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’Mi capita di urlare la mia gioia di vivere’

Argomento: Letteratura

di Simone Carunchio
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Pubblicato il 21/03/2017 23:04:58

 
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Di libri antichi e preoccupanti, come anche di moderni o di contemporanei, ma sempre preoccupanti, ne ho letti tanti, tantissimi, e tanto mi hanno indicato ed esemplato; però, però … mi hanno anche lasciato dei segni di malessere forse ‘inutile’, forse troppo utile per l’integrazione sociale. Pochi sono stati in effetti i libri sulla felicità, che non sia stata quella ‘banale’ della realizzazione di un amore passionale.

Tra di essi me ne ricordo almeno un paio. Essi hanno il sapore del giornale di bordo e l’odore del porto e del mare. Del porto quello del Dalì, e del mare quello del Moitessier. Rispettivamente: Diario di un genio e La lunga rotta.

Che cos’hanno in comune di bello, di nuovo, di speciale, per me, quei due libri marini? direi che essi sono spaventosi: sono, cioè, speranzosi e gioiosi e divertenti; mettono il lettore davant

i a un esempio di essere umano, tra i due completamente diverso ma al contempo simile, che è, a mio parere: invidiabile.

Sì, invidiabile: un tipo di essere umano che ha trovato il modo di coniugare concetto e corporeità, cultura e manualità, pensiero e azione (se questo tipo di contrapposizioni avesse senso). Insomma di un essere umano completo. In questo le esperienze comunicate da quegli autori si assomigliano, ma per tutto il resto sono completamente diversi: tanto aristocratico il Dalì, quanto popolano il Moitessier; tanto posato il primo, quanto agitato il secondo; il primo pittore monarchico, il secondo navigatore autarchico, ma entrambi rivoluzionari. Ambedue col rimpianto della musica. Operosi ambedue: il Dalì ci ha lasciato qualcosa come quindicimila opere, mentre il Moitessier ha compiuto un giro del mondo e un quarto in dieci mesi di navigazione in solitaria senza scalo.

Come dimenticare il Dalì che ci narra di quando si trasformò in pesce? O di quando ritrovò la forma del continuum temporale nella forma delle chiappe di una sua amica? O di quando si rese conto che il corno del rinoceronte, la Merlettaia del Vermeer e la margherita rispondono tutti al medesimo algoritmo?

Come dimenticare il Moitessier che ci narra di quando si ubriacò e si ritrovò con un fantasma di marinaio sulla barca? O di quando ci narra della storia dell’inutile soffietto che regalò e tempo dopo gli venne riregalato? Ma, ancor più, dove ritrovare quelle magnifiche descrizioni che egli effettua del mare, dei suoi colori, dei suoi suoni, dei suoi ambitanti, della sua forza? Quella forza immane che egli si trovò ad affrontare per qualche mese durante l’inverno australe – ma che non ci racconta? Come dimenticarlo?

E certo è importantissimo che egli non ce la racconti, che egli non ce la voglia raccontare: per pudore e perché, probabilmente, non ci voleva spaventare dell’andar per mare. Come dice Seneca ne L’ozio: “Se uno mi dice che navigare è bellissimo, ma poi aggiunge che i mari sono cosparsi di naufragi e infestati da frequenti burrasche … è evidente che costui, pur lodando la navigazione, in effetti mi vieta di salpare”.

In questo suo riserbo, però, il Moitessier lascia giù delle frasi che mi piacerebbe sentire più spesso. Delle frasi che sono dei versi poetici, delle frasi che sono dei versi animaleschi, come  (ottonario dopo ottonario): “mi capita di urlare la mia gioia di vivere”.

In questo senso anche il Dalì non è da meno: “Vado a letto felice”. E lo afferma in quanto Gala era rimasta ammirata dai suoi quadri.

Qualcosa, insomma, in entrambe le occasioni, di ben diverso da “Il male di vivere ho incontrato” del vecchio Montale.


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