Pubblicato il 21/10/2013 23:14:33
Più del fatto di aver ucciso, a lasciarmi basito è la mia ipocrisia e la credulità altrui. Avevo lanciato quel sasso proprio con l'intenzione di colpire. Certo, non che lo volessi morto, ma volevo fargli male, decisamente. Omicidio preterintenzionale, credo si chiami. Allora non lo sapevo: ero un bambino di dieci anni. Quando Michele era caduto a terra ero corso lì, stavo per gridargli: «Cretino! Stupido! Così t'impari.» Invece, c'era tutto quel sangue ed io urlai il suo nome, più e più volte, e basta. Accorsero i grandi, ed io mentii subito: «Correva, è inciampato, ora non si muove più...» E loro, tutti lì a consolarmi, per quella scena che doveva avermi scioccato. Poi i funerali, io in prima fila in quanto amichetto del cuore, quello che gli era stato vicino fino all'ultimo, un piccolo eroe, quasi. I suoi genitori distrutti riuscivo persino a guardarli negli occhi e a dire loro: «non ho potuto fare niente, gli avevo detto di non correre così...» Adesso ho cinquant'anni, e quell'episodio ha acquisito caratteristiche oniriche, tanto che a volte la mia versione pubblica dei fatti mi sembra la realtà e il resto un'eco del senso di colpa che provano i sopravvissuti. D'altronde, questo è quello che dice il mio analista, ma anche a lui ho fornito l'immagine ripulita. Dal desiderio di far male. Mi chiedo a volte se la mia solitudine, la paura di avere relazioni con gli altri, il mio nascondermi alla vita, non siano tutto frutto di quel singolo episodio, non siano il castigo per il mio delitto. Ma poi no, ci sono tante persone che vivono queste stesse cose e non credo che tutte abbiano ammazzato il proprio amichetto con una sassata. Michele a volte viene a trovarmi. In sogno, intendo. Vedo la sua vita presunta. Lo osservo mentre cresce. I suoi amori, i suoi figli: quello che io non ho mai avuto. Lui è felice, mi ha perdonato la sassata.
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