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il mito di Gabii e la memoria di Faustolo
IL MITO DI GABII E LA MEMORIA DI FAUSTOLO Gabi (in lingua latina Gabii) fu una città del Latium vetus, posta al XII miglio della via Prenestina, che collegava Roma a Præneste, e che secondo Dionigi di Alicarnasso faceva parte della Lega Latina. Le sue cave fornivano un'eccellente pietra da costruzione, il lapis gabinus. Secondo la tradizione fu il luogo dove Romolo e Remo sarebbero stati educati e sarebbe stata loro insegnata la scrittura. A Gabi si rifugiò Tarquinio il Superbo, quando fu espulso dall'Urbe dai cittadini in rivolta che avevano decretato la fine della monarchia e l'esilio perpetuo. Posizione di Gabi nel Latium vetus. Gabi rappresenta il vertice antico di un triangolo con ai lati le cittadine di Tibur (Tivoli), Præneste (Palestrina) e Collatia ( Lunghezza), che nel periodo antico ebbero notevole sviluppo e grande importanza nelle vicende storiche e politiche del Lazio in forza della posizione strategica sulle arterie di collegamento dei percorsi commerciali tra l'Etruria e la Campania. Tra il IX secolo a.C. e VIII secolo a.C. in queste comunità ebbero luogo delle trasformazioni sociali, che portarono alla costituzione di un sistema sociale con la formazione di centri protourbani, anticipatori di quelli urbani propri del territorio laziale latino. Gabi potrebbe essere la città natale del poeta Tibullo. Il sito, che si trova adesso a circa 20 chilometri di distanza da Roma al km 2 della via Prenestina Nuova, era situato lungo il percorso della via Prenestina antica, che attraversava la città, formando l'asse viario principale, via che in precedenza era chiamata via Gabina ( o Gabiense). Gabi, la strada romana. I resti del santuario di Gabi. GABII Lungo le sponde di un lago argentato, bagnata dai riflessi degli astri nascenti, costeggiata da strade che univano i popoli antichi, cantava il suo essere con superiore certezza. Gabii passata dimora di perduranti coscienze, di conoscenze perdute, tu eri il centro di un mondo che libero spaziava i confini del vivere e del sapere. Vite divine percorrevano, a passi sicuri, le strade più conosciute dirette a templi infiniti persi nel tempo di secolari ricordi Scuola di vita, insegnamento imperdibile per quelli che avevano prospettive sublimi e natali destinati ad un dominio imperiale che avrebbe distrutto anche la tua memoria. Tutto scompare ma nessuno può cancellare i tuoi simboli che vivono ancora e allattano il nascosto segreto di quello che eri e di quello che è nato solo per il tuo merito e la tua grandezza. (inedito) NEL grande lago prosciugato che costeggiava Gabi, il lago di Castiglione, adesso spuntano balle di fieno, i trattori procedono pigri nel loro andirivieni e il podere quattrocentesco in cima alla collina è rosa e nuovo, con un magazzino dove cassette e cassette di cocci vengono spazzolate, lavate e talvolta ricomposte in anfore o vasi. Sparsi nella campagna intorno - tra il grano, i papaveri e le margherite - tanti ruderi apparentemente indistinti. Sul bordo della conca verde che era stata un vulcano e poi un lago, sta una manciata di case impari, senza ordine né regola, borgate col nome di Osa e Castiglione d' Osa. E' qui, dietro la via Prenestina nuova, al fianco di Pantano Borghese, che sorgeva l' antica Gabii, cittadina potente, al centro di un crocevia di scambi con la Campania di Cuma e l' Etruria di Cerveteri, dai costumi raffinati tanto da generare una leggenda secondo la quale Romolo e Remo vi vennero inviati per la loro formazione. Qui era Gabii, famosa per la sua pietra capace di resistere agli incendi a cui deve forse anche il toponimo, che potrebbe venire da cabum-cavum, luogo delle cave di pietra. Utilizzata per costruire il grande muro che separa la Suburra dal Foro di Augusto, per Ponte Milvio, per la tomba di Cecilia Metella. Gabii, la nemica di Roma ai suoi albori che al solo nominarla destava allarme e preoccupazione. Sono tante le leggende, innumerevoli le attestazioni nei testi dei grandi autori classici che dicono la storia di questa che in origine era, come quasi tutte le città del Latium vetus, una colonia di Alba Longa. Della storia successiva, delle sanguinose lotte per la supremazia parla Dionigi di Alicarnasso e poi ancora Tito Livio. Ma la più nobile delle fonti è Virgilio che nel libro VII dell' Eneide fa menzione del santuario di Giunone gabina quando racconta le fondazioni delle città. E Marziale elogia negli epigrammi i benefìci legati alle terme dove anche Augusto, imperatore della pace, veniva inviato dal suo medico, Antonio Musa Ma anche la storia degli scavi sull' area è corposa. A mettere le mani sulla terra è per primo Ennio Quirino Visconti insieme al principe Camillo Borghese che nel 1792 riconosce la piazza, l' antico foro ed estrae una quantità di statue, vasi, marmi, iscrizioni. Una collezione che viene poi collocata nel Casino dell' Orologio a piazza di Siena, nato per essere Museo Gabino ma destinato a una triste sorte giacché i reperti vennero ceduti a Napoleone Bonaparte e si trovano tuttora al museo del Louvre Artemide detta "Diana di Gabi", copia del I sec.d.C. di originale greco, rinvenuta a Gabi da G. Hamilton nel 1792 e ora conservata nel Museo del Louvre La necropoli di Osteria dell'Osa La necropoli dell'età del ferro di Osteria dell'Osa è legata con la fiorente Gabi, Le datazioni dei ritrovamenti si situano nel periodo compreso tra il IX e il VI secolo a.C.; la necropoli è composta da circa 800 tombe e sepolture. Nei ritrovamenti vi sono iscrizioni in lingua greca del 650 a.C., le più antiche in Italia in questa lingua (dopo la coppa di Nestore), ed iscrizioni in lingua latina del 750 a.C., che sono le più antiche del mondo in questa lingua. Presso la sezione della protostoria dei popoli latini del Museo nazionale romano sono raccolti i materiali scavati negli ultimi decenni. Quindi il valore strategico della posizione occupata da Gabii, il controllo di rilevanti arterie di collegamento e di tracciati commerciali (ad esempio tra l’Etruria meridionale e la Campania o tra il versante Adriatico) consentono alla città Gabina un notevole sviluppo economico, sociale e politico nella dimensione centrale pre-italica. Difatti nei primi decenni del V secolo a.C., quando Roma sconfisse la Lega Latina (costituita da alcune città che volevano mantenere la propria indipendenza) in prossimità di Gabi ( battaglia del lago Regillo), quest’ultima assunse una potenza e uno splendore mai più eguagliati. L’attività organizzativa e vitale ben nota anche nelle fonti classiche, è ricordata accuratamente dalle narrazioni di Dionigi di Alicarnasso, che menzionava l’invio a Gabi dei giovani Romolo e Remo, presso la comunità del pastore Faustolo, per apprendere, appunto, l’arte della scrittura e delle lettere, della musica e soprattutto dell’utilizzo delle armi. RILESSIONI Faustolo ed Acca Larentia: un pastore ed una prostituta. Quindi secondo la storiografia prevalente romana i figli di una regina, discendente da Enea, Rea Silvia, e del dio Marte, furono formati a Gabii da queste due figure: ACCA LARENZIA (Larentia, altri Laurentia). - Antichissima divinità romana, sulla cui tomba al Velabro il 23 dicembre, giorno dei Larentalia, il flamen Quirinalis e i pontefici celebravano sacrifici funebri (parentatio). Per alcuni (p. es. De Sanctis) essa è la madre dei Lari; altri invece, per la diversa quantità di Lăres e Lārentia, la ritengono una figura Magna Grecia, fusa poi con la divinità del Velabro (Zielinski, Wissowa); per altri infine essa sarebbe la Madre Terra. ( Treccani) ACCA LARENTIA E FAUSTOLO In Acca Larenzia e Faustolo si mescolano mito e leggenda. Da un lato, essa è, un antichissima dea etrusca, acquisita dai Romani come prostituta semidivina protettrice dei plebei. Dopo aver passato una notte di preghiere nel tempio di Eracle, per volere del semidio incontrò un uomo ricchissimo che sposatala, la lasciò erede di una immensa fortuna, che a sua volta lasciò al popolo romano, che festeggiava la donazione con le feste dette Larentali, ricorrevano il 23 dicembre. Più tardi il nome di Acca Larenzia fu attribuito alla moglie del pastore Faustolo che aveva trovato Romolo e Remo. Pur essendo già madre di dodici figli, i cosiddetti fratres arvales, Acca Larenzia allattò e allevò anche Romolo e Remo. La formazione di un’articolata “leggenda” riguardo alla fondazione di Roma conobbe un decisivo impulso in età augustea. Le ragioni di questo sviluppo sono abbastanza chiare: Roma era ormai diventata il centro politico, economico e culturale di tutto il Mediterraneo e Augusto, nella sua vasta opera di riorganizzazione della compagine statale romana, mirava ovviamente a nobilitarne il passato e a dare così ragioni “culturali” del suo dominio sul mondo. Il simbolo su cui si incentra la leggenda è la lupa, divenuta nume tutelare di Roma; la lupa era anche l’animale sacro del dio sabino Mamers, analogo di Marte, ed era anche l’animale tutelare dei latini con il nome di Luperco, mentre per gli etruschi il lupo raffigurava Aita il dio purificatore e fecondatore. Si può supporre che la fusione dei miti sia stata voluta per avere una maggiore coesione tra le diverse etnie. Tutta la simbologia appare incentrata sulla figura dell’animale meglio conosciuto da genti che vivevano di pastorizia e che esorcizzavano i loro timori assegnando al loro potenziale nemico attributi divini. Nella religione primitiva questi animali, lupi ma anche serpenti, rapaci ed i primitivi uri potevano dare la morte ma erano i figli della Dea Madre che era capace di rigenerare ogni cosa. Il culto della Dea Madre era associato ad una caverna che simboleggiava la parte interiore della dea da cui si generava la vita e la grotta dove la lupa portò al riparo i gemelli si chiamò Lupercale. ARVALI (fratres arvāles) Antico collegio sacerdotale romano, di dodici membri, che secondo una remotissima tradizione rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e di Faustolo e in cui i mitografi riconoscevano una raffigurazione dei dodici mesi. Si dedicavano al culto della terra che nutrisce, invocandola sotto il nome di dea Dia, e il loro anno liturgico, che era anche l'anno di carica dei dignitarî del collegio, andava da una festa delle sementi all'altra Le origini degli Arvali si ricollegano con quella forma della primitiva religione che si riferisce alla coltura dei campi (arva), favorendola con cerimonie sacrificali. La dea Dia, che essi veneravano, era forse la stessa Cerere, e l'insegna propria dei membri del sodalizio era la corona di spighe con bianche bende. I solenni sacrifici dei fratelli Arvali si celebravano precisamente nei giorni delle antichissime Ambarvalia (gli Ambarvali erano una serie di riti che si tenevano nell'antica Roma alla fine di maggio per propiziare la fertilità dei campi, celebrati in onore di Cerere) con i carme arvalico. Il testo del carme arvalico (verso suturnio) in lingua arcaica, divenuta incomprensibile agli stessi Romani dell'età imperiale, comprovano le remote origini del collegio. Il verso saturnio l'unico verso usato nella poesia latina arcaica, prende il nome dal dio Saturno che, secondo il mito, si era rifugiato nel Lazio dopo la cacciata dal cielo; è detto anche faunio, in onore di Fauno, il dio indigeno che lo avrebbe inventato. Il poeta Ennio scrive che gli antichi canti erano in saturni e che a questo verso ricorrevano i vati e i fauni, intendendo forse così indicare il suo uso nei canti della tradizione religiosa e agreste. È un verso imprevedibile, dalla struttura estremamente fluida sulla cui natura gli studiosi non sono unanimi: ha un ritmo quantitativo, costruito cioè secondo una precisa successione di sillabe lunghe e brevi, oppure accentuativo, basato cioè su una determinata alternanza di sillabe toniche e sillabe atone, oppure, ancora, quantitativo e accentuativo insieme. Il fatto è che nei pochi versi pervenuti, circa duecento tra epigrafici e letterari, non si riscontrano due saturni uguali. È probabile comunque che nei primi secoli il verso avesse un ritmo accentuativo di origine indoeuropea, e successivamente, in fase soprattutto letteraria, diventasse quantitativo, perché più adatto alla natura della lingua latina. LA MEMORIA DI FAUSTOLO Dicevano fossi un pastore e tua moglie una lupa, ma tu eri un gran sacerdote e lei una dea. Cantavi il verso saturnio, scandivi il metro ritmato della magia, della sacra coscienza, della reminescenza più antica. Il tutto nasceva dal nulla e tu, custode geloso di vecchie sapienze, di conoscenze ancestrali, alzavi le mura di Gabii secondo remoti dettami. Ma nulla è più grande del nuovo che nasce, del barbaro impero che tutto nasconde, ghermisce e sacrifica alla divina ignoranza. Così si cambia la storia, si ferma il progresso, per ricominciare da capo a scrivere le pagine vuote di un libro che ha tanti inizi ma mai una fine. Da " Il navigante del plenilunio" Edilet 2007 CONCLUSIONI Quindi secondo la storiografia romana che, sempre di parte voleva nascondere l'esistenza della storia preromana al fine di esaltare la grandezza di Roma, Romolo e Remo, figli di una Regina e di una divinità, vennero inviati a studiare in un posto molto marginale (Gabii) presso un pastore (Faustolo) ed una prostituta (Acca Larentia). Ogni merito, per quanto avessero costruito nel futuro, sarebbe, quindi, stato solamente loro! La realtà, o meglio l'ipotesi più realistica della quale io sono convinto, è che Gabii era una antichissima città centro della socialità, della cultura e della religione pre-romana. Prima di tutto il suo legame, e forse la sua unitarietà, con Palestrina, l'antica Praeneste, la cui importanza e la cui sacralità sono testimoniate dalla collocazione su una collina difesa da una doppia cinta di mura poligonali. Un tempio, quello della Fortuna Primigenia, che, nonostante le numerose utilizzazioni successive, ha mantenuto la sua forma originale: quella di una Ziqqurat sumero-mesopotamica. Quindi una datazione che, a mio avviso, può risalire a 2000 anni prima della fondazione di Roma. Un'altra Ziqqurat è stata individuata in Sardegna e questo a testimonianza della espansione dell'antica civiltà cancellata dall'evento catastrofico che, probabilmente, attorno al 1600 A.C., ha trasformato la geografia mediterranea. L’esplosione di Thera, un meteorite precipitato, lo spostamento dell’asse terrestre o l’apertura dei Dardanelli, o meglio quello di Gibilterra, un evento distruttivo epocale, o il concatenarsi di più eventi a breve distanza di tempo, ha modificato sostanzialmente la configurazione della terra e, per quel che ci riguarda, del vecchio continente e del mar mediterraneo. Ipotesi formulata dal giornalista Sergio Frau sulla scorta degli studi del professor Vittorio Castellani, ordinario di Fisica stellare all'Università di Pisa, e una sua cartina che mostrava il mediterraneo svuotato, appunto, di 200 metri di acqua. Per concludere Gabii, Faustolo e, soprattutto, Acca Larentia sono i veri fondatori di Roma e i Romani che hanno cercato di nascondere tutto con una leggenda, alla fine, non hanno potuto cancellare la cosa più figurativa ed immediata: Il simbolo stesso di Roma che ancora adesso la rappresenta.
Id: 4700 Data: 26/10/2019 08:37:49
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2- Luomo invisibile
A quel tempo il signore del luogo si chiamava Enrico III della Torre. Signore era certamente un termine più riferito al titolo che non ai possedimenti effettivi.
La casata, un tempo ricca e potente, era stata impoverita dal nonno di Enrico, Alberico.
Questi, gaudente dissipatore, era morto felice dopo aver speso tutto quello che aveva e che non aveva.
Il padre di Enrico, Alberto, si era invece a lungo impegnato per recuperare il possibile, salvando la proprietà del palazzo e della torre dalla quale la loro famiglia prendeva il nome ed il blasone.
Non aveva avuto un'infanzia serena, Enrico, minata dalla timidezza e dalla solitudine, né una giovinezza spensierata e felice, vicino ad un padre severo e poco disposto verso di lui.
Alberto non aveva mai perdonato, in cuor suo, al figlio di avergli "ucciso", con la sua nascita, l'amatissima moglie.
Una storia comune, ma certamente non per il giovane che, per le sue insicurezze, non era stato capace di ribellarsi a questo stato di cose.
Gli unici momenti felici, per lui, erano quelli nei quali si ritirava nella soffitta del palazzo per osservare le abitudini ed il comportamento degli uccelli.
Coltivava questa passione fin da piccolo e a poco a poco era diventato un esperto ornitologo.
Aveva letto molti trattati ed era arrivato perfino a scrivere un libro sulle cose da lui osservate.
Il volo degli uccelli gli ispirava quel senso di libertà che avrebbe voluto come tratto fondamentale del sua carattere.
Ma la sua indole non gli permetteva di staccarsi autonomamente dal suo nido che pure era arrivato ad odiare.
E allora fantasticava, arrivando perfino ad invidiare le ali degli uccelli.
Accettò con passività un indirizzo di studi lontano dai suoi interessi, ma favorevole alla gestione del patrimonio residuo della famiglia.
Prese senza recalcitrare il posto del padre, alla sua morte, e portò a termine l'opera di ricostruzione.
Fece un lavoro proficuo, tanto da potersi poi permettere una vita più che agiata.
Gli uccelli scomparvero dalla sua mente e con loro anche quei pochi momenti di serenità, che lo avevano sorretto anni prima.
Nemmeno nel matrimonio trovò la felicità.
Perse subito il filo dei sentimenti, la capacità di amare.
Aveva ben poco da dare e, forse, ancor meno era quello che voleva prendere.
L'unione fallì miserevolmente.
Rimase solo e divenne sempre più scontroso e arido.
Cominciò a vivere soltanto di ricordi.
Ma fino a questo punto la vicenda di Enrico non avrebbe nulla di particolare o di differente da quella di tante altre umane situazioni.
Il fatto strano capitò quando il nobile signore compì quaranta anni.
Una mattina, svegliandosi, notò con gran terrore che il suo braccio destro era diventato completamente trasparente.
Fece immediatamente chiamare i migliori medici del Paese, ma nessuno di questi riuscì ad identificare quella strana malattia né, tantomeno, a curarla.
Nel frattempo la trasparenza era diventata quasi invisibilità e si era estesa alla maggior parte del corpo.
All'inizio tentò di mascherare con gli abiti la sua situazione, ma poi risultò impossibile nascondere la sua " inesistenza ".
Era oramai poco più di un diafano fantasma, quando un giorno sentì bussare al portone del suo palazzo.
Al maggiordomo che andò ad aprire, si parò davanti un anziano signore, dall'aspetto misterioso, che teneva tra le mani un piccione ferito.
" Se non mi ricordo male - disse senza attendere - qui abitava un ragazzo amante degli uccelli.
Veda, per cortesia, se può prendersi cura di questo povero animale con un'ala spezzata.
Io, purtroppo, sono di passaggio e non posso occuparmene.
Al mio rientro, tra una settimana, ripasserò per vedere come è andata."
Senza nemmeno attendere una risposta, lasciò il pennuto tra le mani del maggiordomo, si girò e si allontanò senza indugio.
Il solerte domestico, per non disturbare il suo iroso padrone, non sapendo cosa fare, stava per depositare l'insolito fardello per la strada, quando si sentì trattenere per una spalla.
" Fammi vedere " sentì dire, con sua grande meraviglia, da quella che era ormai soltanto una presenza eterea.
Consegnò l'uccello che venne trasportato quasi librandosi nel vuoto, nella stanza del signore.
Enrico sentì rinascere in lui interessi e sensazioni che aveva quasi dimenticato.
Il piccione, curato amorevolmente, guarì in fretta e venne trattenuto per essere restituito al viandante.
Questi, puntualmente, dopo una settimana, tornò al palazzo.
Venne introdotto al cospetto del signore e si dimostrò subito molto interessato alla sua strana malattia.
Volle sapere tutto sulla vita del suo interlocutore, anche i particolari più insignificanti.
Enrico, quasi soggiogato dalla personalità del vecchio, fu molto esauriente nel racconto.
A fine giornata il vecchio così concluse: " Mio caro ragazzo, lasciati chiamare così come mi ispira la mia età, io non sono un medico, ma secondo me il tuo problema è tutto in quella spessa corazza di indifferenza che ti sei man mano costruita.
Quella non ti permette di provare nulla per gli altri, non ti permette nemmeno di vederli.
Così alla fine gli altri non vedono più te.
Ricordo che, tanti anni fa, avevi una grande passione, ma vedo che non hai voluto concederle spazio.
Ed ora stai barattando miseramente gli impulsi della tua vita con i ricordi, con tutti i ricordi che vegetano alle tue spalle.
Posso solo darti un consiglio.
Riprendi a studiare gli uccelli.
Approfitta di questo tuo stato, forse può risultarti utile.
Dai nuovo corso ai desideri che non hai realizzato da ragazzo.
Se vedi gli uccelli, forse, alla fine torneranno a vederti anche loro".
Se ne andò silenziosamente e senza indugio, come la prima volta.
Enrico pensò a lungo a quelle parole e decise che valeva la pena di seguire il consiglio datogli.
Cominciò a passare lunghe ore appollaiato sugli alberi, invisibile alla vista dei curiosi.
Apprese molte cose sugli uccelli che si muovevano intorno a lui senza timore.
Fu completamente assorbito dalla sua grande passione e non pensò più al suo stato.
Quando un giorno notò che gli animali cominciavano a mostrare diffidenza nei suoi confronti, si rese conto che qualcosa stava cambiando.
Enrico, infatti, stava rimaterializzandosi.
Non si fece prendere dall'euforia né, tantomeno, si crogiolò nella beatitudine, ma, ormai pieno e maturo, prese con sicurezza una decisione perentoria.
Avrebbe, d'ora in poi, vissuto libero come gli uccelli che tanto amava.
Non era poi troppo tardi per fare quello che non aveva avuto il coraggio di mettere in pratica da ragazzo.
Chiuse il palazzo, congedò la servitù.
Lasciò istruzioni scritte al suo notaio per la gestione del patrimonio e disposizioni perché si rintracciasse il vecchio e gli si offrisse la possibilità di vivere, se lo voleva, il resto dei suoi giorni nella torre in fondo al parco.
Andò via portando con sé poche cose.
Dopo circa vent'anni, un ragazzo si presentò al notaio con una lettera di Enrico che affermava trattarsi di suo figlio.
Era un giovane dagli occhi acuti e dal portamento fiero, ma dai modi decisamente selvatici.
Mentre il notaio controllava le credenziali e lo istruiva sulle sue proprietà, il ragazzo ascoltava distrattamente, preso com'era dalla vista del volo delle rondini fuori dalla finestra...
Id: 1893 Data: 03/06/2013 11:50:33
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1- L’orologiaio e il falegname ebanista
Nel rione la vita scorreva tranquilla, scandita da cadenze quotidiane che si ripetevano all'infinito. Rocco e Antonio erano due artigiani che lavoravano da sempre in due botteghe affiancate ed uguali. Rocco faceva l'orologiaio ed era un omino basso, minuto, con due occhi vivaci ed intelligenti. Antonio, che faceva il falegname (lui amava sempre aggiungere " ebanista "), era invece un omone grande e grosso, buono di cuore e dolce di modi, così perlomeno dicevano di lui i vicini. I due erano nati e cresciuti nel rione ed avevano speso gran parte della loro vita a fianco, condividendo un'amicizia che era diventata quasi leggenda. Nello stesso modo si era anche sparsa la fama della loro abilità nel lavoro. Si parlava di mani quasi incantate che riuscivano, ciascuna nel proprio campo, a fare qualsiasi cosa. E così, i due amici passavano i giorni a perfezionare sempre di più le loro capacità, stimolandosi ed incoraggiandosi a vicenda. Ma il tempo passava anche nel piccolo rione, cambiavano le persone, le cose, venivano meno affetti e rapporti consolidati. Fu così che nuovi abitanti, con un modo diverso di vedere la vita, cominciarono a frequentare le botteghe sorelle. "Caro Antonio - dicevano al falegname - tu modelli il legno come nessuno, le tue creazioni sono degne degli appartamenti del Re, ma vuoi mettere la meravigliosa precisione degli ingranaggi di Rocco, la tecnica, le innovazioni più moderne? ". E dall'altra parte: "Caro Rocco, tu puoi forse arrivare anche a fermare il tempo con i tuoi ingranaggi, ma non potrai mai arrivare a gareggiare con la fantasia e la creatività di Antonio ". Così la competizione prese man mano il posto dell'amicizia e della solidarietà. Ma siccome nessuno dei due riusciva a guadagnarsi la palma del migliore artigiano in assoluto, decisero di giocarsi tutto nella costruzione del capolavoro. L'atmosfera nel rione era cambiata, non si respirava più quell'aria di serenità spensierata. Erano tristi perfino le porte delle due botteghe, prima sempre aperte ed ora costantemente chiuse e gelose. Dopo circa un mese Antonio uscì dalla bottega proclamando, con soddisfazione, di aver terminato la sua opera. Alcuni giorni dopo uscì anche Rocco, più magro e minuto che mai, dicendo, con una strana luce negli occhi: " Ho finito la meraviglia delle meraviglie". I due non si degnarono nemmeno di uno sguardo. Quando aprirono le porte tutti poterono ammirare i frutti della disputa. Antonio aveva costruito una serie di dodici pipe, tutte diverse fra loro, ognuna delle quali, per forma, colore o rappresentazione, ricordava un mese dell'anno. La fattura era così pregevole che tutti rimasero a lungo a guardarle, osservandole fino nei minimi particolari che risultavano sempre perfetti nell'intaglio. Ma la cosa più strabiliante era che sembravano tutte di materiale diverso, terracotta, pietra, osso, avorio, oro, mentre provenivano da una sola radica di noce. Antonio riusciva a scegliere il pezzo giusto per tutto e a trasformarlo poi in quello che voleva. I consensi furono unanimi. Poi tutti passarono ad osservare l'opera di Rocco e si trovarono davanti ad un grande orologio fornito di ben sei pendoli. Pur facendo capo ad un unico meccanismo, ogni pendolo scandiva un tempo: anno, mese, giorno, ora, minuto e secondo. Tutto con una precisione incredibile. Poiché poi l'orologio era fatto di vetro, tutti poterono ammirare la miriade di ingranaggi e meccanismi. Questi erano ingegnosamente concatenati fra loro, dal più grande al più piccolo, come un rompicapo incomprensibile. Anche qui il plauso ed il consenso furono unanimi. E così i due si ritrovarono al punto di partenza, senza un vincitore e con il rancore che andava aumentando. " Decida il vecchio saggio " disse uno del pubblico. " Sì, che sia l'eremita della torre a stabilire chi è il migliore " disse un altro. Tutti, compresi i due artigiani, si mostrarono subito d'accordo. Ai margini del rione, in una torre isolata che un tempo serviva per ragioni difensive, viveva un vecchio un po' scontroso, che di certo non amava la compagnia dei suoi simili. Di lui si dicevano le cose più disparate, ma le uniche certezze erano che il Signore del luogo aveva con lui un debito di riconoscenza e per questo gli aveva permesso di vivere nella torre, e che era l'uomo più saggio e colto di tutta la regione. Quando i due artigiani si recarono, guidando una piccola folla di curiosi, alla torre, il vecchio ascoltò la storia e le richieste con molto interesse. Poi, come sua abitudine, chiese del tempo per riflettere. I due astanti sarebbero dovuti ritornare dopo un mese, lasciando lì le loro creazioni. Passarono i giorni mentre tutti avevano ripreso le loro normali attività. Allo scadere del mese si ripresentarono alla torre per il verdetto, ma il vecchio disse che non aveva ancora deciso e li rimandò al mese successivo. La storia andò avanti in questo modo per altri sei mesi, fintanto che nel rione quasi tutti si dimenticarono della vicenda. All'ultima scadenza il vecchio fece entrare i due artigiani nella torre e, di fronte ai loro lavori, disse: " Miei cari amici, i vostri lavori sono ambedue perfetti, unici nel loro genere e per tale motivo io non riesco a scegliere. Poiché però sono stato chiamato a pronunciarmi non su di essi, ma su chi di voi due sia il miglior artigiano, vi chiedo un'ulteriore prova. Ognuno di voi mi scriverà il miglior elogio possibile sull'opera dell'altro e soltanto allora io vi darò il mio giudizio ". I due se ne andarono sempre più infuriati. Rocco giurò che non avrebbe mai scritto niente e che non gli importava più nulla della sfida. Antonio ritornò alla sua bottega molto depresso e si ridedicò al lavoro senza entusiasmo. Ma la sera, ognuno all'insaputa dell'altro, cominciarono a scrivere ciò che il vecchio aveva richiesto. Con loro grande sorpresa le parole scorrevano libere e fluenti, spinte dalla vecchia amicizia e dall'affetto che li aveva legati fino a poco tempo prima. Si riaccesero i sentimenti che li avevano guidati per tutta la vita ed alla fine ognuno era convinto che fosse l'opera dell'altro a meritare la vittoria. Ricominciarono timidamente a guardarsi ed a scambiarsi elogi ed incitamenti. Quando decisero di tornare dal vecchio, lo fecero di comune accordo e con dei propositi che erano completamente cambiati. Nessuno dei due voleva per sé la vittoria. Arrivati alla torre bussarono a lungo, ma dentro nessuno rispose. Attesero un poco ma poi, convinti che non ci fosse nessuno, presero la strada del ritorno sotto braccio, chiacchierando come avevano sempre fatto e dimenticando perfino i loro capolavori rimasti chiusi nella torre. Dall'alto due occhi soddisfatti guardavano la solidarietà e la comprensione che si allontanavano a braccetto a dispetto della competizione bieca e dell'istinto di prevalere a tutti i costi sugli altri. I frutti iniqui, anche se splendidi, potevano benissimo rimanere chiusi nel dimenticatoio.
Id: 1882 Data: 31/05/2013 10:56:34
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