mare” Primo si lasciò sfuggire un deciso: “perché no?” e prese per mano la seconda occasione di vivere. “Mai credere troppo al dolore, se no poi lo viziamo e lui vuole essere pensato sempre” Lui le rispose: “Così non l'avevo vista mai, la cosa” “Dobbiamo solo considerarlo”, nella voce di lei c’era umiltà, "in quanto insegnante e poi staccarcene, mai restare attaccati ai maestri. Ma diventare noi i maestri. Che ne dici?” “Dico”, rispose lui, “che sei più forte di me e se diventi la mia maestra non mi staccherò mai da te!”: Le risate si propagarono per il mare e salirono al cielo e riempirono lo spazio vuoto che vuoto non era più. E questo era l’inizio di una guarigione, era la sera che diventava più chiara, erano gli occhi che guardavano anche le immagini della mente e le commentavano col cuore. Erano due dolori che si capivano e si quietavano spiegandosi a vicenda con parole buone. “Io”, disse a un tratto lui, mordendosi le labbra, “ho lasciato che lei si illudesse, sapendo di avere il tempo contato. Dovevo cambiare paese per ragioni importanti, per seguire quello che volevo essere: un pittore famoso. Eppure era più bello, ora che ci penso, essere un pittore famoso ai suoi occhi. Poiché ogni suo giudizio era sentito e io lo sentivo, tanto…” “Dai”, disse la donna, “tu la puoi dipingere, ti aiuterebbe a ricordarla. A non cancellare il tuo passato” “E’ vero, ma io non dipingo più da quando ci siamo lasciati. Non posso dipingere più. Capisci la tragedia sopra la tragedia?” “Certo, e io che pensavo, senza neanche saperlo: deve essere un artista.” “L’hai capito? Davvero?!” “Non potevi essere un indovino senza essere un artista”. “Grazie. Ma sai?”, l’animo dell’artista si risvegliava, “ma sai, io non ho smesso mai di esserlo anche se non dipingo più. Io dentro di me dico: questa giornata è un quadro con colori caldi, è piena d’amore… come… come questa… anche se è sera!” “Sì, è un quadro di magia!” “Vero”, Primo sembrava colpito da quelle parole perché erano precise e belle. Erano piene di loro. Mentre lui parlava e raccontava tutto quello che gli veniva in mente, anche le cose più insanguinate oppure sporche, lei manteneva, brillante più della gioia, il suo sguardo da cui lui si sentiva accarezzato. “Lei mi ha detto: <<sì, è meglio che fai l’artista, sei così bravo e io sono così triste che potrei rendere triste anche te. E sarebbe un peccato, visto che i tuoi dipinti sono pieni di vita…>>” Stette in silenzio per lunghi minuti, come piangendo dentro, poi disse, allo stesso modo “Lei diceva: i tuoi dipinti sono eccezionali, pieni di vita… ma andandosene lei niente è stato più pieno di vita, niente è stato più eccezionale”
“Ma il dolore che mi stai offrendo quasi come un dono, questo è eccezionale, e rende bello e poetico il nostro incontro e il mare meno nero, accanto a noi”
“Grazie. Poi mi racconterai di te, magari domani. Ma credo di conoscerti già perché hai capito il mio buio” Tacque un attimo, poi con aria entusiasta e dolce disse: “No, stavo dimenticando una cosa: sarebbe bello, visto che ormai ci siamo detti tutto, vederci a casa mia e passare la notte insieme. E lo sai perché?”
Lei sorrideva e stupita chiese: “perché?" E lui: “perché ne ho abbastanza della parola notte. Ora voglio notti con un perché più dolce".
Tenendosi per mano, senza guardarsi, sentendosi, giunsero a casa che ormai era alba, parlarono fino al mattino e ci sarebbe stato tempo per stare insieme, quel mattino preferirono parlare e parlare, e stanchi alla fine si addormentarono sotto una barca capovolta.
E in quella tarda mattinata, il dolore non si svegliò più con loro, per la prima volta nella loro vita. “Te lo dicevo il discorso del vuoto… e dei corpi che possono andare l’uno verso l’altro solo se c’è un vuoto fra loro”, disse Primo Re.
“Soltanto ora ho capito che, come dicevi tu, è un concetto meno filosofico di quanto si pensi. E’ la vita, è il dolore, poi è la felicità di noi qui sulla spiaggia e il sole che finalmente sorge”.
Un pescatore si affaccendava accanto a loro e a un certo punto disse: “scusate, la barca, mi serve” Loro non sentirono, allora l’uomo disse: “Dica alla sua signora di alzarsi. Va, bene, la chiamo io. Come si chiama la sua signora?
Primo Re, guardò incredulo il mare, poi scoppiando a ridere, disse a lei: “Scusa, come ti chiami?”
Id: 1165 Data: 03/09/2011 20:15:11
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La fiaba delle emozioni
In un paese chiamato Pacello per il semplice fatto che era un piccolo paese pieno di pace cosicché tutti, con poco volo di fantasia, lo fecero derivare da Paesello. Ma a supplire questa triste mancanza di fantasia -che era anche un po' dovuta alla mancanza di emozioni- un giorno venne al mondo una bambina che ne aveva abbastanza per tutti, e a volte si divertiva a nasconderne un pochino nel cestino della spazzatura per sorprendere gli altri di non averne più così tanto come si aspettavano loro. Siccome era una cosa molto strana, la cosa più strana che potesse capitare nel paese, usciva su tutti i giornali e la gente trasecolava. Dicevano: "ma come può essere che le emozioni di Selfeamor non abbiano raggiunto il quantitativo solito: è il rifornimento industriale di tutto il paese. Così è peggio di un black- out"
Le emozioni le nascondeva sempre nella spazzatura poiché così si vendicava contro queste che la facevano soffrire così tanto, nonostante fossero bellissime, ma la regola era: "più in alto vai più possibilità hai di cadere" e allora la ragazza gioiva e soffriva al ricordo di ogni gioia.
Un giorno il sole era generoso e i suoi raggi sapevano di un incanto, così incanto che la ragazza sentiva di volerlo ringraziare, e allora si chiese come...
"Io cosa so darti, sole?", gli chiese mentre lui gratuitamente la abbracciava.
Più ci pensava più si rispondeva: "io non ho niente da dare al sole", e si disperava.
Eppure tanta fu la commozione di quell'abbraccio dolcissimo che lei sentì nascere dentro al suo petto un gemello di quel sole. Era insomma come se i raggi le avessero penetrato il cuore e da lì una piccola calda presenza danzava in lei e scoppiettava di bellezza infinita; anche nei suoi occhi.
"Allora", a un tratto sentì di avere capito tutto quello che doveva capire: "certo! alle emozioni io rispondo con le emozioni. E anche perché il sole ha scelto me, ha scelto d'illuminarmi, di regalarmi il mondo con i cieli e i mari profondi e... ancora di più! mi ha dato il forte desiderio di voler guardare questi mari e questi cieli insieme ad altri occhi... che ne so? magari per sentire più veri questi miracoli..."
E si innamorava così tanto delle sue idee e soprattutto delle emozioni che quelle teneramente partorivano, e si innamorava di ogni cosa, niente per lei era privo di fascino: anche le finestre della sua stanza che per metà erano occhi chiusi, per metà occhi aperti, le piaceva paragonarle a bellissimi amplessi col mondo, quando da un canto hai paura del troppo splendore, dall'altro ti abbandoni al richiamo dei colori e con slancio fortissimo desideri possedere lo spettacolo che è fuori. Per poi cullarlo sempre dentro di te.
Tutto queste cose le facevano pensare le finestre, e quando lo raccontava agli altri tutti dicevano, sorridendole di una forzata allegria: "sì, è vero, hai molta fantasia, ma a cosa credi che serva tutto questo volare?"
"E invece mi serve!", protestava quasi gridando. Voleva difendere le uniche cose stupende che brillavano in lei. Non sapeva precisamente a cosa servissero tutte queste cose che sentiva, solo sapeva che era bellissimo sentirle. Però di una cosa era certa: se gliele avessero tolte, anche lei sarebbe morta.
Un giorno arrivò il tempo di dover arrangiarsi da sola e le dissero: "da oggi dovrai tenere più ai soldi che alla fantasia perché la fantasia non produce niente di pratico"
Quindi, sforzandosi di capire, la ragazza ebbe chiaro il concetto: lavorare è necessario, se io continuo a correre per i prati e a carezzare le piantine che il vento strapazza, non potrò neanche mangiare...
Però non ne voleva sapere di smettere di essere se stessa.
E da quel momento, più forti erano le emozioni durante il giorno più grandi erano gli schiaffi che il buio le dava quando sul suo lettino cercava di dormire. Eppure una cosa non escludeva l'altra. Il giorno correva di gioia, la sera era immobile dal dolore.
Non sapeva più cosa fare. Chiedeva sempre a Dio di aiutarla. Ma a volte credeva di parlare da sola perché lui sembrava sordo anche alla disperazione delle sue creature, che lui diceva perfette. Un giorno Dio la avrebbe ascoltata. Ma prima bisogna descrivere come avveniva questa trasformazione dal piacere al dolore.
La sua esperienza più dolcemente forte era quella di stendersi su un prato e farsi carezzare da ogni filo d'erba, e farsi solleticare. E poi guardare l’orizzonte e parlarci. E la cosa veramente bella era che lui -così enorme- entrava tutto nei suoi occhi. E le rispondeva anche passando dal rosa chiaro al violetto: si cambiava d’abito per lei! E quindi la ragazza non poteva non amarlo e diceva: "ti abbraccio con lo sguardo, fa lo stesso?" E questi rispondeva con un rosso acceso che era il sì alla vita. Perché era proprio colorato di sentimento ardente per tutti i suoi ospiti, piccoli e formicolanti. Ma in ogni più piccolo ospite lui trovava spazio in abbondanza: era questa la magica relatività della vita che l’orizzonte aveva insegnato alla ragazza.
Ma cosa succedeva la sera, quando tutto intorno si spegneva? La finestra era chiusa, una rosa ritrosa e spaventata al buio.
Guardandosi le braccia, alla luce di una piccolissima lampadina, Selfeamor poteva ben distinguere nelle ferite quelle che erano state le carezze dei fili d’erba sulla sua pelle. E come bruciavano, adesso!
Poi al mattino non aveva più niente e, più del giorno precedente, tornava la voglia incontenibile del sole, di toccare la terra bagnata e passarla sul viso per ricevere la sua fresca carezza, come a ricordarle di avere una faccia. Perché, potrebbe sembrare strano, ma lei aveva questa urgenza di sentire i fili d’erba come un soffio, il sole come un abbraccio, la terra come una carezza, perché altrimenti non avrebbe sentito di avere -eh sì- una faccia. Poiché, forse questo è il nodo di questa favola, la ragazza era figlia di due medici legali, e non avevano mai fatto differenza nel trattare i morti e la bambina… Quando la prendevano per mano lei sentiva di essere una borsa o uno spazzolino; avevano sempre giocato a ucciderla col loro corpo e i loro modi di ghiaccio, e in lei invece era invincibile la ribellione, la lotta a sangue per sentire il sole.
La terra che si era passata come una sciocca sul viso, anche assaggiandola, come un bacio indiscreto ma dolce, alla sera le aveva provocato delle puntine in tutta la faccia e la bocca era ferita.
"Ma io non posso vivere senza essere baciata o accarezzata!" Gridava così tutta la sua dolcezza soffocata da un inverno troppo precoce sulla sua pelle.
"Dio, ti prego, fammi sparire le mani e le braccia, cosicché io non senta più il dolore delle mie ferite!"
Infatti presto fu esaudita, niente più dolore, ma niente più fili d’erba; si disse: "ma io ho ancora le gambe, i piedi... ho ancora tante cose, però poi anche ciò mi farà male. Come devo fare?” Parlava da sola nella sua stanza non smettendo di piangere. Non volle vedere nessuno per mesi. Si vergognava a farsi vedere senza braccia.
E nella sua solitudine disperata chiese ancora a Dio di farle scomparire le guance, la bocca, poi anche le gambe e rimasero solo degli occhi aperti nel buio che nessuno vedeva e che piangevano ininterrottamente, al punto che tutto Pacello si riempì di pianto, e tutti furono costretti a nuotare per le stradine.
La gente sentiva molto la mancanza di Selfeamor, ma non se ne spiegava la così misteriosa scomparsa. Sembrava che sui prati di quel paese una matrigna carezza avesse posto un sudario. Non c’era più un fiore neanche a pagarlo oro e oro.
Ma quando per sbaglio un uomo ingoiò un po’ di quel pianto, fece una terribile e bellissima scoperta: si sentiva vibrare tutto il corpo e il cuore aveva come un orgasmo. Allora lo comunicò a tutti quelli che incontrava, raggiante, e di primo acchito tutti ridevano, poi uno provò e dovette ammettere che una grandissima gioia si impossessava piano piano di lui. E così tutto il paese si ubriacava di lacrime, quelle lacrime così buone e sincere. Le lacrime alle quali nessuno aveva mai creduto quando la ragazza era viva.
Allora il dolore si convertiva in gioia, ed era l’esatto contrario di quello che accadeva a Selfeamor in vita. Perché la gente di quel paese non aveva mai pianto e bere il pianto di lei fu un’esperienza indimenticabile per tutti, e finalmente tutti cominciarono a provare emozioni, forse le stesse che aveva provato colei che era morta.
In vita aveva provato a raccontare, e lo sapeva fare bene, tutto ciò che provava, ma la gente non rispondeva in maniera autentica e veramente coinvolta al tumulto delle sue sensazioni.
Ma soltanto conoscendo il suo pianto, bevendolo, la gente poté conoscere la vera gioia della vita.
Allora Selfeamor sorrise per sempre sulle labbra di tutti e si disse, lo disse il vento perché lei ormai era vento: "Se tengo solo per me le emozioni, loro mi fanno male, ma se altra gente -come ora accade- ride col mio sorriso e beve il mio pianto- allora le emozioni non mi fanno più male! ho dovuto morire per capirlo, ma ora sono felice!"
Id: 1138 Data: 16/08/2011 14:24:01
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La favola di Viola
Viola era una casetta tutta viola, in campagna. Viveva tranquilla e dolce: i ragazzi invitavano i loro amici e allora le pareti della casa si inarcavano lievemente, così sorridevano senza darlo a vedere. La sera, tutte le sere, si restava a recitare la preghiera, tutti i componenti della famiglia. E Viola poteva, a fine giornata, chiudere le sue finestre e riposare. La notte trascorreva per lei piena di dolcezza e di sogni di belle giornate e di corse di ragazzini. Certe volte capitava che Viola, per la troppa nostalgia nei confronti dell'allegria dei bambini, gettava giù dal letto, tutti i suoi piccoli abitanti. Come se avesse una potente mano, sotto i materassi, e via giù, buon giorno! Poi le tazze erano già pronte sul tavolo al mattino; quando il latte era troppo caldo, Viola azionava i ventilatori, metteva un po' di musica e danzava piano, in modo da svegliare anche i padroni di casa. I bimbi credevano le tazze le mettesse mamma Livia, e quest'ultima pensava che le mettessero loro, invece no: era la piccola Viola l'artefice di tutta questa magia. E la cosa triste è che nessuno lo avrebbe mai saputo, forse. Un giorno il signor Danilo, però, ebbe un'idea malvagia: la casa doveva essere venduta. Che ne sarebbe stato dei suoi bambini e dei discorsi del signor Danilo alla moglie, Livia? Ormai Viola era affezionata a tutti loro. Allora la casina, che rifiutava fermamente questa idea, si mise un piglio così severo che le spuntarono delle crepe sulla parete. Un mattino arrivò un signore che doveva stabilire il valore della casa. Egli passava da una stanza all'altra con aria di sufficienza, e Viola appannava i vetri con le sue lacrime, faceva cadere pezzi di lampadario, apriva e chiudeva gli armadi finché non uscivano dai loro cardini. E tante altre cose ancora. Il perito non sapeva che dire a Danilo. "Signore, è una casa ridotta un po' male, guardi soltanto queste crepe qua" Danilo però rispose: "Ma io voglio abitare in città!" Viola allora gettò fuori dalla libreria, con un colpo deciso, un libricino di viaggio, che parlava della bellezza della campagna. I due uomini rimasero attoniti e l'esaminatore disse: "Ha visto anche lei quello che ho visto io?" "Sarà stato un colpo di vento", ammise Danilo per non spaventare troppo il perito. Danilo, dentro di sé sapeva che la casa stava iniziando a fare i capricci... "Dani", disse Livia un giorno, "come mai ci alziamo presto anche di domenica? Mah! a me non riesce proprio di dormire in questa casa!" "Hai ragione, la nostra casina Viola, da un po' di tempo a questa parte è ribelle. Forse non accetta la sua vendita" "Certo, anche a noi mancherà, ma che fare? La città ha il suo fascino" In quel momento Viola buttò fuori dal forno un fumo terribile, tutta la rabbia che aveva dentro, giusto per ricordare come sarebbero stati in città: invasi dall'inquinamento. Danilo tossì. Livia era sconcertata. "Sì, Viola, lo so, ma noi abbiamo necessità di andare a stare in città: non possiamo viaggiare ogni mattina e alzarci sempre alle cinque e mezzo" Improvvisamente l'orologio a pendolo cominciò a segnare tutte le ore, come impazzito. Poi si fermò alle cinque e mezzo, come per dire: "andavene pure a lavorare, io voglio stare sola" Il suo umore era a terra. Era una casina inconsolabile. Persino i bambini, quando sprofondarono nelle loro poltroncine, davanti alla televisione, furono ignorati da Viola. Prima invece loro si facevano carezzare le braccia dai braccioli di velluto. Venne il momento che il contratto giaceva lì sul tavolo. Viola lo guardava di sbieco e le finestre piangevano, le crepe erano delle smorfie. Danilo si avvicinò, lo guardò e disse alla moglie: "Vuoi farlo tu, per cortesia?" Livia era come paralizzata. Il tempo stringeva, gli acquirenti non potevano più aspettare. Nessuno dei due si muoveva. Giovino, il bimbo più piccolo, in camera sua, guardava la televisione, ed era molto seccato perché la finestra si apriva ogni due minuti, facendo entrare aria molto fredda. "Ma perché non si vuole chiudere?" Ma Viola lo faceva per il bene di tutti. Fin quando il bimbo scoppiò a piangere, e la sua mamma vide che aveva la febbre, e come scottava! Niente, fin quando non gli passa non possiamo andare via di qui" Livia era un po' dispiaciuta, ma secondo loro era questione di tre giorni al massimo. Questi tre giorni passarono allegramente, malgrado la febbre. I ragazzini giocavano coi videogiochi, posavano i piatti di pop-corn per andare un attimo al bagno e, gnam! le poltroncine e i divanetti se li ingoiavano. Allora si mettevano a saltare, soprattutto i più piccoli, sugli stessi divanetti che, si sentiva una risata sonora, morivano dal solletico... Ma tante volte, alla sera, Viola veniva riacciuffata dalla tristezza. I suoi bambini, tutte le dolcissime monellerie che facevano... chi glielo avrebbe ridato, tutto questo? Però capitò che una volta andando a letto, Livia e Danilo si accorsero che c'erano dei cuori disegnati nello specchio. Doveva succedere qualcosa di speciale... si guardarono, ma subito capirono che... sì, era arrivato il momento della confessione: "Amore, io sono... doveva essere una sorpresa...", la donna esitava. "Non mi dire!" "Eh sì, aspettiamo un bambino!" La felicità sovrastò tutto, anche il dolore per dover abbandonare la bella casina. Dunque un nuovo arrivato, pensò Viola, e si mise a fare della pioggia che sbatteva sui vetri, una graziosa musica.
Livia, indaffarata, preparava le valige per andare nella nuova casa, pensava a tutto lei. Danilo era molto malinconico. Ma quando stavano per prendere le fotografie che erano sul comò, queste resistevano, non volevano staccarsi, erano come piantate nel mobile. "Viola, dai non fare la bambina, hai già venticinque anni!" "Appunto!", scrisse lei sul vetro appannato. Niente, le foto dei nonni, degli zii, degli amici, erano tutte là e neanche un uragano avrebbe potuto schiodarle. Ogni volta che la donna tentava di strappare una fotografia alla caparbietà di Viola, sentiva nel suo ventre un piccolo dolore. Il suo bimbo si lamentava. Livia disse, cominciando a capire: "quando tento di prendere una foto, il bimbo scalcia. C'è forse un nesso fra le due cose? Il passato e il futuro. E Viola non vuole" Danilo completò: "Viola è la nostra tradizione. La casa, la famiglia, ciò che molti hanno dimenticato, purtroppo" "Troppi ricordi, non possiamo andarcene!", la donna disse. Erano entrambi come agiti da una forza più grande di loro, e il vento protervo dei ricordi li travolgeva. Dalla finestra si vedevano albe e tramonti, in successione, tutti quelli che avevano vissuto i coniugi. Tutte le albe che avevano visto nascere i loro bambini, e le sere in cui si erano amati. "Restiamo, Viola, non preoccuparti più" Viola spalancò tutte le finestre, un sole radioso e felice cominciò a brillare, e i ragazzini tornarono gioiosi dalla scuola e non c'erano più crepe e ogni cosa era al suo posto. Poi una pioggerella sottile, cominciò a fare da colonna sonora alla loro serata, fino a farli addormentare, e le zanzariere, come mani amorevoli di Viola, carezzavano le palpebre sognanti dei bambini. Era il sogno del passato lanciato nel futuro.
Id: 750 Data: 26/10/2010 10:27:49
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Il bambino che non voleva vincere
Valerio si accostava alla madre, a mo' di un fagottino che vuole essere baciato da lei. Non si capiva bene come mai poi, tutto a un tratto, si metteva a piangere. E tutti dicevano: "hai visto l'uomo nero?" Forse, pensavo io raggomitolata in un angolo di dolore e tenerezza, avrà visto vero l'uomo nero. La personificazione della solitudine, dello stare in braccio alla propria mamma e non avere altro che l'abbraccio del buio. "Valerio, fammi vedere come si gioca con questa macchinina". Silenzio intorno, lui si nascondeva il volto con le manine. E gli altri continuavano a chiamarlo. "Valerio, dai, non fare il guastafeste, è il tuo compleanno. Dobbiamo stare tutti allegri." Sì, dovevano stare tutti allegri, e lo sapevo io come saranno tutti allegri il giorno che la colpa mostrerà le fauci e, nel silenzio fuori e nello stridio dentro, si chiederanno: "cosa abbiamo fatto di male? dove abbiamo sbagliato?" E' nelle domeniche come queste, dove la giornata è bella e tutto si dà per scontato, che si ferma il librarsi di una farfalla, si ferma lo spuntare del sole, troppo cocente o troppo debole. Questo era l'amore della Signora Freddi. "Oggi Valerio fa cinque anni, diciamo tutti insieme auguri a Valerio". La zia, zitellona di quarant'anni e sempre di buon umore, stranamente, vestita con immensa cura, tutta collana e calze viola, stava così attenta a tutto, forse stava anche attenta a non finire come sua sorella, sposa e madre granitica. Tutti i bambini batterono le mani e Valerio per un momento sorrise. La madre non se ne accorse e continuava a incitare il bambino che le stava sulle ginocchia, con un entusiasmo secco. "E' l'ora della torta", disse un bambino più grandicello degli altri. E aveva già il sapore goloso in bocca. Strano come una mente e un cuore di una madre non si accorgano di certi vuoti. Forse perché troppo intenta a se stessa. Forse perché la rabbia l'ha accecata. Forse per poca intelligenza. E chissà quando il povero Valerio sarebbe stato attore dell'avventura più bella, protagonista di un amore senza fango, ma d'oro. Chissà. Era il momento di spegnere le sue cinque candeline. "Esprimi un desiderio" Il bambino sembrò smarrito e disse: "non lo so". "Tutti abbiamo i nostri desideri", disse la madre, ma quell'ovvietà faceva male, detta così, senza argini di sorta, senza una protezione di calore umano. Forse il mondo, così poco visto, così tanto sofferto, aveva scottato la sua iniziativa, i suoi occhi vogliosi di colori. Sempre più si andava configurando un bambolotto e non un bambino, ogni spirito creativo veniva come bruciato e si ritrovava a vivere una piccola vita da recluso di se stesso. Era prgioniero dell'immagine di lui che la madre gli rimandava. Così non si piaceva e non aveva voglia né di divertisi, e porca miseria era la sua festicciola! né di scoprire cose nuove. Il mondo aveva la stessa durezza di roccia della madre. Era duro e freddo. Era come la notte che nel suo lettino lo veniva a trovare. Era la paura della morte, la mancanza di un sorriso, di un abbraccio, insomma della mancanza della verità. "Amore, qualche cosa, non so, che vuoi, che ti piacerebbe avere..." La zia era discreta. Ma pensava: <<questo bambino non è sano. Ma come aiutarlo?>> Il bimbo scoppiò di nuovo a piangere e scappò tra le braccia del padre che lo guardò preoccupato e lo carezzò finchè non smise il pianto e sembrava che stesse per addormentarsi. Allora lo misero a letto e, visto che era tardi, conservarono la torta, l'avrebbero mangiata l'indomani. Ad uno ad uno i bambini se ne andarono e lì, in quella veranda, non restò altro che un abbaiare intermittente di cani. Sembrava una brughiera, quella terrazza . Ce ne voleva per trovare un fiore. Valerio però aveva già imparato a leggere. E aprendo un libro che gli avevano regalato cominciò a cercare di capire quello che c'era scritto. FRA GO LE La prima parola gli piaceva, sembrava già di sentire il sapore di una vita che andava oltre quella abituale e fonte di lacrime. Ripeté la parola e alla terza volta che la disse, un cesto di fragole si formulò davanti a lui, e non era certo meno appetitoso dell'idea che se ne era fatto. Anzi, sembrava un frutto vivo. La cosa non lo spaventò, gli piacque molto, e allora provò con un'altra parola. Sillabò: CA REZ ZA Gli venne da piangere quando sentì quel torpore, quella sicurezza che mai aveva sentito in vita sua. E allora lo ripeté più volte: CA REZ ZA Non si stancava di ripeterlo. E piangeva, di gioia, dimenticando, ma solo un poco, il dolore. Poi lesse: CA SA Batté le mani. Non vedeva l'ora di vedere una casa, come aveva sognato sempre con tanti colori e abbracci. Si materializzò davanti a lui un'abitazione povera, ma con una finestra bene adornata dove facevano capolino una mamma, un papà e un bimbo. Lei cantava una canzone e il papà le carezzava il volto e guardavano entrambi ammaliati ciò che faceva bellissima quella casa diroccata. L'immagine andava sempre più sbiadendosi, sempre più... E si sentiva una voce che ripeteva continuamente: "Vai dalla tua mamma e dille che il suo bambino morirà se entro tre giorni non rivernicerà la casa di mille colori e, soprattutto, se non gli darà la possibilità di disegnare quello che lui vuole..."
Valerio si copriva con le manine le orecchie, ma ora era contento perché aveva un compito e voleva obbedire alla voce. Quella voce sembrava partire dal suo profondo. Forse la famiglia era già in lui. Come un albero con radici profondissime che stavano già franando il terreno, zeppe di emozioni: una voglia grandissima di tenerezza e una furia distruttrice. La carezza di quella sera, alla lettura di quella parola, non si posava solo sulla lacrima di un viso, ma su una tristezza dolorosa. Si mise a dormire. Si addormentò subito e nel sogno ritornò alla sua cara famiglia e apprese i disegni che doveva fare nella nuova casa. Ed era importante non buttare giù le fondamenta della casa, ma soltanto riverniciarle perchè le fondamenta la casa le aveva, come un po' d'amore era passato nella vita di quella coppia che aveva messo al mondo il piccino. Da quella casa aveva avuto la sua partenza l'amore, sempre a casa aveva trovato la sua guerra. Infine -per cominciare- i disegni, i colori di una casa. Perché una casa deve essere sempre colorata
Id: 686 Data: 09/08/2010 11:47:08
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