‘PERCHE’ NESSUNO SIA PIU’ SCHIAVO’.
IL POTERE DELLA LETTURA TRA MR PIP E GREAT EXPECTATIONS
A Silvia Albertazzi
Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo.
Gianni Rodari
Come mai nessuno impara quel che dovrebbe, Sir Jasper?
Virginia Woolf
Mr Pip di Lloyd Jones è la riscrittura di Grandi speranze (Great Expectations) di Charles Dickens.
Il racconto, da Londra, si sposta in un’isola sperduta al largo delle Coste del Pacifico: Buganvillea, conosciuta da Jones quando era reporter durante la guerra. L’isola è molto piccola e ci sono pochi abitanti, isolati dal mondo, tra loro e il mondo ‘civile’ un immenso oceano; regrediscono a uno stato di vita ‘primitivo’.
Il romanzo, o meglio, l’idea del romanzo, nasce da un’immagine: Lloyd Jones dice di aver visto un solo uomo bianco nell’isola che portava su di una carriola una donna nera. Da quest’immagine, allora, si sviluppa tutta la storia.
Lo sapeva bene Virginia Woolf quanto è fondamentale seguire quest’immagine che ‘piove dentro’ alla fantasia degli scrittori. Del suo romanzo, Al faro, dice infatti che, “il centro è il personaggio di papà, seduto in barca, che recita ‘Noi perimmo, ciascuno era solo’, mentre schiaccia uno sgombro morente”.
Ecco, allora, nella mente di uno scrittore balena un’immagine e, dando spazio, seguito, respiro a quest’immagine, la si compone, poi, in un libro, in una storia.
Mr Pip parte, dunque, da quest’immagine di un uomo bianco, che poi si definirà nella figura di Mr Watts, che spinge una donna nera su una carriola.
Non è un caso, credo, che tutto parta dall’immagine di Mr Watts: è lui, infatti, il personaggio che accompagna il lettore e gli altri personaggi alla scoperta del personaggio principale, del centro di tutta la storia: la lettura, i libri e, in particolare, un libro: Grandi speranze.
Lloyd Jones, grazie a Mr Watts, fa vedere quanto bisogno ci sia di letteratura perché, come diceva Calvino, “ci sono cose che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici”. Solo la letteratura, allora, e niente altro, nessun altro.
Il punto del nostro discorso in questo settimo saggio è proprio questo: la lettura; l’importanza della letteratura affinché, come abbiamo detto prima con Rodari, ‘nessuno sia più schiavo’.
Innanzitutto, nel romanzo, la lettura attraversa due momenti. Nel primo, c’è sicuramente una lettura di evasione: Mr Watts apre una scuola nel villaggio, e legge ai bambini qualcosa che possa portarli lontano, farli evadere dunque dalla triste realtà in cui vivono (la guerra). “C’è un oltre in tutto”, diceva Serafino Gubbio; ed è oltre quel tutto disastroso in cui vivono che la lettura di Grandi speranze porta i bambini.
Abbiamo già parlato prima del forte potere terapeutico della lettura, ma vale la pena, forse, sottolineare la capacità di evasione che ha un buon testo narrativo. I bambini, infatti, grazie alla lettura di Mr Watts riescono a entrare, a vivere in quel mondo altro e popolato di “êtres à qui on avait donné plus de son attention et de sa tendresse qu’aux gens de la vie”; riescono insomma a vedere che c’è un altro mondo possibile, che non dappertutto c’è la guerra.
Già la lettura di per sé, il fatto di prendere in mano un libro, riunire una classe di bambini e leggere loro, è un atto coraggioso, un atto d’amore. Significa fermarsi un attimo, dire all’altro che è importante, che va tutto bene e dedicare del tempo anche a lui. “Se a tutti fossero state lette delle storie”, sostiene J. K. Rowling, “il mondo sarebbe migliore. Tutti avrebbe ricevuto amore, affetto, attenzione”.
Nella prima parte, allora, Mr Watts legge per mostrare un altro mondo da quello quotidiano dei bambini e per insegnargli, in qualche modo, a superare la triste realtà. Nella prima parte accade anche un’altra cosa, molto importante: Mr Watts insegna ai bambini a nominare, dare un nome e alle cose e alle persone.
Dare un nome è assolutamente significativo: nominare le cose, e lo si può vedere già da tempi biblici, è il primo modo per farle esistere. La prima cosa che Adamo fa è “dare un nome a tutti gli esseri viventi”; il nome è quello che ci distingue e ci rende unici.
Nel romanzo, Mr Watts non viene da subito chiamato col suo nome: è, già dalla prima riga del testo, “Occhi a palla” per via della sporgenza dei suoi occhi; e tutti, bambini e adulti, lo chiamano così. Ma, ed è un passaggio significativo, quando apre la scuola e diventa l’insegnante dei bambini, diventa Mr Watts perché anche il nome è fondamentale, perché non si affida l’educazione a un “Occhi a palla” chiunque.
“Occhi a palla” diventa Mr Watts nel momento esatto in cui apre la scuola, in cui decide di insegnare ai bambini, di prendere in mano le loro vite e riempirle di quelle che, nonostante i tempi in cui vivevano loro, e anche quelli in cui viviamo noi, sono le cose più importanti; le uniche, comunque, in grado di portare dei bambini di un’isola sperduta del Pacifico a diventare uomini, di portare un “Occhi a palla” qualunque a essere maestro e insegnante: la scuola e l’educazione.
Anche la questione dell’educazione viene fortemente tematizzata in Grandi speranze che, possiamo dirlo con Brooks, “se è una versione particolarmente sinistra di Bildungsroman ciò si deve in una certa misura anche alla letteralizzazione delle metafore relative all’istruzione e all’educazione”. E le metafore sono, ad esempio, quelle che la sorella di Pip prende, appunto, letteralmente: ‘tirare su con le mani’, etc. Un’educazione, allora, impartita attraverso la paura, la minaccia, la censura di tutti i comportamenti e che nasce dalla certezza della sorella che ‘Pip finirà male’. Vedremo più avanti i diversi modi della lettura sia in Mr Pip che in Grandi speranze, ma possiamo già anticipare che anche questa è una lettura: la sorella, allora, che legge o rilegge la vita di Pip partendo dalla convinzione che quella vita ‘finirà male’.
Tornando alla questione del nome, è molto importante e, si vedrà verso la fine del romanzo [Mr Pip] il senso spregiativo in cui un nome viene o non viene utilizzato: solo la mamma di Mathilda, una bambina della scuola, infatti, continuerà nonostante tutto a chiamare Mr Watts con il suo nomignolo “Occhi a palla”.
La questione del nome è presa in considerazione anche in Grandi speranze dal quale, l’abbiamo detto, muove Lloyd Jones per il suo Mr Pip.
Pip, innanzitutto, il protagonista del libro di Dickens non ha un nome. Pip non è un nome; è un suono, una lallazione, un qualcosa di primitivo che, tra l’altro, il bambino si è auto attribuito. E’, Pip, allora, un personaggio autonominatosi.
Scrive infatti Dickens in una delle prime pagine:
Il nome di mio padre era Pirrip, e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua di bambino non poté far nulla di più lungo o più esplicito, con i due nomi, che Pip. Così, mi chiamai Pip,e così continuai a essere chiamato.
A questo proposito, Peter Brooks sostiene che:
In molti romanzi dell’Ottocento, l’eroe è orfano, non determinato dunque da eredità o condizionamenti visibili, apparentemente privo d’autore: questo elimina subito, ad esempio, i problemi che Julien Sorel avverte nei confronti della paternità. […]Un protagonista privo di genitori libera l’autore da ogni conflitto con autorità preesistenti, consentendogli di partire da zero per creare tutti i motivi determinanti della trama all’interno del suo testo. […] Quanto lo vediamo per la prima volta, Pip è in cerca di un’’autorità’ (questa parola figura nel secondo paragrafo del romanzo) che possa definire, giustificare, ‘autorizzare’ l’intreccio successivo della sua vita.
E quel nome auto attribuito è, in un certo modo, quello che non permette alla sua vita di procedere, di avere un intreccio futuro.
“Non possiamo progredire”, dice Peter Brooks, “se non abbiamo prima fatto i conti con gli enigmi del passato; e al tempo stesso spingendoci avanti, dato che la rivelazione, legata quanto si vuole al passato, appartiene al futuro”.
Pip suona sempre come un inizio, e così le sue grandi speranze: non portano a niente di concreto, non si concretizzano e tutta la sua vita è, in fondo, la vita di un palindromo che si ripete all’infinito. Pip, insomma, anche letteralmente, è un continuo ‘avanti e indietro’ senza senso; una volta che si è arrivati alla fine del nome, si ritorna indietro; proprio come farà Pip alla fine: gli altri personaggi, infatti, ‘cresceranno’, cambieranno, ma lui resterà sempre il bambino spaurito che era a pagina uno.
Tutto questo è insito già nel nome e si materializza anche nella trama del romanzo che, altro non fa, che girarsi su stessa.
Sostiene a proposito Peter Brooks:
È importante notare come questo incipit caratterizzi Pip come un’esistenza priva di trama, al momento esatto in cui si verifica l’evento che risulterà decisivo per l’intreccio futuro della sua vita, come egli stesso scoprirà a due terzi almeno del romanzo. È un essere alieno, non garantito da autorità paterne, auto-nominatosi; e sul punto di entrare a far parte del codice linguistico e del sistema sociale che sottintende, Pip sarà per tutta la prima parte del romanzo in cerca di una trama, mentre il romanzo racconterà la graduale precipitazione di un senso della trama, il delinearsi inatteso di direzioni e intenzioni insospettate intorno a lui.
E a nulla servirà quel tentativo, patetico tra l’altro, di cambiare nome per farsi accettare in alta società.
Ancora Peter Brooks dice che,
la parte centrale del romanzo […] appare caratterizzata dal tema del ritorno. Apparentemente, i ritorni di Pip sono dovuti al desiderio di riparare al male fatto al povero e trascurato Joe, un’intenzione che peraltro non viene mai realizzata; implicitamente, c’è sempre il desiderio di scoprire le intenzioni della presunta benefattrice della Satis House, e di portare a compimento le trame da lei ordite. Ma in realtà ad ogni ritorno corrisponde una regressione, nella Satis House, alla condizione del ‘ragazzotto rozzo e volgare’ che invano sogna la sua scalata sociale, in un incubo di ripetizioni frustranti e senza esito alcuno; al tempo stesso, rivive l’altro incubo infantile, quello rimosso, del legame con il galeotto. Entrambi i ritorni ribadiscono come le trame ‘ufficiali’ di Pip, apparentemente improntate al progresso, all’ascesa e alla soddisfazione del desiderio, siano in effetti soggette a un processo di ripetizione di un passato non ancora dominato, vera forza determinante della sua vita e della sua carriera.
Pip, come il palindromo che è, è destinato a tornare in continuazione, senza sosta, e così le sue grandi speranze fasulle non si avverano mai, la sua vita non arriva mai a un punto più avanzato, non completa mai quel cammino di autoformazione che è, in un certo senso, il romanzo.
“Non avrei saputo dire”, scrive Dickens su Pip, “che cosa temessi, perché la mia paura era indefinita e generica; ma una gran paura addosso ce l’avevo”.
Pip è destinato allora a restare sempre ciò che è; forse è questo che teme e, ripetiamolo, a nulla serve cambiare nome. Pip resterà Pip anche quando si farà chiamare Heandel.
Tra l’altro, l’intento che sta sotto al cambiamento di nome è molto diverso da quello di Mr Pip: “Occhi a palla” diventa Mr Watts per insegnare ai bambini, e rappresenta, in quel momento, il punto d’accesso tra la realtà e l’altro mondo, ma anche l’autorità; diventa Mr Watts perché, l’abbiamo detto, si appresta a un compito importante, e un insegnante non si chiama “Occhi a palla”. Pip, invece, cambia nome solo per snob, perché si vergogna pateticamente di essere solo l’orfano Pip. E infatti Pip fallisce. Non diventa mai Heandel, nemmeno quando si fa chiamare così. Pip resta sempre la gabbia in cui lui si muove nel perpetuo ‘avanti e indietro’. Pip non ha accesso al mondo salvifico della letteratura.
Ciascuna delle scelte di Pip, che a livello conscio sono orientate verso il futuro e tese a spingere in avanti la sua vita, lo riconducono in effetti verso l’enigma delle origini. Le vicende di Raphaël [La pelle di zigrino] e di Pip, forse anche quella di Julien Sorel [Il rosso e il nero], […] sono apparentemente contrassegnate da una spinta in avanti, un progresso verso l’alto, ma a ben vedere forse rispondono a un senso di nostalgia, di desiderio del ritorno: lo sforzo di riaffermare le proprie origini attraverso la fine, di trovare l’eguale nel diverso, il tempo anteriore nel tempo successivo.
Si diceva prima che le cose esistono quando le si nominano, proprio come le paure, le ossessioni (e lo vedremo nell’Appendice al quinto saggio) diventano, per lo meno, affrontabili quando si comincia finalmente a chiamarle per nome.
Mr Watts legge a voce alta, e quando legge “it was a new sound in the world”; proprio come gli aborigeni che cantando facevano nascere le cose, Mr Watts legge e crea, fa nascere, nomina altri mondi. Infatti, nella parola, nel nome c’è un forte potere di creazione di mondi.
“A person”, scrive Lloyd Jones, “entranced by a book simply forgets to breathe. […] You cannot pretend to read a book”; non si deve leggere un libro, allora, lo si deve creare, far rivivere: portare in questa misera realtà, l’altra realtà, l’altro mondo di cui il libro ci parla.
Alla fine, infatti, questo accade: i personaggio fittizi del libro diventano, per i bambini di Mr Watts, più veri delle persone reali. Tutto questo si giocherà, poi, anche in un equivoco (che sfocerà nella tragedia) tra la realtà e la finzione.
I confini non sono ben delineati, lo abbiamo già detto e, tutto ciò, è portato all’estremo nel libro, quando tutti, adulti compresi, crederanno per davvero all’esistenza di Mr Pip e di Mr Dickens.
Questo si collega anche al discorso appena fatto sull’importanza del nome; Mr Watts, infatti, non dice ai bambini che gli leggerà una storia, ma che conosceranno Mr Dickens: “Tomorrow, we’ll meet Mr Dickens”.
E non avrebbe potuto dire “Domani vi leggerò un libro”? No, non avrebbe potuto. O meglio, non sarebbe stata la stessa cosa. In effetti, quello che Mr Watts fa con i bambini non è ‘leggere un libro’ (l’abbiamo detto, ‘you cannot pretend to read a book’), ma portarli effettivamente in un altro mondo; presentargli un'altra vita possibile: Mr Watts presenta ai bambini un amico, Mr Dickens, non si limita a leggergli ciò che quell’amico ha scritto.
E quell’amico diventa talmente vero, il mondo della letteratura entra a tal punto nel mondo reale; c’è un tale gioco tra personaggi cartacei e reali che, la mamma di Mathilda, ignara di tutto, chiede “This Mr. Dickens, Matilda - if you get the chance, why don't you ask him to fix the generator?”. Ebbene, nella fusione dei due mondi, anche questo può capitare: chiamare l’elettricista e vedersi comparire Dickens.
Leggendo a voce alta, poi, è possibile, come diceva Barthes, “sentire la grana delle parole”, “il brusio della lingua” e, quindi, quello che sta sotto a ciò che le persone dicono; e quello che sta sotto è, il più delle volte, quello che vorrebbero dire.
Per questo, e apro una breve parentesi, è importante stare in biblioteca. La biblioteca, infatti, è uno di quei posti in cui teoricamente è ‘Vietato parlare’, ma dove la gente, ovviamente, parla comunque. Tuttavia è costretta ad abbassare la voce, e facendolo, se siete umili ascoltatori, sentirete ‘la grana’ delle loro parole. In quel sussurro sentirete l’emozione, la tristezza, il dispiacere, la gioia che li portano a dire quello che stanno dicendo. Se voi tacete e ascoltate il loro sussurro in biblioteca sentirete tutto quello che non dicono, capirete il perché non lo dicono, quanto vorrebbero invece dirlo e quanto gli costa non dirlo. Se volete sapere cosa dicono gli altri ascoltate i loro sussurri, i loro occhi; guardate quanto sono grandi le loro lacrime; guardateli fisso negli occhi quando sorridono: se è la sola bocca che si muove non sono felici. Chiusa la parentesi.
Abbiamo parlato, allora, della lettura come evasione e possibilità di creare e trasferirsi, armi e bagagli, in un altro mondo; però, c’è un altro aspetto della lettura nel romanzo: la realtà del testo letterario.
Non più allora due mondi distinti (uno fittizio, l’altro riconosciuto come reale), ma l’unione di questi due mondi in un unico mondo. Questo avviene quando, nella seconda parte del romanzo, i bambini diventano ‘amici’ di Pip e di tutti i personaggi del libro e il testo diviene così reale da creare delle soluzioni nella realtà in cui si trovano a vivere i bambini.
A un certo punto del romanzo, il libro non si troverà più; e lì avviene, secondo me, la fusione totale dei due mondi, perché Mr Watts lo ricostruisce attraverso la memoria, i ricordi dei bambini.
Abbiamo visto prima il forte potere di rievocazione della memoria in Proust; ora, qui, la questione è diversa, ma il principio pressoché lo stesso. La memoria, qui, ricostruisce, ricrea quel mondo, quella storia che, con la perdita del libro, si era perso a sua volta.
Ovviamente, come anche Proust ci ha insegnato, la memoria è sempre condizionata, non è mai una ‘tabula rasa’, quindi la storia che i bambini, sotto la supervisione di Mr Watts, ricostruiranno non sarà Grandi speranze di Charles Dickens ma Grandi speranze dei bambini della scuola di Mr Watts a Buganvillea, un’isola dispersa nel Pacifico. Un altro libro, dunque, viene scritto. Casa editrice, si potrebbe dire, ‘la memoria’.
Quando i bambini si trovano ad aver perso il loro amico Mr Dickens e tentano di ricostruirlo, si accorgono con stupore che non hanno perso proprio nulla: Mr Dickens, infatti, con Pip, Estella, Magwitch e tutti gli altri non stavano tra le pagine del libro ma nella loro testa (cuore?), quindi è solo un pezzo di carta, in definitiva, che hanno perduto: niente di più. E tentano di ricostruire il libro per rispondere alla domanda “come trovare trame significative per la nostra vita? Come si può rendere raccontabile la vita stessa?”
“La ripetizione”, possiamo dire con Brooks, “è in sé una forma di ricordo, cui si ricorre quando la rievocazione propriamente detta è bloccata da una qualche resistenza”; ripetendo, ricostruendo il racconto di Pip, così, i bambini, fanno memoria, rievocano anche la loro propria storia. “Uguale ma diverso”, come diceva Todorov, e infatti il principio si basa anch’esso sulla ripetizione. Quella che costruiscono i bambini è infatti la storia di Grandi speranze ‘uguale’, ma ‘diversa’, perché ricostruita in una sorta di ‘coazione a ripetere’.
Nel lavoro analitico […] c’è dunque una lieve ma effettiva traccia di coazione a ripetere che può sovrapporsi al principio di piacere e che appare “più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto”.
Il tema della lettura di cui parlavamo prima è presente in ogni pagina del romanzo, è il protagonista del romanzo.
Infatti, sostiene Brooks, “la questione della lettura e della scrittura – della necessità di imparare a comporre e a decifrare i testi – risulta tematizzata costantemente all’interno del romanzo”.
Non si leggono, e questo avviene in entrambi i testi, solo libri, ma ci sono vari gradi di lettura:
a) innanzitutto, in Mr Pip, Mr Watts legge il libro ai bambini;
b) in Grandi speranze, Biddy insegna a Pip a leggere e poi Pip lo insegna a Joe;
c) Grace, la moglie di Mr Watts, scrive dei nomi sul muro e, dai nomi, si passa alle storie e alla lettura di queste storie;
d) Grandi speranze viene ricostruito nella memoria dei bambini e, così, è un altro libro che si legge;
e) in Grandi speranze, Pip per tutto il tempo cerca di leggere sul viso di Estella i suoi sentimenti;
f) Pip e Joe si scambiano, e cercano di leggere, dei gesti;
g) in Grandi speranze, poi, già all’inizio, Pip viene presentato nell’atto di decifrare i nomi dei genitori sulla pietra tombale e, “basandosi su quanto gli dicono le forme delle lettere sulle lapidi, Pip pensa che suo padre fosse un uomo ‘tarchiato, squadrato, di carnagione scura, con capelli ricci’ e che sua madre fosse ‘pallida, lentigginosa e malaticcia’”.
Si potrebbe andare ancora avanti, ma il punto è questo: l’esigenza della lettura si percepisce ovunque; c’è un assoluto e devastante tentativo di leggere, di “tematizzare il mondo”; fare del mondo e della vita un libro da leggere: qualunque cosa si può leggere e, forse, leggerla è il modo migliore per capirla, interpretarla. E questo, lo vedremo meglio nell’Appendice al quinto saggio, forse avviene perché la vita instabile, triste, strana, spaventosa, se diviene un libro da leggere è sicuramente qualcosa di più gestibile da noi esseri umani.
Bisogna fare molta attenzione, molto più di Pip comunque, a come si ‘interpreta’; infatti, “per quanto possa essere letteralmente fedele alla traccia grafica, questa lettura [si riferisce a quella dei nomi dei genitori] è pericolosamente figurata, un processo metaforico che non sa di esserlo, la creazione di una fiction ignara del suo ruolo di elaborazione dell’immaginario. Pip, a questo punto, attribuisce di forza un’autorità naturale a quanto è di fatto mera convinzione, arbitrio, materiale dipendente dall’interpretazione individuale”.
In fondo, vale la pena ricordarlo, Pip in Grandi speranze fallisce proprio per un errore di lettura: non ha saputo leggere ‘la trama della sua vita’, e non è cosa da poco. “Il ritorno del rimosso”, sostiene a proposito Peter Brooks, “mostra che quel che Pip vorrebbe presentare come sua storia personale è stata segretamente minata e riscritta dalla storia più complessa di un desiderio inconscio ma ben operante nel testo. In poche parole, Pip non ha saputo leggere la trama della sua vita”. Non ne è stato capace perché, e lo si vede in particolare nel rapporto con Miss Havisham e Magwitch, non ha saputo capire, interpretare, leggere le relazioni con questi personaggi e quello che veramente erano; così come, nel suo straziante amore con Estella, non l’ha saputa conoscere; così come ha rovinato i suoi rapporti con Joe.
Forse, però, e azzardo un’ipotesi da confutare liberamente, non c’è un modo giusto di leggere né la trama del romanzo né la vita di Pip. Infatti,
alla ricerca del significato, alla fin fine, si decide anche il lettore che deve mimare gli atti di lettura compiuti da Pip ma soprattutto superarli. […] Great Expectations indica al lettore la natura stessa del processo di lettura, i modi in cui il lettore può cercare significati nel racconto, e i limiti sia del significato sia del racconto.
Quindi leggere, tentare di leggere, imparare con pazienza a leggere, senza pretendere, però, mai, che la nostra sia la lettura giusta o, peggio, l’unica possibile.
In questo mondo strano e in questa vita sfuggente, la lettura, avere qualcosa per le mani (o nella testa) da poter leggere e rileggere quando si vuole, può forse darci un senso di stabilità, una certezza di poter attraversare questa vita che stabile, e lo sapeva bene Virginia Woolf, non è.
La vita, insomma, è molto solida o molto instabile? Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da sempre, durerà sempre, affonda giù fino alle radici del mondo, quest’attimo in cui vivo. Ed è anche transitorio, fuggevole, diafano. Passerò come una nuvola sulle onde. Forse può darsi che, pur cambiando, pur fuggendo uno dietro l’altro così rapidi, così rapidi, abbiamo – noi esseri umani – una qualche successione e continuità, e che la luce ci attraversi. Ma cos’è la luce? Sono così turbata dal carattere transitorio della vita umana che spesso mi succede di dare un addio, dopo aver cenato con Roger, ad esempio; o di calcolare quante volte vedrò ancora Nessa.
Questa vita, insomma, stabile non è, e nemmeno ordinata, per questo (e da questo), forse, l’esigenza d’un altro mondo, della lettura; cercare il senso (forse?) di questa vita instabile in “illustrazioni grossolane, immagini di un libro le cui pagine voltiamo e rivoltiamo, come se alla fine dovessimo trovare quel che andiamo cercando. Ogni faccia, ogni negozio, la finestra di un camera, il caffè, la piazza oscura, sono figure febbrilmente sfogliate, in cerca di che cosa? Lo stesso è con i libri. Che cosa indaghiamo attraverso milioni di pagine? Sperando ancora voltiamo le pagine”.
“Se esiste una trama maestra per l’esistenza umana, non la si può conoscere e nemmeno intravedere”; così, come se esiste una lettura della vita dell’uomo, non la si conosce ma, una cosa è certa, non può esistere una sola lettura.
“Il racconto”, come sostiene d’altronde Benjamin, “equivale a una ‘fiamma’ a cui noi lettori, solitari e derelitti perché esclusi dal significato, possiamo riscaldare le nostre ‘tremule’ vite”.
E questo avviene in Mr Pip al punto che Mr Watts e le sue lezioni diventano l’unica ‘fiamma’ nella vita segnata dalla guerra dei bambini. Così, è vero che possiamo “continuare a chiedere alla letteratura una possibile idea del mondo e della nostra vita”.
Riapro brevemente la parentesi di prima sulle biblioteche. In biblioteca è tutto catalogato. Innanzitutto, spesso, sono catalogate le biblioteche stesse: non in tutte si trovano lo stesso genere di libri. I libri, poi, sono catalogati, divisi per sezioni, talvolta numerati. Per questo, forse, la gente fatica a entrare in biblioteca. Non ci va, forse, e i bar sono pieni mentre le biblioteche no; perché lì tutto è catalogato, è ordinato, mentre nella loro vita i calzini sono spaiati, i figli si sono persi, i genitori sono sempre più quello che i figli non vorrebbero mai diventare, il lavoro non c’è (o se c’è va male) e piove. Piove sempre nella loro vita. Ma vi assicuro, e chiudo definitivamente la parentesi e anche questo settimo saggio, che il tetto della biblioteca ripara magnificamente dalla pioggia.
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