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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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’JE EST UN AUTRE’

Argomento: Letteratura

di Valentina Corbani
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Pubblicato il 04/04/2011 13:44:49

‘JE EST UN AUTRE[1]’ – MARCEL E PROUST NELLA RECHERCHE E FUNZIONE TERAPEUTICA DELLA SCRITTURA:

“Leggerete, in questo romanzo, qualcuno che dice io, e che non sono io”[2].

Allora il Marcel della Recherche non è Proust? Non è l’apprendistato di Marcel Proust di cui si racconta? No. Non è di Marcel Proust nato a Parigi il 10 luglio e morto il 18 novembre che si parla.

Insomma, non si può essere così decisi nel dire “no”, ma nemmeno si può essere tanto ingenui da credere che un’opera (una qualsiasi opera) come la Recherche sia la fedele cronaca, il resoconto quotidiano della vita dell’autore. Non si può schiacciare l’opera sulla biografia, senza ottenere delle caricature e dell’autore e dell’opera. Il caso più noto, quasi da manuale, è il ‘pessimismo leopardiano’; cioè ritenere che Leopardi ha scritto quello che ha scritto perché era triste e infelice e non poteva scrivere che così. Un discorso di questo tipo, oltre a essere facilmente opinabile, è anche molto ingenuo. I rapporti tra vita e opera ci sono, senz’altro, ma sono molto più complessi e elaborati di così.

Marcel Proust scrive la Recherche mettendo in scena un personaggio che dice ‘je’ ma che non è lui. ‘Je est un autre’[3], allora.

Non è la storia di Proust che stiamo leggendo? Non è Proust che si rigira nel letto? Non è Proust incontra Swann e Bloch e Giselle e tutti gli altri? In un certo senso, si potrebbe rispondere ‘sì’: se è (come effettivamente è) Marcel Proust che scrive l’opera e che inventa, allora, Swann e Bloch e Giselle e tutti gli altri, in un certo modo li ha incontrati. D’altra parte, non sarebbe nemmeno sbagliato rispondere ‘no’, che non è Marcel Proust, ma un altro Marcel che incontra questi personaggi (perché è egli stesso un personaggio) e compie il suo apprendistato per diventare scrittore. Per quanto mi riguarda, io preferisco ‘stare nel mezzo’, tra il ‘sì’ e il ‘no’ e dire che, probabilmente, Marcel e Proust siano due person(e)aggi nella stessa persona; e che quindi se Marcel si rigira nel letto per trenta pagine per prendere sonno, Proust si rigira nel letto per una notte per lo stesso motivo.

“Je est un autre[4]” abbiamo detto e in questo sta la funzione terapeutica della scrittura.

La scrittura, infatti, come l’arte in generale, ha talvolta effetti terapeutici. Da quello più noto (ma non banale), l’effetto consolatorio, di cui anche in tempi non troppo remoti se ne può trovare un esempio.

“Ma quando sento il peso”, canta Guccini in Cirano, “d’essere sempre solo, mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo[5]. E’ una funzione, quella consolatoria, abbastanza nota ma non da sottovalutare.

Ci sono degli elementi che ricorrono: bisogna che la solitudine, che di solito non lo è, diventi un peso; che si senta, insomma, quel “peso d’essere sempre solo”, e allora “interviene” la scrittura; allora scrivendo ci si consola; così, la scrittura, è in questo caso un’attività che occorre molto più allo scrittore che al lettore.

Allora, non si scrive per il lettore (o comunque non ci si cura di questo), ma per se stessi, per placare la propria solitudine, alleggerire quel peso.

E’ allora che “io è un altro”. Talvolta, infatti, solo se “io è un altro” si può riuscire a liberarsi di quel peso: il matricidio (o il sospetto del matricidio) di Gadda; la mondanità sempre più pressante nella vita di Marcel; il ricordo del padre di Virginia Woolf.

E’ vero, come dice Fowles, che “i romanzieri scrivono per un’infinita varietà di ragioni: per il denaro, per la fama, per le recensioni, per i genitori, per gli amici, per le persone amate”[6], e per se stessi, aggiungerei io.

Non è da sottovalutare il potere consolatorio della scrittura per lo scrittore, della pittura per il pittore e dell’arte in generale per l’artista (ma l’artista vero, come Bergotte e Vinteuil e Elstir; non il dilettante come Swann). L’artista che si consola con la sua arte perché, in fondo, solo la sua arte gli è veramente amica e vicina.

Consolarsi non basta, si potrebbe dire, bisogna guarire. Ecco, l’arte non ha “la bacchetta magica” e così l’artista; tuttavia, è possibile trovare un rifugio o un riparo o un nido, per dirla con Bachelard[7], che ci viene offerto dalla nostra stessa arte, da quello che noi creiamo o crediamo di creare.

La creiamo noi l’arte o è qualcosa che già sta dentro l’artista e questo gli da voce? E noi, se dell’arte beneficiamo, se diventiamo talvolta “un autre” per mezzo dell’arte, creiamo o siamo creati?

 

Riprendiamo ancora Fowles:

“noi [i romanzieri] vogliamo creare mondi quanto quello che esiste, ma diversi. Per questo non possiamo far piani. […] Sappiamo anche che un mondo autenticamente creato deve essere indipendente dal suo creatore, che un mondo pianificato (un mondo che riveli totalmente la sua progettazione) è un mondo morto. Incominciamo a vivere soltanto quando i nostri personaggi e i nostri eventi cominciano a disobbedirci”[8].

Allora, il romanziere, si potrebbe dire, da una parte è un creatore: di mondi, di personaggi che popolano quei mondi. E questi mondi non sono meno reali della realtà nella quale si vive: sono altri, sono diversi.

Per questo, talvolta, il rifugio di cui si parlava prima è favorito e dalla scrittura e dalla lettura. Se è vero, infatti, che scrivendo il romanziere crea mondi altri, diversi e (chissà!) a volte fatti su misura molto più per sé e per qualche suo lettore che per gli abitanti ‘ufficiali’ di quei mondi: i personaggi stessi; è anche vero che il lettore accetta, per un periodo di tempo breve o più lungo a seconda dei casi, di credere a quella finzione, di abitare quel mondo; il lettore accetta di “prendere per vera la storia che gli viene raccontata”[9], così, il lettore e anche lo scrittore diventano abitanti ‘autorizzati’ dello stesso mondo in cui vivono i personaggi.

Tutto questo si vede particolarmente nel momento che, insieme all’inizio, è uno dei più importanti del testo: la conclusione.

“Puis”, scrive Proust, “la dernière page était lue, le livre était fini. […] Ces êtres à qui on avait donné plus de son attention et de sa tendresse qu’aux gens de la vie, […] ces gens pour qui on avait valet et sangloté, on ne les verrait plus jamais, on ne saurait plus rien d’eux”[10]. 

Ma è così? Allora, la storia è finita, il libro è finito, i personaggi si sono sposati o sono morti; quei personaggi che abbiamo creduto vivi sono tornati a essere di carta e inchiostro. “Alors, quoi? Ce livre, ce n’était que cela?”[11] E’ tutto finito? La storia è finita così? Quei personaggi che “n’osant pas toujours avouer à quel point on les aimait[12] non li vedremo mai più? Non sentiremo più niente su di loro? “Che dire [allora] della crudeltà della fine, quando una pagina terribile segna l’ultima parola del libro e affoga nel suo candore le vite dei nostri personaggi?”[13]

E noi? Abbiamo ricevuto lo sfratto da quel mondo abitato fino adesso?

Questo passaggio (molto triste secondo me, come ogni conclusione) può essere assimilato a quello, per certi aspetti molto diverso, sulla morte di Bergotte nella Recherche. Scrive Proust:

Cependant il s’abattit sur un canapé circulaire; aussi brusquement il cessa de penser que sa vie était en jeu. […] Un nouveau coup l’abattit, il roula du canapé par terre, où accoururent tous les visiteurs et gardiens.  Il était mort. Mort à jamais? Qui peut le dire?[14]

C’è, allora, una tendenza a ‘non voler concludere’. Chi può dire la parola ‘fine’ e decidere che è per sempre che la storia è finita? C’è, allora, la possibilità che non tutto sia finito; che “de grandes cathédrales restent inachevées[15]. C’è, allora, più che la tendenza, il bisogno di non concludere. “Era morto per sempre?”. Era davvero finita la sua storia? Domande senza risposta perché Proust non l’ha data, ma è significativo che, per qualche motivo, Bergotte ricompaia  nel Temps retrouvé.  Forse, è importante notare che un pezzo simile si trova, anche, in un’altra parte della Recherche, ed è legato al ricordo di Combray. Scrive Proust:

À vrai dire j’aurais pu répondre à qui m’eût interrogé que Combray comprenait encore autre chose et existait à d’autres heures. […] Et comme les renseignements qu’elle [la mémoire volontaire] donne sur le passé ne conservent rien de lui, je n’aurais jamais eu envie de songer à ce reste de Combray. Tout cela était en réalité mort pour moi. Mort à jamais? C’était possible[16]. 

Già nel capitolo V si parlava di opere come cattedrali incompiute. La cattedrale, in Proust, non è solo l’opera in sé, ma sono cattedrali anche le vocali, le consonanti, le maiuscole, le minuscole. Tutto va nella direzione del progetto dell’opera che l’autore non considererà mai veramente compiuta.

Non si tratta, però,  solo di un semplice fatto d’impossibilità a concludere l’opera; non è solo la ‘(s)fortuna’ di non poter concludere la propria opera. C’è, nella Recherche e anche in Sur la lecture, una sorta di ‘rifiuto’ a concludere. E’ come se Proust non volesse scrivere quella parola (‘fine’) che segnerebbe un distacco con “ces êtres à qui on avait donné plus de son attention et de sa tendresse qu’aux gens de la vie”[17]. La fine, la conclusione è anche, purtroppo, questo momento. Segna anche la separazione (più o meno definitiva) da un altro mondo e da altri esseri; e, soprattutto, il ritorno al ‘nostro’ mondo e agli esseri che lo popolano. Questo passaggio è, secondo me, molto delicato. “Si sa che il ritorno alla vera realtà (ma quale?) è una sensazione curiosa e spesso molto sgradevole”[18], che deve quindi avvenire con una certa gentilezza. Non è un caso che Don Chisciotte “visse pazzo e morì savio”[19]; che muoia proprio quando ‘rinsavisce’; quando torna alla ‘realtà’.

Non è un caso perché, come diceva Calvino,

la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo così com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute.[20]

Di nuovo, quindi, arte e solitudine, arte e scontentezza del vivere: arte come terapia.

Beckett sosteneva che “l’arte è l’apoteosi della solitudine”[21]. Allora questa tendenza a ‘non voler concludere’ che si trova in Proust è, forse, un desiderio a non aver amato invano “pour une heure des êtres qui demain ne seraient plus qu’un nom sur une page oubliée”[22]. Per questo la fine è così dolorosa e per questo Proust ne era, in parte, ossessionato. “Temeva”, scrive Céleste Albaret, “di non poter concludere la sua opera, dopo aver tanto lavorato. […] Temeva che qualcosa ne restasse fuori”[23]. Forse sentiva che mancava ancora qualcosa, nonostante gli sforzi e, se quel qualcosa non arrivava, non poteva concludere il suo libro. A volte, però, “passano i giorni, le notti, e in un certo momento quel non so che arriva con naturalezza a coronare lo sforzo di lunghi mesi di lavoro”[24]; ma non è ancora la fine.

Nel dizionario, la parola ‘fine’ ha questi significati: 

1.     Punto o momento in cui una cosa cessa di essere, non è più;

2.     Risultato, esito, riuscita;

3.     Sottile, acuto;

4.     Che ha buon gusto o buone maniere;

5.     Risultato cui mira un’azione[25].

La parola ‘conclusione’, invece:

1.     Atto, effetto del concludere o del concludersi;

2.     Fine[26].

Come si vede da queste definizioni, la conclusione è un atto, mentre la fine è il “momento in cui qualcosa cessa di essere”. Allora, forse, non è poi così corretto dire che ‘fine’ e ‘conclusione’  sono sinonimi  (come suggerisce la definizione n. 2 della parola conclusione). Infatti, se la conclusione è un ‘atto’ mentre la fine è il ‘momento’, allora la conclusione può iniziare molto prima della fine. Insomma, un libro o una storia possono avviarsi verso la loro conclusione o essere conclusi, ma non essere finiti.

Comunque la si veda, la conclusione è qualcosa che Proust ha sempre cercato di ritardare, di allontanare, e questo si nota non solo nella mole notevole della Recherche ma nella stesse frasi di Proust, nello stile dei suoi periodi, nelle sue parentesi. Le parentesi sono, forse, la medicina migliore a quel ‘male’ che è la fine. 

Se si riprende in mano il dizionario, si vedrà che sotto la voce ‘parentesi’ c’è scritto:

1.     Inciso sintatticamente autonomo, all’interno di una frase o di un discorso, inteso a chiarire meglio un concetto, ad aggiungere un’osservazione, etc.;

2.     Ognuno dei due segni grafici che esprimono la parentesi[27].

Etc.

Anche basandosi solo su queste definizioni, si vede che la parentesi è un “inciso autonomo”, cioè qualcosa che ‘sta in piedi da solo’. Un’altra storia, una storia in potenza o qualcosa che potrebbe diventare una storia. Insomma, se la fine è il “momento in cui una cosa cessa di essere”, la parentesi è qualcosa che ‘tiene in vita’ comunque quel qualcosa che sta per finire, che sta per non essere più. Se la fine è la ‘morte’ della storia e dei suoi personaggi, la parentesi è “le symbole de sa résurrection”[28].

Proust fa un ampio uso di questi ‘dispositivi ritardanti’: parentesi, frasi molto lunghe, pensieri altrettanto lunghi e complessi che comunque non potrebbero essere riassunti in una semplice frase.

Anche stilisticamente, le parentesi contribuiscono a variare ed eludere la rigida costruzione del periodo[29] e corrispondono, dunque, “a quel molteplice reticolato che è la vita”[30]. Forse, allora, le difficoltà che il lettore può incontrare nel seguire queste frasi spesso molto lunghe e intercalate da diverse parentesi, “alludono alla difficoltà di illuminare e di spiegare questo mondo”[31]. Ancora, dunque, lettura e scrittura s’intrecciano con la nostra ‘vera’ vita e ci aiutano a comprenderla meglio o, perlomeno, ci possono preparare ad affrontare i nostri periodi lunghi e contorti e pieni di parentesi. In fondo, “ogni vita è una biblioteca”[32]. Spesso, poi, “i destini del testo e del lettore finiscono per intrecciarsi in una stessa storia: sono esistenze saldate da un vincolo reciproco”[33]. E quando il libro è finito, il lettore si accorge che “in fondo […] anch’egli è il personaggio di una vicenda appena un po’ più grande, che non ha mai progettato né voluto”[34]. 

Tutto questo, comunque, è segno della ricerca, da parte dello scrittore,  di un lettore attento. “Proust”, scrive Spitzer, “fa appello alla forza immaginativa del lettore”[35]. Non solo Proust, comunque, ma l’opera stessa vuole un lettore che si sappia ‘aggirare’ nel testo in mezzo a tutte le parentesi e che non perda quello che è prioritario, il discorso portante. Alla fine, poi, si noterà che “quello che sarà la ‘conclusione’ per l’autore non potrà che essere un’ ‘incitazione’ al lettore perché intraprenda le sue ricerche”[36]. Così, si vede ancora che i confini tra quello che è la conclusione e quello che non lo è, non sono poi così ben definiti e che, nonostante qualcosa sia concluso per qualcuno, non necessariamente lo deve essere per tutti. Insomma, forse un’opera non si conclude quando l’autore mette la parola ‘fine’; ma quando nessuno, nemmeno con “un gesto distratto della mano”[37], la sfoglia più. Si conclude, forse, ma non è detto che sia finita. “Il libro”, scrive infatti Kermode, “porta avanti i suoi inattesi, insospettabili disegni”[38] che, spesso, poco hanno a che fare con i nostri. Il libro, allora, ‘vive’ anche di una vita propria, a dispetto di quella che vogliamo imporgli noi; così, la fine che ci si aspetta non viene o tarda a venire.

E’ chiaro dalla prima riga del saggio Sur la lecture perché c’è questo ‘ritardo’ in Proust.

Il saggio si apre così:

Il n’y a peut-être pas de jours de notre enfance que nous ayons si pleinement vécus que ceux que nous avons cru laisser sans les vivre, ceux que nous avons passés avec un livre préféré[39].

Ecco il motivo. Quei giorni, “si pleinement vécus”, non possono finire con il concludersi del libro. Insomma, è triste pensare che quei giorni possano essere terminati solo perché lo è la storia che li ha resi “si pleinement vécus”. Per fortuna, come Proust ci insegna, non è così. Per evitare questo, che quei giorni vadano persi, “Proust ha inventato le intermittenze del cuore”[40], che sono, in ultima analisi, un tentativo feroce di non dimenticare, di non concludere, di non smettere di leggere, di scrivere o di raccontare una storia.

C’è il desiderio che

le livre continuât, et, si c’était impossible, avoir d’autres renseignements sur tous ces personnages, apprendre maintenant quelque chose de leur vie, employer la nôtre à des choses qui ne fussent pas tout à fait étrangères à l’amour qu’il nous avaient inspiré et dont l’objet nous faisait tout à coup défaut[41].

E c’è un rimedio a tutto questo. Insomma, a un certo punto bisogna pur scrivere la parola ‘fine’, bisogna smettere di scrivere quella storia e, se il libro è concluso, chiuderlo; ma questo non significa averlo perso o aver perso quello che ci ha portato. “La poesia”, sostiene Kermode, “finisce nella gioia di essere riuscito a dare alla povertà sembianze vere e umane”[42].

La storia può allora finire, ma noi possiamo continuare a percorrere ‘i sentieri della lettura’, quei “chemins fleuris et détournés”[43] che il libro ha tracciato in noi. Cammini che, se il libro è la Recherche, sono lunghi e non facili da seguire, ma che portano sempre a una scoperta favolosa. Queste frasi sono i cammini da seguire perché seguendole così “lente, lunghe, con un giro vizioso, paradossali, reticenti”[44], troviamo qualcosa di favoloso. A ogni frase di Proust ci è riservato qualcosa di stupendo. Anche André Gide, dopo aver capito l’errore (enorme quasi quanto l’opera che non ha pubblicato) fatto nell’interpretazione della Recherche, ammette che “nessuno scrittore come lui ci ha arricchito”[45]. Questo oggetto, allora, che ci viene, tutto a un tratto a mancare, non è perso per sempre. E’ finito il libro? Finito per sempre? Chi lo può dire? Forse una storia non finisce mai per sempre. Infatti, cosa rimane al fianco di Bergotte (lo scrittore) dopo che è morto? “Toute la nuit funèbre, aux vitrines éclairées, ses livres, disposés trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient, pour celui qui n’était plus, le symbole de sa résurrection”[46]. Ecco cosa resta di lui. I suoi libri.

Scrive Proust: “l’anima intera dei poeti che, per un desiderio istintivo, voleva perpetuarsi, si è trasferita, per sopravvivere alla loro caducità, nei loro libri”[47].

E cosa resta a noi? I posti che abbiamo visitato seguendo quei ‘sentieri fioriti e fuorimano’ che si erano aperti con la lettura; posti di cui possiamo conservare anche (solo) “il colore del grano”[48] che ci ricorda, però, che lì siamo stati e che è molto difficile, allora, stabilire quando e se qualcosa è finito per sempre.     

Uno dei motivi per cui è così difficile concludere, è che l’idea della fine si lega a quella della perdita. Questo, per fortuna, con i libri non accade. “Il tempo del romanzo non è riferibile ad alcuna norma esteriore di tempo”[49], così nemmeno la fine può essere stabilita in maniera rigida e definitiva. Chi decide che la storia è finita? L’autore? O il lettore non leggendo più?

“Il mio romanzo è finito”[50], dice a un certo punto Julien Sorel. Evidentemente Stendhal non la pensava così, visto che la storia continua. Io credo, allora, che sia la storia stessa che lo stabilisce. Una storia, quindi, deve prima o poi finire; e che cosa può fare il lettore? Per far sì che non finisca, poco. Per ‘salvare’ quella storia dalla dimenticanza d’uno scaffale impolverato, ricordare e magari rileggere il libro. C’è, “per il Narratore della Recherche, qualcosa che è realizzabile solo attraverso l’arte, di là da quel nulla che sono i piaceri e l’amore”[51]; e questa cosa, una volta che lo è, realizzata, lo è per sempre; di là di qualunque fine.

Ci sono poi dei libri, sostiene Kermode, in cui “il lettore è l’unico personaggio e il tempo è a tal punto il tempo del lettore, che la durata del libro viene misurata dal tempo che si impiega a leggerlo”[52],

e un lettore può (ri)leggere un libro quanto vuole. In un certo senso, allora, ogni lettore è un po’ Sherazade e, per salvarsi, può continuare a raccontarsi quella storia che così non finirà mai. “Proust”, secondo Rella in Scritture estreme, “è essenzialmente tutto nella Recherche[53]. Io non sono d’accordo. Questa storia, questa cattedrale resta incompiuta perché Proust non è ‘tutto nella Recherche’. ‘Tutto’, in fondo, è una parola estrema (come ‘niente’) che, in definitiva, significa poco. Il punto, allora, è che è impossibile concludere il libro non per ‘il Proust che è nella Recherche’ ma per quello che ne è rimasto fuori. Spesso è così. Parlando di Mrs Dalloway, Virginia Woolf diceva che probabilmente non riusciva a portarlo a termine perché il disegno generale era troppo notevole[54]. La difficoltà a concludere non è, allora, determinata da quello che già è presente nell’opera, da ciò che è già scritto, ma da quello che si sente di dover ancora scrivere, da quello che ancora potrebbe esserci in quel libro; e se lo si sente, spesso, non lo si può ignorare né lasciare fuori.

Proust non riesce a vedere costruita del tutto la sua cattedrale per quel troppo che sarebbe rimasto fuori. Se è vero, come diceva Nietzsche, che “ciò che può essere pensato deve per forza essere un romanzo”[55], è anche vero che, talvolta, si pensa e si vive tanto che è impossibile che il romanzo lo possa contenere. Certi libri non possono contenere tutto quello che vorrebbe il loro autore o il loro lettore. A certe opere “piove troppo dentro”[56] e, per questo, le ‘grandi cattedrali incompiute’ restano tali, per la loro stessa struttura. Per certi libri, allora, l’unica conclusione possibile è ‘tra parentesi’; e questo, in realtà, non è una conclusione. La bellezza di questi libri (della Recherche, in definitiva) è che, dalla prima riga, si sa già (per qualche motivo, lo sa il lettore e lo sa l’autore) che non si potrà concludere perché, in fondo, questi sono  libri che “non smettono mai di dire quello che hanno da dire”[57], che vanno letti solo perché è meglio averli letti del contrario[58]; libri che possono stare su un comodino o su uno scaffale per anni senza impolverarsi; che anche se li dimentichiamo, loro non si dimenticano di noi; libri che possiamo rileggere all’infinito e, ogni volta, nuovi ‘sentieri fioriti’ si aprono di fronte a noi e ci portano in nuovi luoghi; così la recherche non è mai finit…



[1] Arthur Rimbaud, frase citata a memoria

[2] Philip Kolb (a cura di), Marcel Proust Correspondance, cit., p. 28

[3] Arthur Rimbaud, frase citata a memoria

[4] Arthr Rimbaud, frase citata a memoria

[5] Francesco Guccini, Cirano, in D’amore, di morte e di altre sciocchezze, CD AUDIO (corsivo mio)

[6] John Fowles, The french lieutenant’s woman, 1969; trad. it. La donna del tenente francese, Mondadori, Milano 2007, p. 68

[7] Cfr. Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, 1957; trad. it. La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, p. 89

[8] John Fowles, La donna del tenente francese, cit., p. 69

[9] Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, cit., p. 109

[10] Marcel Proust, Sur la lecture, cit., p. 24 [“Poi l’ultima pagina era letta, il libro era finito. Quegli esseri ai quali avevamo donato più attenzione e tenerezza che alle persone della vita, […] quegli esseri per cui avevamo sospirato e pianto, non li rivedremo più, non sapremo più niente di loro”.]

[11] Ibid   

[12] Ibid

[13] Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, cit., p. 271    

[14] Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, cit., p. 1209

[15] Ivi, p. 2389   

[16] Ivi, p. 44    

[17] Marcel Proust, Sur la lecture, cit., p. 24     

[18] Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, cit., p. 273 (corsivo mio)

[19] Miguel de Cervantes, El ingenioso hidalgo. Don Quixote de la Mancha, 1604; trad. it. Don Chisciotte della Mancia, Sonda, Milano 1993, p. 252

[20] Italo Calvino, Lezioni americane, cit., p. 59   

[21] Samuel Beckett, citato a memoria

[22] Marcel Proust, Sur la lecture, cit., p. 25  

[23] Céleste Albaret, Monsieur Proust, 1973; trad. it. Il signor Proust, Rizzoli, Milano 1974, p. 89   

[24] Lorenza Foschini, Il cappotto di Proust, Portaparole, Roma 2008, p. 29  

[25] Dizionario della Lingua Italiana Zanichelli 2008 (corsivo mio)

[26] Ivi (corsivo mio)  

[27] Ivi (corsivo mio)    

[28] Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, cit., p. 1744  

[29] Cfr. Leo Spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, cit., p. 254

[30] Ibid 

[31] Ibid   

[32] Italo Calvino, Lezioni americane, cit., p. 135   

[33] Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, cit., p. 311   

[34] Ibid

[35] Italo Calvino, Lezioni americane, cit., p. 267     

[36] Philippe Chardin, Désillusions référentielles et digressions salvatrices: splendeurs et miseres de la lecture selon Marcel Proust prefacier de Ruskin, cit., p. 98 (trad. mia)   

[37] Liliana Rampello, La grande ricerca, cit., p. 52   

[38] Frank Kermode, The sense of an ending. Studies in the Theory of Fiction, 1966, 1967; trad. it. Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Rizzoli, Milano 1972, p. 34  

[39] Marcel Proust, Sur la lecture, cit., p. 9   

[40] Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 130  

[41] Marcel Proust, Sur la lecture, cit., p. 25  

[42] Frank Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, cit., p. 158   

[43] Marcel Proust, Sur la lecture, cit., p. 26   

[44] Georges Duhamel cit. in Lorenza Foschini, Il cappotto di Proust, cit., p. 58  

[45] Citato in Marcel Proust. Lettere a André Gide, SE, Torino 1978, p. 87

[46] Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, cit., p. 1209 (corsivo mio) 

[47] Citato in Lorenza Foschini, Il cappotto di Proust, cit., p. 31

[48] Antoine de Saint-Exupéry, Le petit prince, 1943; trad. it. Il piccolo principe, Bompiani, Milano 2003, p. 68  

[49] Frank Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, cit., p. 33  

[50] Stendhal, Le rouge et le noir, 1930; trad. it. Il rosso e il nero, Einaudi, Torino 1961, p. 88   

[51] André Maurois, Alla ricerca di Marcel Proust, cit., p. 182    

[52] Frank Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, cit., p. 172   

[53] Franco Rella, Scritture estreme. Proust e Kafka, Feltrinelli, Milano 2005, p. 96   

[54] Cfr. Virginia Woolf, A writer’s diary, 1953 ; trad. it. Diario di una scrittrice, Minimum Fax, Milano 2009, p. 99   

[55] Citato in Frank Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, cit., p. 47   

[56]Cfr. Italo Calvino “La fantasia è un posto dove ci piove dentro”, in Lezioni americane, cit., p. 89

[57] Italo Calvino, Perché leggere i classici, cit., p. 22  

[58] Cfr. Italo Calvino, Perché leggere i classici, cit., p. 24   



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