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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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La percezione odierna del male e dell’orrore

Argomento: Sociologia

di Andrea Pighin
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Pubblicato il 25/01/2018 12:10:30

Anselm Kiefer, Horror Vacui (1980)
 
 
Vorrei aprire una riflessione su un tema tanto vasto da non riuscire a vederne i confini, cercando non di risolvere la questione, ma di proporre un punto di vista. Per millenni l’essere umano ha discusso su quali fossero le caratteristiche del bene e del male; come questi due poli agissero nell’Uomo e nella Natura; quale peso avessero la predestinazione o una volontà superiore. La risposta maggioritaria è mutata a seconda dell’epoca, fino a giungere all’odierna percezione, nella quale il relativismo di vizi e virtù va per la maggiore. Nel dettaglio, vorrei discutere alcune caratteristiche tipiche dei mali di oggi e la concezione del dolore altrui, limitandomi ad alcuni esempi emblematici.

L’immagine in sé non urtò la mia sensibilità, per quanto ebbi sùbito una sensazione di tristezza nel pensare che quelli che stavo osservando erano davvero dei guanti di pelle umana e che qualcuno era morto, probabilmente con atroci sofferenze, per quei guanti. Tutto questo mi capita spesso, passando dalla rete alla tv e ai libri: avviene tutto in un istante; è una sensazione, una percezione del dolore altrui. L’immagine mi trasmette questo e accetto di vederla nella mia bacheca, proprio perché rappresenta una realtà e uno stimolo emotivo.

Ciò che ha mosso queste parole è stato un post su Facebook. La pagina in questione si occupa di condividere foto e altri generi di immagini che in qualche modo hanno segnato un’epoca e la coscienza collettiva. Nello specifico, vidi una fotografia di un paio di guanti in pelle umana del noto serial killer Ed Gein. Avevo già sentito parlare di lui e della sua macabra collezione; avevo anche letto di lui nel libro I serial killer. Il volto segreto degli assassini seriali: chi sono e cosa pensano? Come e perché uccidono? La riabilitazione è possibile? di Vincenzo M. Mastronardi e Ruben De Luca.
 
Detto questo, parlando di quel caso specifico, mi capitò di leggere i commenti. Quello in primo piano, con svariati like e reazioni, recava la scritta: “Emporio Ar-mani”. Seguivano i consueti commenti: “Tu hai vinto”; “Commenti Memorabili” e via dicendo. In un’altra occasione, era stata condivisa una foto di Leonarda Cianciulli, la donna che uccise diverse persone per poter ricavare il sapone dal loro grasso corporeo. I commenti più apprezzati erano dello stesso tenore.
Nel primo caso qualcuno espresse il proprio disappunto nel vedere quelle immagini a loro dire “strappalike”, che ruotavano intorno al macabro e al sensazionale per ottenere visibilità. Eppure, personalmente, non me la sento di incolpare quella pagina piuttosto che altre. Le pagine propongono del materiale seguendo una linea (in questo caso le immagini che hanno segnato un’epoca) oppure in base a quello che i followers apprezzano di più, considerando reazioni, commenti e condivisioni. Ripeto: le pagine propongono; chi usufruisce di quelle immagini ha tutta la responsabilità di come le interpreta. Al massimo, è sufficiente smettere di seguire la pagina, se quello che condivide urta la nostra sensibilità; al contrario, nel caso specifico in cui si mostrino violenze e torture reali, si agisce di conseguenza, con segnalazioni e denunce. Tutto il resto dipende dal fruitore.
 
Introduciamo quindi un elemento: il black humor. Esso tratta di quei temi topici (morte, malattia, sessualità, religiosità, etc.) e li schernisce senza filtri, con ironia, non tanto per l’argomento in sé ma per le declinazioni che quell’argomento assume a seconda dell’epoca. L’umorismo nero entra nelle paure, nei timori e nei dubbi, che appaiono come enormi e mostruosi, e li rende accessibili, a misura d’uomo. Il buon umorismo nero, però, non banalizza mai quei temi. Anzi, dopo averli esplorati sceglie se abbandonarli in quanto insignificanti (problemi apparenti) o se suggerire una soluzione per assurdo (problemi effettivi). Per alcuni può sembrare superfluo, ma vale la pena ricordare uno scrittore come Jonathan Swift e la sua A modest proposal… (1729), in cui per risolvere il problema della miseria e della sovrappopolazione, l’io narrante propone di usare i figli dei poveri letteralmente come carne da macello.
 
Introdotto questo elemento, è tempo di interpretare i dati. Riconosciuto il valore del black humor, che cosa mi ha lasciato perplesso e deluso nel commento fatto a quei guanti? Probabilmente la consapevolezza che quello non fosse umorismo nero, non tanto per la mia (personale) concezione di un umorismo rivolto a uno scopo, ma per la superficialità oggettiva di quel commento. Che se mai aveva un obiettivo, era proprio quello di mettersi in evidenza con un gioco di parole sarcastico.
Si entra però così in un tunnel senza via di uscita, dal momento che i social network nascono invece con la premessa di poter far esprimere chiunque su qualunque argomento, dandogli la possibilità di emergere, anche se per un solo istante. E sotto questa luce, ogni commento – superficiale o erudito – perde il suo carattere e le pulsioni della maggioranza determinano ciò che è condivisibile e ciò che è da deridere. A questo ragionamento si lega Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905) di Sigmund Freud: l’umorismo, in particolare quello nero, non è altro che un modo per esprimere pulsioni (sessuali, ma aggiungerei il termine “esistenziali”) che il soggetto maschera appunto dietro il motto di spirito. Considerato che una parte dei social network si sta trasformando in un deposito di sogni infranti, desideri inespressi, violenza verbale gratuita e supremazia del qualunquismo, non posso stupirmi o sentirmi offeso da quel commento sui guanti.
E se aggiungiamo che di recente la Medical University di Vienna ha posto in relazione umorismo nero ed alte capacità cognitive (aspetto che a prima vista non mi sembra in contrasto con Freud, ma può anzi integrarlo), ecco che forse mi sarei dovuto fermare a quando ho riconosciuto il valore oggettivo delblack humor. E chiuderla così.
 
Ciò nonostante qualcosa mi sembra ancora fuori posto. Altri studi fanno presente che restare troppo tempo sui social network incrementerebbe l’infelicità. Ora, gli studi scientifici su questo tema sono forse un di più, visto che la coscienza di ognuno di noi è in grado di cogliere questo aspetto. In tal senso, quel deposito degradato – a cui abbiamo accennato poco fa – non farebbe altro che incentivare quella frustrazione che invece dovrebbe contribuire a eliminare a suon di libertà di questo e libertà di quello.
Ne nasce un circolo vizioso, per cui chi si esprime è anche colui che legge le espressioni altrui e questo dialogo, diverso dai dialoghi fatti di persona, sfrutta l’ambiente per far fuoriuscire le pulsioni represse. Nessuno ha mai ragione. E se proprio si dovesse avere torto in una discussione, basterebbe rifugiarsi nel proprio profilo o nella bacheca, cercando un pesce più piccolo con cui confrontarsi.
D’altra parte, a patto di non condividere un invisibile “codice di dialogo” (che pure esiste: è l’educazione), qualunque discussione sul web è destinata a degenerare nell’autoreferenzialità.
 
Per concludere riprenderei quel “mantra” che ci ricorda che il problema non risiede nella tecnologia, ma nel come la si utilizza. La logica vuole quindi che in un’umanità che dà per scontata la differenza tra bene e male, quella superficialità abbia ripercussioni sui sistemi che crea.
Al principio di questo scritto ho affermato di aver letto il libro sui serial killer di Mastronardi e De Luca; aggiungo la mia passione per gli horror e il fatto che segua molte pagine sul tema; infine, tra una lettura e l’altra, non manco di leggere libri con temi macabri, dell’orrore o anche solo angoscianti e sinistri (da alcuni scritti molto crudi di Pasolini a Stephen King, Chuck Palahniuk, etc.). L’orrore è negli occhi di chi vede?
Quante volte seguo la campagna pubblicitaria costruita intorno ai film horror in uscita e quante volte i commenti ribadiscono la solita storia del “non fa paura per niente”, “e questo sarebbe un horror?” e l’immancabile: “Non ci sono più gli horror di una volta”. Certe volte hanno ragione, ma come chi punta sempre su testa e prima o poi la moneta cade nel verso giusto.
 
In maniera indifferenziata, sembra che tutto ciò che è nuovo non abbia la dignità di esistere come forma d’arte, ma questo non è che un riflesso del vero problema. Ci siamo abituati alle stragi, alla morte, alle contraddizioni e abbiamo fatto di tutto un fatto personale, accumulando rancore, per cui il mondo era meglio quando eravamo capaci di provare emozioni. Anche il fascino per il male è relegato quasi sempre a maniera e ritorna stanca la questione sul perché personaggi come Charles Manson continuino a sopravvivere ai loro modelli reali.
La risposta preconfezionata è la stessa utilizzata per l’umorismo nero: è un modo per fare, per dire quello che il “codice di dialogo” ci impedisce. Ma c’è di più. In un libro, in un film o in qualunque altra opera d’arte devo essere capace di distinguere. Posso immedesimarmi in una parte qualsiasi, ma ciò dovrebbe forse avere un significato esistenziale, anche molto semplice, che ci aiuti a comprendere il gioco delle parti, la relazione tra il bene e il male. Mi sembra di riconoscere l’orrore non negli occhi di chi vede, ma in chi guarda quell’orrore senza provare emozioni.
 
 
Se l'analisi vi è piaciuta continuate a seguirmi sul blog personale http://voceargento.blogspot.it/.


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