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2- L’uomo invisibile

di Valter Casagrande
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Pubblicato il 03/06/2013 11:50:33

 A quel tempo il signore del luogo si chiamava Enrico III della Torre. Signore era certamente un termine più riferito al titolo che non ai possedimenti effettivi.

La casata, un tempo ricca e potente, era stata impoverita dal nonno di Enrico, Alberico.

Questi, gaudente dissipatore, era morto felice dopo aver speso tutto quello che aveva e che non aveva.

Il padre di Enrico, Alberto, si era invece a lungo impegnato per re­cuperare il possibile, salvando la proprietà del palazzo e della tor­re dalla quale la loro famiglia prendeva il nome ed il blasone.

Non aveva avuto un'infanzia serena, Enrico, minata dalla timidezza e dalla solitudine, né una giovinezza spensierata e felice, vicino ad un padre severo e poco disposto verso di lui.

Alberto non aveva mai perdonato, in cuor suo, al figlio di avergli  "ucciso", con la sua nascita, l'amatissima moglie.

Una storia comune, ma certamente non per il giovane che, per le sue insicurezze, non era stato capace di ribellarsi a questo stato di co­se.

Gli unici momenti felici, per lui, erano quelli nei quali si ritirava nella soffitta del palazzo per osservare le abitudini ed il comporta­mento degli uccelli.

Coltivava questa passione fin da piccolo e a poco a poco era diventa­to un esperto ornitologo.

Aveva letto molti trattati ed era arrivato perfino a scrivere un li­bro sulle cose da lui osservate.

Il volo degli uccelli gli ispirava quel senso di libertà che avrebbe voluto come tratto fondamentale del sua carattere.

Ma la sua indole non gli permetteva di staccarsi autonomamente dal suo nido che pure era  arrivato ad odiare.

E allora fantasticava, arrivando perfino ad invidiare le ali degli uccelli.

Accettò con passività un indirizzo di studi lontano dai suoi interes­si, ma favorevole alla gestione del patrimonio residuo della fami­glia.

Prese senza recalcitrare il posto del padre, alla sua morte, e portò a termine l'opera di ricostruzione.

Fece un lavoro proficuo, tanto da potersi poi permettere una vita più che agiata.

Gli uccelli scomparvero dalla sua mente e con loro anche quei pochi momenti di serenità, che lo avevano sorretto anni prima.

Nemmeno nel matrimonio trovò la felicità.              

Perse subito il filo dei sentimenti, la capacità di amare.

Aveva ben poco da dare e, forse, ancor meno era quello che voleva prendere.

L'unione fallì miserevolmente.

Rimase solo e divenne sempre più scontroso e arido.

Cominciò a vivere soltanto di ricordi.

Ma fino a questo punto la vicenda di Enrico non avrebbe nulla di par­ticolare o di differente da quella di tante altre umane situazioni.

Il fatto strano capitò quando il nobile signore compì quaranta anni.

Una mattina, svegliandosi, notò con gran terrore che il suo braccio destro era diventato completamente trasparente.

Fece immediatamente chiamare i migliori medici del Paese, ma nessuno di questi riuscì ad identificare quella strana malattia né, tantomeno, a curarla.

Nel frattempo la trasparenza era diventata quasi invisibilità e si era estesa alla maggior parte del corpo.

All'inizio tentò di mascherare con gli abiti la sua situazione, ma poi risultò impossibile nascondere la sua " inesistenza ".

Era oramai poco più di un diafano fantasma, quando un giorno sentì bussare al portone del suo palazzo.

Al maggiordomo che andò ad aprire, si parò davanti un anziano signo­re, dall'aspetto misterioso, che teneva tra le mani un piccione feri­to.

" Se non mi ricordo male - disse senza attendere - qui abitava un ra­gazzo amante degli uccelli.

Veda, per cortesia, se può prendersi cura di questo povero animale con un'ala spezzata.

Io, purtroppo, sono di passaggio e non posso occuparmene.

Al mio rientro, tra una settimana, ripasserò per vedere come è anda­ta."

Senza nemmeno attendere una risposta, lasciò il pennuto tra le mani del maggiordomo, si girò e si allontanò senza indugio.

Il solerte domestico, per non disturbare il suo iroso padrone, non sapendo cosa fare, stava per depositare l'insolito fardello per la strada, quando si sentì trattenere per una spalla.

" Fammi vedere " sentì dire, con sua grande meraviglia, da quella che era ormai soltanto  una presenza eterea.

Consegnò l'uccello che venne trasportato quasi librandosi nel vuoto, nella stanza del signore.

Enrico sentì rinascere in lui interessi e sensazioni che aveva quasi dimenticato.

Il piccione, curato amorevolmente, guarì in fretta e venne trattenuto per essere restituito al viandante.

Questi, puntualmente, dopo una settimana, tornò al palazzo.

Venne introdotto al cospetto del signore e si dimostrò subito molto interessato alla sua strana malattia.

Volle sapere tutto sulla vita del suo interlocutore, anche i partico­lari più insignificanti.

Enrico, quasi soggiogato dalla personalità del vecchio, fu molto e­sauriente nel racconto.

A fine giornata il vecchio così concluse: " Mio caro ragazzo, lascia­ti chiamare così come mi ispira la mia età, io non sono un medico, ma secondo me il tuo problema è tutto in quella spessa corazza di indif­ferenza che ti sei man mano costruita.

Quella non ti permette di provare nulla per gli altri, non ti permet­te nemmeno di vederli.

Così alla fine gli altri non vedono più te.

Ricordo che, tanti anni fa, avevi una grande passione, ma vedo che non hai voluto concederle spazio.

Ed ora stai barattando miseramente gli impulsi della tua vita con i ricordi, con tutti i ricordi che vegetano alle tue spalle.

Posso solo darti un consiglio.

Riprendi a studiare gli uccelli.

Approfitta di questo tuo stato, forse può risultarti utile.

Dai nuovo corso ai desideri che non hai  realizzato da ragazzo.

Se vedi gli uccelli, forse, alla fine torneranno a vederti anche lo­ro".   

Se ne andò silenziosamente e senza indugio, come la prima volta.

Enrico pensò a lungo a quelle parole e decise che valeva la pena di seguire il consiglio datogli.

Cominciò a passare lunghe ore appollaiato sugli alberi, invisibile alla vista dei curiosi.

Apprese molte cose sugli uccelli che si muovevano intorno a lui senza timore.

Fu completamente assorbito dalla sua grande passione e non pensò più al suo stato.

Quando un giorno notò che gli animali cominciavano a mostrare diffi­denza nei suoi confronti, si rese conto che qualcosa stava cambiando.

Enrico, infatti, stava rimaterializzandosi.

Non si fece prendere dall'euforia né, tantomeno, si crogiolò nella beatitudine, ma, ormai pieno e maturo, prese con sicurezza una deci­sione perentoria.

Avrebbe, d'ora in poi, vissuto libero come gli uccelli che tanto ama­va.

Non era poi troppo tardi per fare quello che non aveva avuto il co­raggio di mettere in pratica da ragazzo.

Chiuse il palazzo, congedò la servitù.

Lasciò istruzioni scritte al suo notaio per la gestione del patrimo­nio e disposizioni perché si rintracciasse il vecchio e gli si of­frisse la possibilità di vivere, se lo voleva, il resto dei suoi giorni nella torre in fondo al parco.

Andò via portando con sé poche cose.

Dopo circa vent'anni, un ragazzo si presentò al notaio con una lette­ra di Enrico che affermava trattarsi di suo figlio.

Era un giovane dagli occhi acuti e dal portamento fiero, ma dai modi decisamente selvatici.

Mentre il notaio controllava le credenziali e lo istruiva sulle sue proprietà, il ragazzo ascoltava distrattamente, preso com'era dalla vista del volo delle rondini fuori dalla finestra...


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