Sono ritornata alla più antica tragedia conservata della tradizione occidentale: I Persiani di Eschilo. Ne ho interrogato il senso e ho scoperto che i versi solenni e altisonanti vibrano di risposte mai definitive e concludenti, ma stimolanti a offrire nuovi dubbi e interrogativi, come ogni vero “classico” fa. È la capacità di noi contemporanei di porre le domande giuste che fa la differenza rispetto ai testi che rimangono “muti” alle nostre inquiete interrogazioni. Il testo con cui ho nuovamente voluto intessere un dialogo, far vivere dentro di me per lasciar riecheggiare un’eco ampia e lunga per risonanza, riprende il tema storico delle Fenicie di Frinico, quello della battaglia navale di Salamina. Eschilo scrive un dramma che costituisce un’eccezione alle convenzioni di un teatro, in cui solo il mito era soggetto di tragedia.
Il coro è costituito da vecchi persiani che sono rimasti a Susa, non potendo, per ragioni di età, seguire il re Serse nella campagna militare contro i Greci. La Persia è rimasta priva di giovani uomini, costretti ad appoggiare le ambizioni sfrenate del sovrano, mal consigliato e solleticato nella sua intima vanità di conquistare la Grecia e abbattere Atene.
La regina Atossa, madre di Serse e moglie del compianto re Dario, è oppressa da angoscia inspiegabile e da sogni perturbatori. Il coro le consiglia di evocare dall’Ade l’ombra del defunto marito, non prima di averle spiegato il sistema di governo greco:
<<Di nessun uomo sono schiavi né sudditi>>.
La contrapposizione tra la libertà dei Greci e l’oppressione tirannica dei Persiani è sottolineata dal tragediografo nell’ottica di uno scontro che vede da una parte i Greci combattere per la difesa della propria libertà e dignità, dall’altra i Persiani seguire il proprio re, posseduto dal demone accecante dell’ambizione.
L’arrivo del messaggero, che è stato presente ai fatti, come prova sicura della loro veridicità, sconvolge l’atmosfera già attraversata da oscuri presagi: è avvenuta a Salamina una battaglia nella quale i Persiani, deboli in mare, sono stati sconfitti duramente. Moltissimi i cadaveri sulle rive e Serse, che ha assistito alla sciagura, si mostra sofferente e disperato:
<< Serse gemette vedendo la profondità delle sciagure: stava infatti in un luogo che dominava tutta l’armata, un alto colle vicino alla distesa marina; stracciatosi le vesti e gettato un alto grido, dà frettolosamente ordini alla fanteria e la slancia in fuga disordinata>>.
Serse ritorna a Susa, ma è stremato per l’umiliazione della sconfitta.
Eschilo guarda alla guerra attraverso lo sguardo degli sconfitti, a una distanza equa tra la sua appartenenza greca e la sua visione di poeta, attratto dalla fragilità umana e dall’instabilità della fortuna. Serse paga i suoi errori e conduce un popolo al disastro e se pensiamo alla Storia non è stato l’unico a farlo; Eschilo non lo deride, non lo offende, individua, invece, i suoi punti di debolezza: l’ambizione non contenuta, la tracotanza che non gli fa accettare i limiti imposti dalla sua natura d’uomo. Serse si comporta da dio, ma è un uomo; giusta, quindi, la sua punizione, perché “ chi è mortale non deve superbamente pensare”, ingiusto il dramma che coinvolge un intero popolo, innocente e in balia di sconsiderati progetti. Il padre Dario è un re che non dimentica mai di essere un mortale, custode di un sagace equilibrio e di un attenta osservanza delle leggi umane e divine.
I Persiani sono una tragedia collettiva, il cui apice narrativo ed emotivo è il racconto del messaggero: in 80 versi tesi e fortemente evocativi Eschilo mette in scena l’andamento vivace della battaglia, le decisioni strategicamente sbagliate di Serse, le conseguenze disastrose, le perdite di uomini e la distruzione delle ricchezze persiane. Nella nuova messa in scena all’Arena di Parma ( 5-6 luglio in prima nazionale) il regista Andrea Chiodi ricorda che Eschilo volle ammonire gli Ateniesi dopo otto anni dalla battaglia di Salamina sulle ombre della guerra del Peloponneso, che si addensavano sull’età di Pericle. A interpretare la regina Atossa la sempre straordinaria Elisabetta Pozzi, tenace ricercatrice delle parole eterne deposte nel teatro greco. Con la nuova rappresentazione della tragedia eschilea si ripropone la rivincita di un genere, che non smette mai di essere il contenitore prismatico di storie e miti, fecondatore di innumerevoli altre suggestioni.
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