Come riflessione, consuntiva del 2016 e preventiva del 2017, condivido, in particolare con chi pensa, come me, di scrivere poesia, alcune battute di un dialogo sulla poesia estratto dal romanzo di Murakami "Kafka sulla spiaggia"; leggendolo questa mattina sulle apuane, con lo sguardo al vasto panorama della costa dell'alto Tirreno, da Piombino alla Corsica a La Spezia, nel silenzio quasi irreale dell'azzurro a 1200 metri sul livello del mare, ho fatto un profondo esame di coscienza sul mio scrivere poesia:
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– Poesia e simbolismo sono sempre stati inseparabili. Come i pirati e il rum.
– Lei pensa che alla signora Saeki fosse chiaro il significato di quelle parole? Ōshima solleva il viso, tendendo l’orecchio ai tuoni lontani, come a misurarne la distanza, poi mi guarda e scuote la testa.
– Non è detto. Simbolo e significato sono cose diverse. Io credo che lei [la signora Saeki] sia riuscita a scegliere le parole giuste, saltando i passaggi intermedi del significato e della logica. Ha estratto le parole dai sogni, come si cattura una farfalla mentre vola, prendendola dolcemente per le ali. Gli artisti hanno la capacità di evitare inutili prolissità.
– Vuol dire che la signora Saeki avrebbe preso i versi di quella canzone da una dimensione differente, come ad esempio quella dei sogni?
– Credo che questo, in un modo o nell’altro, sia vero per tutta la grande poesia. Se le parole non riescono a trovare quel canale visionario che le mette in contatto col lettore, non arrivano a creare poesia.
– Però ci sono molte poesie che sono prive di questa capacità ma fingono di averla.
– È proprio così. Se si impara il trucco, simulare non è poi tanto difficile, se si usano parole che sembrino simboliche. A una lettura distratta, prodotti come questi possono anche passare per poesie.
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