Pubblicato il 04/06/2009 13:38:00
Un paragone spontaneo e neuronico tra Maurizio Maggiani - "È stata una vertigine", Feltrinelli, Milano, 2002 - e Giuseppe Pecorelli - "Serenata alla finestra sbagliata (e altre storie)", Plectica Editrice, Salerno, 2008.
Un uomo che adora i Presepi e il suo incontro con una misteriosa Bella: questa la trama del flash narrativo "L’uomo che adorava i Presepi", uno dei tanti che formano il libro di Maurizio Maggiani, "È stata una vertigine". Il flash ha un incipit abbastanza ripetitivo che mi spinge a chiedermi se la letteratura non debba essere altro, magari acquistare una precisione metaforica - perché anche le metafore possono essere molto precise e icastiche - che, in tale narrativa, purtroppo, poche volte trapela: nei bui vicoli genovesi, di sapore campaniano, o nel palazzo che pende per la presenza di una attraente Polacca. Come se lo scrittore non riuscisse a garantire una continuità ‘immaginifica’ alla sua scrittura e tentasse di colmare i buchi neri con frasi troppo generalizzanti:
«Non c’è un momento che deve succedere, succede e basta, e di solito succede quando a rigor di logica non potrebbe succedere niente. In particolare succede quando non dovrebbe. Ad esempio può capitare nel bel mezzo della Settimana Nera» (p. 129).
Quest’ultima è la risibile parodia, suppongo, di una Settimana Santa in versione profana, stile depressivo, falso ribelle. L’autore, forse è questo il neo per me più insopportabile, resta sempre a distanza. Fin qui uno potrebbe dire tutto bene. Il narratore deve mantenersi a distanza per non cadere nel sentimentalismo. Il punto è che, invece, stranamente, la terza persona di Maggiani o il suo modo di vedere se stesso o gli altri dall’esterno, sembra un artificio che lo scrittore si impone meccanicamente, senza che, però, con esso riesca a dare un’anima vitale ai personaggi o all’amore stesso, il sentimento a cui il libro vorrebbe dar voce.
È brutto, è vero, fare paragoni; mi scusa il fatto che sia possibile conoscere solo attraverso i vorticosi rapporti di somiglianza o contrasto che i nostri neuroni si affannano a stabilire. La voce assente in Maggiani vive, credo, nelle malinconiche ‘serenate’ di un giovane narratore salernitano i cui personaggi hanno sempre la vitalità struggente dei clown circensi, il sorriso un po’ triste di Charlot. Il narratore si chiama Giuseppe Pecorelli, è alla sua seconda raccolta di racconti che si chiama "Serenata alla finestra sbagliata (e altre storie)". Le sue sono fiabe che colgono il filo onirico della realtà, trasformando il Sud in metafora di una condizione in cui l’inettitudine sconfina nella sognante utopia, in quella «leggerezza dei gabbiani in un corpo goffo e pesante» ("Il cacciatore di baci", p. 27) che anima la fantasia del pescatore di Pititinga, Fernando: un villaggio imprecisato, un personaggio che tende il suo retino per catturare i baci persi nell’aria, una guerra improvvisa tra paesi vicini, la scomparsa dei pesci del mare, simile a una maledizione, un rude pescatore, Santino, che butta, invano, le sue monete, simbolo del potere, nell’acqua affinchè i pesci tornino. Con l’efficacia di una realtà narrativa che cede, in modo quasi impercettibile, al fantastico, Fernando, come un gabbiano, prenderà a volare sulle acque, fecondandole con il suo tesoro di baci immaginari:
«E quando il suo volo lo portò sul mare, si fermò sospeso in aria, girò appena la chiave nella serratura sottile della cassetta e l’aprì. Piegò poi lo scrigno verso il basso e lasciò che un liquido invisibile scendesse tra le onde» (p. 32).
I pesci ricompaiono, ma nessuno saprà mai la vera causa del loro ritorno, anzi Santino crederà che le sue ricche monete abbiano fatto il miracolo. Il cacciatore di baci è, forse, il racconto dove più felicemente si stringe il nodo tra il liquido invisibile del sogno e la semplice espressività di una lingua che ricorda, talora, perfino alcune movenze bibliche, talaltra alcune pagine ‘esatte’ di Italo Calvino. Fiabe, dicevo, in cui l’autore sembra inseguire un antico Eden di latte e miele che, nei suoi momenti migliori, quando cioè non piomba in un sentimentalismo eccessivo o in una morale troppo scoperta, si condensa in dettagli suggestivi: penso, per esempio, alla nuvola che, nel racconto "L’amore dentro una nuvola", si gonfia come la pelle di una cornamusa, irrorando di miele e zucchero il borgo assetato dove, poco prima, è giunta la bella maestra, la malafemmina per le beghine del paese, Veronica Santalmassi. È lei la vera rugiada che anima questo indeterminato borgo grigio-nero, sempre vestito a lutto, così simile ai nostri centri meridionali aggrappati alle rupi della Sila. La scrittura di Pecorelli sembra nascere dalla trasformazione creativa di un’immagine che appartiene, spesso, alla natura. Nel racconto precedente, il carattere fantastico di Fernando si coagulava intorno al volo del gabbiano; ora, nel caso di Veronica e della sua nuova femminilità, alla leggerezza del gabbiano si aggiunge lo sbuffo etereo della nube: Aveva fianchi rotondi e perfetti, morbidi come gli sbuffi di certe nuvole. E cantava, cantava sempre. La sua voce era soffio alle ali dei gabbiani, bagnava di miele le acque dei torrenti e fendeva il tessuto del tempo, aveva il sapore del latte e della cioccolata, sgranava il presente sino a lasciar che filtrasse il ricordo di quando s’era bambini (p. 35). Ci sono anche, è vero, in uno spiritoso contrappunto, le nuvole d’invidia delle paesane che sbuffano come pentole a vapore, perché gli uomini, ingialliti e sbilenchi, adorano la bella Veronica: un altro indizio della qualità metaforica di questa narrativa. In tempi di grande povertà linguistica, bisognerebbe tenerne conto.
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