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L’anima di un d’io

di Giuseppe Silletti
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Pubblicato il 26/08/2013 01:51:01

Bisogno.
E’ il mio momento. Salgo sul palco, traballante, ubriaco di vodka. Ho ancora un cicchetto di Jagermeister in mano e la faccia del cervo impressa nella mente. Una fissa mentale inutile costruita lì dall’alcol e dalla mia voglia di entrare in paranoia a tutti i costi. Ascoltare le urla della folla esigente si sta rivelando piacevole, esilarante, coinvolgente. C’è una piccola scala ed un tizio vestito di nero con un auricolare, mi incita a salire battendo le mani. Scimmia troppo cresciuta con un cervello da formica, inconsapevole che perdere il pelo è stata una pessima scelta. Disturbo della visione pubblica. Pensieri divaganti su di un uomo scimmia mentre lentamente salgo gli scalini della scaletta. La mia testa sbuca come il sole all’alba, pochi millimetri al secondo ed inizio a desiderare il tramonto di quella infame giornata. Un applauso. Clap clap clap.
Il pianoforte è al centro del palco, tutto solo. Il mio vecchio Yamaha su cui ho passato le mie tristi giornate ad associare facce di cazzo ai Do ed ai Re ed a cercare di liberare il mio spirito bollente. Non ci riesco ancora. Ora sono su questo palco, ignaro di essere stato una perdita di tempo per me stesso. Il cacciatore di idee, il fantomatico corridore masochista. Mi siedo. Clap clap clap. La musica scritta sullo spartito è Gymnopedies n°1 di Satie, la mia preferita. Ora che la vodka costituisce una buona percentuale dei liquidi presenti nel mio corpo, l’impressionista che è in me preme la prima nota, un Sol sulla prima riga in chiave di basso, seguito dall’accordo di Si maggiore. Tempo tre-quarti, velocità lenta. Ma manca qualcosa, il brano è piatto e spigoloso. Sembra quasi un valzer in slow-motion e la mia faccia è tesa, come le spalle e le braccia. “Ma è uno scherzo?” sento gridare dal pubblico. No caro amico, non è uno scherzo, manca il pedale di risonanza e sono fottuto. Se cambiassi musica? Se stupissi con un volgare cambio di genere? Un blues improvvisato. Si eccolo, il mio lagnoso blues, il mio piano che piange di disperazione riportando in vita i fantasmi di quei neri schiavizzati nel delta del Mississipi. Ecco il paese dei folli agricoltori rivoltarsi contro me ed il mio piano. La scimmia depilata che prima m’incitava a salire mi solleva di forza e mi sbatte per terra come i pescatori di Polignano sbattono i polpi sugli scogli. Trauma cranico penso, frattura di due costole, ipotizzo. La scimmia diventa piccola e nera ed io sprofondo nel palco come se fosse di spugna.

 

“Daniele!”, “Daniele? Sei sveglio?”, “Daniele cazzo apri gli occhi! Ma quanto hai bevuto?” Una voce lontana, lontanissima. Ora ricordo, Torre Caffè. Quando hai vent’anni ti incitano a non sprecare minuti preziosi, a goderti ogni singolo istante della vita. Perché poi..Il lavoro, la famiglia, i debiti ed il mutuo. Il suicidio. Quindi, rifiutando ogni tipo di consiglio, spreco minuti preziosi a bere ed oziare pensando, pensando, pensando. L’arte più antica del mondo, pensare.
Esiste un momento particolare della giornata, quello in cui devi decidere come occupare il tempo per distrarti dai pensieri di morte o del tuo futuro (che forse sia la stessa cosa?). O pensieri su come evitare di morire soffrendo, chissà scopando ogni giorno e bevendo a dismisura? Un po’ come Bukowski. Però alla fine ti accorgi di essere una piccola mosca che ronza per la stanza in cerca di merda per nutrirsi. Ah, e che caca dappertutto. Ti rendi conto di quanto sia stato fortunato Charles a non morire di quell’ulcera perforante. Se sapessi della mia sorte, se potessi morire senza lasciar triste nessuno, sarei contento di bere senza sensi di colpa. Mi vergogno profondamente di questo.

In questa poco lucida serata di Luglio, mi ritrovo disteso sugli scogli accanto all’alta torre color caffè a contemplare il cielo stellato e la faccia di Davide, la brutta faccia di Davide che mi fissa con un’espressione tragica. “Sono vivo, tranquillo” Cerco di rialzarmi, chiedo aiuto a D. “Siamo tutti preoccupati, sei scomparso per un’ora intera” “Avevo bisogno di stendermi e contemplare il cielo, sai non scrivo un racconto da mesi, cercavo ispirazione” “Il nostro poeta maledetto! Sei pazzo, andiamo via” ; salito in macchina mi stendo sul sedile posteriore, con la testa appoggiata sulle gambe di Roberto. Dolce Roberto. “Scrivo un diario da due mesi Robè”, “Quindi?” mi risponde, “Boh, te l’ho detto perché sono ubriaco” “Ho notato, che ti prende Danié? Sono due settimane che bevi e bevi e bevi!” “Lo sai che scrivo meglio quando sono brillo? Vuoi leggere il mio diario?” “Va bene, domani” “Ho cambiato idea, non voglio che lo leggi più. Stronzetto” “Ah ah, dormi! Se provi a vomitarmi addosso ti piscio in bocca!” “Eh eh eh” Chiusi gli occhi, penso a Woody Allen che riusce a rendere la tragicità della vita una storia comica per tutti. Penso a Bukowski che mi urla contro “Non diventerai mai un bravo scrittore! La tua vita è troppo vuota, monotona, prudente” Dolce prudenza, la chiamava Gaber. Mi ha salvato il culo tante volte, ma arriva un momento in cui decidi di darla in pasto ai cani.
Arrivo a casa, esco dalla macchina e vomito il vino mischiato a pizza, merda che cola dalla mia bocca. La rottura più grande del vomito è che ti finisce dappertutto, e ti trancia il respiro. Sembra di dover morire asfissiato. Prendo le chiavi e invano cerco di centrare il buco della serratura, Davide mi da una mano e mi trascina fino all’ingresso. “Grazie Dà” “Ti porto a letto?” “No no, ce la faccio, vai” “Ok ciao”.

Ti rendi conto di non essere ancora autonomo quando ti svegli la mattina con tua madre che ti fissa con uno sguardo da cagna rabbiosa. “Ho lavato tutto lo schifo che hai lasciato fuori ieri notte. Quanto hai bevuto?” Troppo calma, ora esplode. “Non era il mio vomito, giuro” “Anche quello sui pantaloni e sulle scarpe” “Si Davide mi ha vomitato dappertutto, quel maiale!” “Non ti credo” “La mia parola contro la tua” “Non fai colazione?” “Non ho fame” “Capisco” In fondo sapevo che lei sapeva, ma è sempre meglio negare. “Ieri notte hai lasciato il PC acceso, l’ho spento io” Non ricordavo di averlo acceso. Lo accendo, controllo Facebook, le e-mail, il mio blog ha ricevuto stranamente diversi commenti. Nuovi commenti su Mary in Vena: una storia d’amore finita nel sangue. Non è possibile. Lo apro, lo leggo. Clap clap clap clap. Applausi dal web. Clap Clap Clap Clap. Ma non è opera mia! La storia parla della mia ex. Parla di come la rapisco e la inietto in vena giorno dopo giorno. Mary in una siringa, la mia droga, la mia dose giornaliera. Gran bella idea. Il telefono squilla: “Pronto?” “Sono Mary. Ora mi spieghi come ti sei permesso di sputtanarmi così sul tuo blog” “Mary, non l’ho scritto io giuro” “No? Coincidenza vuole che hai descritto filo per segno quella sera in campagna di mio nonno. Sul terrazzo. Non hai tralasciato un dettaglio, la marca del preservativo, come mi toccavi, il numero di peli che mi hai strappato, le posizioni. Tutto, per filo e per segno” “Mary non so che dirti, ieri sera ero ubriaco. L’avrò scritto per sbaglio… Ora lo cancello, promesso” “Fanculo Daniè, l’ha letto anche mia madre” Tu tu tu. Mi alzo in piedi, vado in bagno e mi guardo allo specchio. Due occhiaie grosse così. Ah ah ah! Una risata lunga e travolgente. Ah ah ah! Alcol magico! “Perché ridi da solo? Sei impazzito?” Rispondo a mia madre con un sorriso e mi chiudo in camera. Steso sul letto ora piango, perché sono certo del mio incerto. Il cd dei Radiohead che gira nel lettore non m’aiuta. Clap clap clap clap.

 

“Sto uscendo” ed esco. La musica negli auricolari trasmette Muddy Waters, sono diretto verso l’ignoto. Il mio piccolo paesino m’accoglie nelle sue strade. Non so perché lo stia facendo, ma credo che starmene a casa non serva a molto quando desidero che accada qualcosa. Ho bisogno di esplodere, ma non c’è urlo che terrebbe. Non c’è cazzotto che basterebbe, né profumo che solleverebbe. Passa un cane, poi un gatto. Arrivo in centro, il parco è deserto. Mi siedo su una panchina a guardare il vento accarezzare le foglie degli alberi. Aspetto Godot, ma non arriva che polvere. Il Domiziano è aperto, entro e mi siedo al bancone. “Preparami un cocktail, a tua scelta” segue un occhiolino. Un Invisibile puro tutto per me. Un sapore orribile. Lo finisco, un’ altro Invisibile per favore. Un terzo. Saluto ed esco, tornando nello spazio cosmico. Mi siedo su una panchina e alzo gli occhi al cielo, bellissimo. Quando ero piccolo ricordo che cercavo la maledetta orsa maggiore senza mai riuscire a vederla. Oggi vedevo un paio di tette e una lucertola senza coda. Che fantasia, c’è anche una nuvola a forma di gatto. Un gatto volante, “Miao” faccio. Sembra proprio un apparizione, come la nuvola a forma di Madonna a Medjugorje. Che idiota. Mi stendo e chiudo gli occhi. Clap clap clap clap.

 

“Le trombe suonavano per il paese, ed il mio cuore sobbalzava di gioia. Ogni porta aperta, ogni bambino con il suo lecca lecca. I tamburi portavano il ritmo del ballo, la gente ballava. I cani sopra i gatti, i gatti sopra i cani. Le trombe dimenavano acuti pieni di piacere. Orgasmi. I miei orgasmi. La gente saltava e saltava. Piroette e cadute. C’è chi si lanciava nella grossa fontana al centro del parco e chi si denudava sopra una panchina a mo di spogliarello. Le chitarre buttavano accordi dai tetti ed i violini lanciavano note come stelle filanti. Quattro gatti grassi oziavano vicino ad un bidone colmo di spazzatura. Ho venduto l’anima al diavolo per avere tutto ciò, eccomi. Colmo di tutto il possibile danzo per le strade, un tango un valzer. Un grosso carro arrivava da in fondo al corso, era una bottiglia di Vodka impiccata. Sotto di essa c’era Mary a mantenerla. Come se volesse non farla morire. Mary in vena. Sempre li, nel sangue bollente che protegge i suoi simili.

Quando la sensibile non risolve sulla tonica, è proprio allora che abbiamo modulato da realtà a sogno. O da sogno a realtà. La sensibile è scesa.”

 

“Ragazzo sveglia, che ci fai qui?” Un carabiniere mi agita la spalla. “Emh, sono svenuto” “Chiamo un ambulanza?” “Non ce n’è bisogno, la ringrazio per avermi svegliato. Buonasera” “Salve, e stia attento”. Penso a Bukowski, che ogni volta che si svegliava all’aperto si chiedeva se controllare o no la presenza del portafoglio nelle tasche. Lo faccio, non c’è. Maledetto Invisibile. Torno indietro, sotto la panchina non c’è. Il carabiniere è ormai lontano. Bestemmio profondamente.

La strada del ritorno è eterna. Trovare una buona scusa per essersi ritirato alle due di notte, tutto solo. Senza portafoglio. Senza un’identità.

 

 

 


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