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Un camionista immaginario

di Silvio Mancinelli
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Pubblicato il 05/12/2007

Ogni persona ha una visione della vita, diversa da chi gli sta accanto. Ci sono persone che vogliono viaggiare perché credono che la vita sia troppo corta per viverla solo in un posto fisso. C’è chi pensa tutto il contrario, pensa che la famiglia sia la cosa più importante e che la terra nella quale è nato sia la cosa più importante. C’è chi si dà allo sballo, chi pensa che la vita di adesso sia una preparazione a quello che deve venire dopo; c’è chi vive nella lussuria e chi nella miseria, chi pensa che vivere un giorno da leoni sia meglio di una lunga vita. Stefano però era uno di quelli che non sapeva cosa sapere. Alle domande senza risposta lui sostituiva altro, sostituiva l’affetto non ricambiato con sbronze di altri tempi, sostituiva il lento e inesorabile venir meno della vita, con un andazzo materialista e aderente alla vita moderna.

Stefano ha vissuto la sua vita, quella che lui chiamava la parte restante della sua vita, anche se aveva solo un po’ più di ventotto anni ma ne dimostrava almeno dieci in più, come una lenta agonia. Non guardava al suicidio come uno strumento valido per farla finita, non perché fosse un codardo, ma semplicemente perché era già morto trasformandosi in uno zombie errante dopo quello che era successo. La sua non era più un qualcosa da vivere, ma da far passare senza nessuna emozione. Non riusciva a vivere più, non riusciva più a gioire per il sorriso della sua sorellina oppure per una qualunque festa di famiglia. Era un automa, aspettava solo di finire di vivere la vita da camionista che conduceva; credeva che muovere un camion su quella autostrada poteva farlo sentire bene: non doveva parlare con nessuno, non aveva amicizie e quindi né obblighi con qualcuno, né coinvolgimenti per i suoi sentimenti. Perché dopo quello che era successo, non voleva più che la sua vita venisse stravolta di nuovo in quel modo. Meglio avere colloqui occasionali con dei colleghi conosciuti in autogrill e parlare di come l’azienda sfrutta la categoria e di come sia stressante fare quel lavoro; meglio fare sesso occasionale con ragazze incontrate un giorno e mai più riviste, donne che almeno per trenta minuti ti trattano come un Dio e che poi ti lasciano andare, senza lacrime e piagnistei di alcun genere.
Come una sorte di litania, Stefano era tornato nella sua città a sostare per alcuni momenti davanti a quella foto ad ammirarla; erano passati vari anni ma quel giorno, il due di aprile; andava, ogni volta da lui, non per pregare, perché a Dio non ci credeva, ma era lì per raccontargli quello che lui stava facendo nella vita, come cercava di sopravvivere ad una esistenza oramai misera e gretta e volta solo al pentimento.
Da quando accadde quell’incidente, la sua pancia aumentava, i suoi capelli cominciavano ad essere di meno e la barba diventava sempre più folta. Il prima e il dopo, il sorriso e la lacrima, la voglia di vivere e la voglia di farla finita il più presto possibile; questo cambiamento tutto in una notte, all’ apparenza, calda e accogliente come sono le sere estive, ma in fondo fredde come il gelido inverno prima della fine.
Aveva 15 anni quando ripeté il primo anno del liceo; Stefano non aveva voglia di studiare in quel periodo, era più propenso a costituirsi una certa cultura alternativa a quello che la scuola voleva imporre alla sua mente. Amava leggere Benni e non Manzoni, amava sognare con la beat generation e aveva gli incubi con Pirandello. Odiava la matematica ed amava il suo strumento, quel basso nero a quattro corde: bastava un mi per far tremare la sua stanza e vedere, ogni tanto, sbraitare la mamma perché si era rotto qualcosa che era caduto sul pavimento a causa delle vibrazioni. Amava gli Yes e i Pink Floyd e l’album Animal di quest’ultimo gruppo. Lui amava quei tipi di ritmi che passavano da un tempo ad un altro in maniera improvvisa come avveniva con gli Yes, ma anche quel tipo di suono che i Pink erano riusciti a costruire con scelte anche dolorose. A pensarci dopo tanti anni, aveva compreso che tanto di alternativo in quelle idee non c’era proprio nulla, dato che tutti quanti leggevano quella roba e tanti sentivano cose che non piacciono alla massa, ma questa era la sua vita: la musica e gli scrittori americani, questo era il mondo di Stefano. Pensava che quel mondo che si era costruito poteva rimanere tale per sempre, era il uno stato mentale, soprattutto, dove immagazzinare tutte le sue informazioni, i suoi ricordi e le sue emozioni. Nessuno avrebbe potuto infrangere quel muro di difesa. Nessuno. L’anno 2000 fu un anno di transizione in una nuova prospettiva: fu l’anno in cui incontrò non un amico, ma l’amico fraterno.
Era l’anno del Giubileo, l’anno della redenzione. I genitori di Stefano erano molto cattolici, ed un giorno a tavola gli fecero il discorso che più o meno tutti i ragazzi che non vogliono studiare, si sentono dire. Davanti ad un piatto di tagliatelle al sugo il padre gli disse che se non aveva più voglia di studiare poteva cominciare a lavorare nell’azienda di famiglia. Si erano stufati di avere un figlio così fuori le regole, uno che rifiutava di avere un’istruzione come tutti, uno che voleva far tutto non pensando alle conseguenze e a un futuro da costruire, non considerando il fatto che i genitori lavoravano per farlo studiare . In più, cosa che aveva sempre disturbato Stefano, lo paragonavano sempre al figlio dei vicini, Andrea, coetaneo, ma diverso in tutto e per tutto. Era un preciso niente male, vestiva bene, aveva una buona proprietà di linguaggio e veniva amato da tutti. Ci aveva provato Stefano a lavorare per il padre in uno dei suoi cantieri. Non si sentiva a suo agio, perché, quando l’estate cercava di guadagnarsi dei soldi per la vacanza, lavorare per il papà, significava un sacrificio doppio, poiché in quei mesi, non solo doveva sottostare agli ordini del padre a casa, ma doveva anche sottostare a lui, nel luogo di lavoro. In quei casi doveva anche sentirsi dire quante belle opere, il padre, avesse fatto per la città e, rivolgendosi al figlio, le enumerava e gliele mostrava, aggiungendo che, per come vedeva la crescita di Stefano, nutriva seri dubbi nel lasciare l’eredità al suo successore naturale. “Meglio chiuderla subito l’azienda che infangare il nome dandola a chi potrebbe solo costruire brutte case”. Si capisce, quindi, il perché il buon Stefano, genuino, e poco propenso a far passare inosservato queste accuse, preferiva più un lavoro da cameriere estivo che nell’azienda di famiglia.
Erano cattolici i suoi genitori e, quindi, pensarono che l’unico rimedio per rendere migliore il proprio figlio, era quello di portarlo con loro da Padre Pio; magari il frate lo avrebbe fatto redimere nell’anno del Giubileo. Ma non fu così, anzi fu un rimedio peggio del male; l’unica cosa che riusciva a vedere Stefano in quella città era la mercificazione della religione. Dovunque si girava vedeva quelle foto di Padre Pio di qualunque forma e colore. C’era il bagnoschiuma santo, la saponetta con l’immagine del volto, i santini di tutte le forme e di tutte i materiali. Vedeva poveri sventurati che compravano tutto quello che potevano comprare, pensando che poteva essere un modo per aiutarli nel far sparire una malattia. Immaginava che anche la persona meno credente di questo di mondo e più razionale si sarebbe avvicinato ad un qualunque Dio che gli avesse promesso la guarigione per il proprio caro, zio o fratello. L’umanità è decisa a corrompere i suoi principi e la sua etica, quando sopraggiunge disperazione e dolore. C’era da criticarli? Stefano non poteva, perché comprendeva il disagio e la forza di quelle persone che cercavano o facevano finta di credere in qualcosa che non per loro, fino a cinque minuti prima, non poteva esistere. Non riusciva a criticarli ma questo più che far avvicinare il ragazzo alla religione, lo allontanò in maniera definitiva.
Chiunque nell’età della giovinezza ha incontrato una persona importante, una persona che forse passati i cinque anni delle superiori, non si rivede più, ma con la quale si sono attraversate le esperienze vitali e necessarie di un passaggio da una età all’altra. Questa volta toccava a lui; sentiva già che qualcosa in lui stava cambiando. Del cambiamento aveva paura perché, ben cosciente dell’evoluzione del suo corpo e della sua mente, del mondo che gli girava intorno, non sapeva che direzione avrebbe preso lui con quelle trasformazioni, e quando non si sa cosa dove si andrà, la paura e l’ansia sono i primi sentimenti ad essere conosciuti. Un buio come al poker dove si punta forte senza sapere quello che si ha in mano, consapevole anche di poter perdere tutto quello che aveva guadagnato. Entrare in una classe costituita da ragazzi al primo anno fu micidiale: sentì gli stessi discorsi fatti l’anno prima a lui e ai suoi, ormai, ex compagni, e questo gli fece cambiare idea su quello che poteva essere una sua aspirazione, ben nascosta: l’insegnamento. Lui voleva essere un insegnante alla “attimo fuggente”, salire sopra la cattedra e decantare una poesia di un poeta maledetto, voleva portare i suoi ragazzi a fare lezioni all’aperto, voleva parlare di quello cose di cui l’insegnante non parla mai. Però si accorse dopo quel giorno che sicuramente avrebbe perso gli stimoli dato che avrebbe dovuto ripetere la cosa all’infinito per 30 anni, passando sempre per studenti simili e sempre più annoiati dalla scuola, da tutto ciò che fa istituzione. Salire a 60 anni su un banco, a lungo andare e con l’età avanzante, non sarebbe stato facile! Sarebbe stato di una monotonia micidiale e quindi, a quel punto, pensò, di darsi seriamente alla musica, dove ci si può rinnovare continuamente, senza dover pensare a chi ti sta davanti e a chi ti ascolta. Quella scuola poi…Non c’era nulla di più brutto nel vedere tanti ragazzi fatti con una matrice, come fossero tanti giapponesi, tutti uguali, tutti rappresentativi di un certo carattere umano. Giovani nati con la televisione incorporata, con il chip nel cervello come nei film di Matrix, nati a tronisti e realisti, la cui più importante intenzione e aspirazione è apparire, apparire e apparire ancora, anche non nel primo piano di una telecamera, ma alle spalle di chi è intervistato o inquadrato. Le ragazzine con il pantalone a vita bassa, il perizoma bello in vista quando ci si siede e i maschietti, ancora non sviluppati benissimo, a pompare il pomeriggio in palestra dopo avere eliminati i primi peli dal petto e dopo una bella lampada abbronzante. Nella scuola non erano tutti così comunque: questi erano la maggior parte, ma poi c’erano anche quelli che non si piegavano alla legge unica, al fatto di volere essere un’ icona ed avere aspirazioni di successo. Lui al posto di vedere quell’ambiente fatto in quel modo, supponendo la falsità o la non verità di chi gli stava attorno, preferiva non avere rapporti con i suoi compagni più profondi di quello che può superare l’educazione. Non voleva andare oltre, voleva che loro non molestassero lui e viceversa, essendo poi il ragazzo più grande della classe dettava legge, e le ragazze lo stavano a sentire.
Anche durante la ricreazione si isolava il più delle volte, con la sua sigaretta, la sua camicia e quei capelli composti. Ogni tanto si chiacchierava e si scambiavano battute con i nuovi compagni: non erano antipatici o stupidi, semplicemente non li sentiva sulla sua stessa lunghezza d’onda e per questo si trattava di una conoscenza superficiale al massimo. Il suo banco era pieno di scritte sulla libertà, sul volere essere il giudice di se stesso. Stefano, già in giovane età, aveva una pancetta niente male, causata da ettolitri di birra, la sua bevanda preferita: il sabato così funzionava; sigarette e alcool, senza pensarci due volte. Questo lo faceva forse per farsi male, o per la sua insoddisfazione per la vita, oppure perché semplicemente era un fesso lui. Sotto lo spirito del dio Bacco prendeva il suo basso, metteva le cuffie e suonava fino la mattina. Questo, nonostante i suoi 15 anni, ma in quella città piena di desolazione, di freddo non per il clima ma per i rapporti tra cittadini, per il grigiore più totale, il non essere considerato un figlio modello, rappresentava, in quel preciso momento, l’unica via per ribellarsi. Con senno di poi, Stefano, guidando il suo camion, avrebbe capito che anche quel suo modo di fare era uno stereotipo e che forse più che fingere di essere un ribelle sarebbe stato meglio essere se stessi. Se avesse saputo queste cose a 15 poteva considerarsi un genio o un saggio dell’umanità.
Alla fine come dargli torto? Che si poteva fare di più in una città senza prospettive, senza un futuro davanti? Lui era uno di quei ragazzi che sapeva che il suo futuro non era lì, perché come lui, già altri compagni, amici e nemici, avevano preso un treno e non erano tornati più. La tv parlava di mobilità e del fatto che chi cominciava a lavorare doveva capire che un lavoro come quello dei padri non ci poteva essere più. Basta con la stabilità. Sapeva, Stefano, che parole come flessibilità e mobilità, rappresentavano la morte della famiglia e quindi si chiedeva se era conveniente crearne una. Il suo progetto, a questo punto, era diventare un cantante, girare il mondo, perché a lui, figlio di genitori qualunque, non erano aperte le porte del paradiso.
Essendo un liceo pieno di donne e la sua classe non faceva eccezione, le lezioni di educazione fisica venivano condivise con un’altra classe, classe contigua con la sua, nella quale vi erano tutti ragazzi un po’ moscetti, un po’ insignificanti a prima vista.
Tra tanti ragazzi tutti uguali, anche bassi, in quanto si trattava sempre di ragazzi appena usciti dalle medie, vi era un ragazzo alto, capellone, con un giubbino con tante spille, spillette e dei jeans strappati. Si vedeva subito che era un tipo diverso dal normale e dall’ordinario. Stefano rimase subito affascinato da quel tipo e la cosa fu ricambiata, forse perché inconsciamente, si vedevano come due mondi esclusi dal resto ma così luminosi da riconoscersi subito in mezzo ad una massa di stelle tutte uguali tra di loro e senza nulla da dire.
Luca, così si chiamava il tipo, era un ragazzo con una mentalità aperta. Questa impostazione nell’ approccio alla vita fu un dono ricevuto dal padre viaggiatore. La storia della famiglia Cantorini, era molto bella e lo stesso Luca ne andava fiero, perché così diversa dall’ordinario che poteva essere invidiata dall’ascoltatore. Il padre di Luca era un pittore molto apprezzato in Europa e per forza di cose, doveva spostarsi lì dove il lavoro lo chiamava e lì dove la sua creatività diceva di andare per immortalare nella tela il suo modo di vedere la vita e le cose. In questo girovagare, Luca fu il frutto di una notte d’amore con una donna, modella del padre; i due si amavano e Luca, rimaneva con la mamma, quando il padre partiva per i mesi e lo vedeva solo quando si connetteva da qualche internet café. Purtroppo la mamma morì subito per un ictus, e Luca cominciò a viaggiare con il padre, portando sempre con sé la tela dove la mamma era raffigurata così giovane e bella, senza una ruga, con un sorriso che poi era lo stesso sorriso di Luca. Non poteva finire la scuola in un posto e non riusciva a costituirsi amicizie durature; molte amicizie da fisiche diventavano virtuali, ma non era la stessa cosa. In compenso, con il padre, Luca ebbe la fortuna di visitare i Paesi europei, di vedere come le altre popolazioni vivevano e come mangiavano, come facevano l’amore e quale era il livello d’integrazione di una popolazione con gli immigrati. Stefano vedeva se stesso in Luca, lui che era confinato in quella città che non dava possibilità di esprimersi e che lo respingeva nel ghetto dell’indifferenza.
Fecero subito amicizia anche perché la musica era la cosa che li univa; Stefano stando in piccolo paesino non poteva sapere cosa succedeva in giro, cosa si ascolta a Londra o a Amsterdam. Un giorno Stefano stava studiando Cicerone in taverna quando sopraggiunse di colpo Luca con alcuni album musicali: aveva i Kaiser Chiefs, i Franz Ferdinand, i Bloc Party e gli Strokes. Si trattava del nuovo rock and roll anglo americano. Arrivò e tolse quella musica vecchia e stravecchia che girava ancora nello stereo dell’amico. Stefano gli chiese che stava facendo e lui, con quei capelli colorati, gli disse: “Zitto e ascolta”. Mise “J predict a riot” dei Kaiser e poi aggiunse: “Noi dobbiamo suonare così”. Stefano rispose: “ Io non ho mai suonato in un gruppo, un po’ mi vergogno; secondo te sarei capace? “. Luca prese il viso di Stefano tra le mani e fissandolo negli occhi, affermò a chiare lettere: “ senti se sono riusciti a suonare i Sex Pistols, puoi riuscirci anche tu!”. Poi Luca cominciò a pogare da solo in quella stanzetta mentre l’altro, seduto, con la testa, accompagnava il ritmo della canzone. Decisero di mettere su un gruppo: Stefano al basso e Luca alla voce; canzoni loro e testi in inglese, con un sound ispirato al nuovo movimento inglese rifacente ai Clash e al rock da ballare.
Non fu difficile trovare nuovi adepti e contenti del progetto musicale, perché Luca a scuola era una sorta di simbolo di ribellione ma solo in apparenza, era amato dalle donne per la sua altezza, i suoi capelli scapigliati, il suo saperci fare, il sorriso da canaglia che tanto piace al genere femminile. Non era un grandissimo cantante, ma dai musicisti veniva rispettato per le idee e perché ci metteva l’anima in quello che faceva, anima e sudore. La tecnica la puoi affinare nel tempo, ma il talento e la passione nascono da dentro e sono innate, hanno bisogno solo di una miccia e di un fuoco che li faccia bruciare.Luca era tutto quello che Stefano voleva essere, era il simbolo di una libertà adolescenziale, quel tipo di libertà alle volte frutto di stereotipi, quando si rinnega la famiglia, si vuole l’indipendenza, una indipendenza tutta falsa, fatta con i soldi di papà. I genitori di Stefano, comunque,erano preoccupati da questa amicizia, poco produttiva; essi però non sapendo come tirare su quel figlio, che per il padre era solo un inetto e un fallito, si rivolsero ad uno psicologo, e anche Stefano fu obbligato ad andare alle sedute se voleva mettere in pratica i suoi progetti. Stefano rispondeva alle domande del dottore in maniera poco precisa, dato che la presenza dei suoi lo frenava. Il consiglio dello psicologo fu però rivolto soprattutto ai suoi genitori e questa per lui fu una vittoria, in una esistenza vissuta sotto l’egida di un padre – padrone, bravo solo a criticare e a rimproverare il figlio. Volenti o nolenti, i genitori dovevano limitarsi a dare consigli, ma il figlio non aveva l’obbligo di seguirli, perché la vita, sosteneva il dottore, deve essere costruita da sé, anche con gli sbagli che un ragazzo di quella età poteva fare. Stefano, invece, era tutto quello che Luca voleva essere. Egli aveva trovato una famiglia, un’isola stabile alla quale approdare e non poteva non essere felice per questo. Con il padre assente lavoro, senza la madre naturale, la madre di Stefano, nonostante un approccio un po’ problematico dovuto ai pregiudizi della signora, su un giovane girandolone e che si vestiva in quel modo, l’aveva sostituita, e la casa in via Pertini era diventata la sua casa. Nonostante questa voglia dell’uno di essere l’altro, erano consapevoli, i due ragazzi, delle mancanze dell’amico, e quindi la sola cosa da fare, cosa che fecero, fu quella di far rivivere le proprie esperienze all’altro in modo tale da completarsi. Questo avveniva in maniera molto naturale e continuamente con la parola, con la musica e con l’alcool. In poco tempo quei due ragazzi divennero una sorta di coppia famosa della scuola, ragazzi che non volendo diventavano “famosi”, essendo invitati a suonare alle feste degli amici oppure essendo invitati, semplicemente, alle feste dalle ragazzine con la pancia di fuori e il perizoma che si vedeva.

Quando Stefano viaggiava sul suo camion, aveva la voglia di evadere dalla realtà. Quella strada sempre dritta, con poche curve, rappresentava la monotonia della vita, alla quale lui aspirava. Una vita più monotona di quella non c’era: prendeva il camion, caricava le merci, le portava a destinazione e faceva il percorso inverso. Dei suoi vecchi amici non sentiva più nessuno, se non alle feste comandate, quando tornava per Natale a trovare i suoi vecchi genitori. Egli non credeva da tempo al Natale, alla storia di un bimbo nato nella mangiatoia e riscaldato dagli animali. Era sì convinto di un messaggio compreso in quell’immagine: la voglia di disprezzare i soldi e le comodità, ma non per i voti ad una fede, ma perché la ricchezza distrugge la vita, la inquina e la fa diventare nera, come la notte senza luna. Il vedere i suoi ex amici ambire sempre a posizioni più alte nella piramide sociale, aspirare a redditi per comprare cose inutili lo faceva rabbrividire. Lui che era camionista sapeva il valore del lavoro e che non ha la stessa utilità il lavoro di un camionista con quello di un calciatore. La scelta di diventare camionista, la missione di poter fare arrivare, con la neve, il traffico, gli incidenti, le cose, l’afa e gli scioperi, la merce alla meta era una cosa più utile e più soddisfacente, ma ovviamente pagata di meno. Lui rigettava l’idea di una società basata sull’immagine, su uomini senza idee, uomini nei quali, però si identificavano altri uomini. L’aspirazione verso il nulla, porta al buio della mente. Il buio della mente, porta alla mancanza della creatività e senza la creatività l’uomo è nulla e il genere umano si ripiega su se stesso, si accartoccia, fino ad implodere come una supernova. Il suo essere consapevole della mediocrità insita nel genere umano, la perduta innocenza e mancanza di creatività lo hanno portato a ricercare una via, in questo modo, senza proclami e senza un fine specifico. La sua pancia cresceva e i capelli diventavano di meno, ma la perdita dell’amico più caro e la sfiducia in un domani sereno lo aveva convinto che viaggiare come un moderno Diogene, per l’Italia e per il mondo, alla ricerca dei posti più sperduti, cercando quello che lui aveva perduto, negli occhi di una persona incontrata per caso, poteva essere il modo giusto. Non sorrideva più, non piangeva più, il suo viso era segnato dal triste avvenimento, di cui non si capacitava tuttora. Le sue amicizie durante il viaggio duravano un pranzo insieme o una notte con le donne appostate sulla strada con le tette di fuori, quell’accento straniero, probabilmente dell’est. In quelle donne rivedeva se stesso: il loro sguardo aveva perso la luce della vita; Stefano intuiva che solo loro, donne ghettizzate e sfruttate, sottoposte al duro disegno di Dio o del destino, potevano comprenderlo. Con nessuna però volle approfondire la conoscenza, voleva solo avere un piacere momentaneo, voleva solo qualcuno con cui parlare per le ore di riposo, aveva paura di poter ricadere in quella serata, di essere di nuovo afferrato dalla mano della disperazione.

Bere la prima birra in compagnia di amici, rendeva il gruppo più stretto e faceva di ogni ragazzo un “uomo”. Luca era il leader, era lui che incitava il suo gruppo a bere. C’era Stefano, c’era lo Smilzo, c’era Matteo il bravo ragazzo, e c’era Luisa, la ragazza trasgressiva, quella che si sentiva più maschio che donna, con le sue catene attaccate ai pantaloni e il piercing alla lingua. Stefano, ancora, nella bocca, ripensandoci, sentiva ancora, ripensando mentre guidava il camion a quel momento, il sapore di quella prima Guiness nera, della prima, della seconda, della terza e della quarta. Si alzò barcollando fino a rotolare come una palla lungo gli scalini sui quali vi era il bar più frequentato dai giovani. Prima del ruzzolone furono molte le risate fatte e le scemenze dette. Erano le solite frasi che vengono pensate e dette da un gruppo di semplici adolescenti:il concetto di unione per sempre, l’impossibile distacco e l’eliminazione di ogni ostacolo che, nel futuro, potrebbe porsi alla ripetizione di quelle risate e di quegli intenti. Era quello il tempo in cui Stefano credeva nell’amicizia, era quello il periodo nel supponeva che bastasse la spalla di un altro, per poter evitare di cadere nel vuoto. Era orgoglioso di quei ragazzi, che lo accompagnavano nelle esecuzioni di brani mitici, di quei ragazzi, che seppur stremati, alzavano il calice della felicità passeggera, pronta a scappare via, per far posto ai dubbi, alle indecisioni e a un gran mal di testa. Il ruzzolone fu così violento che Stefano perse i sensi e si svegliò direttamente in ospedale, in osservazione per 24 ore, causa trauma cranico. Nel dormiveglia, vedeva la luce bianca, soffice e che sapeva di zucchero a velo. Poi ad un certo punto il mare e la spiaggia. Avete presente quelle foto dei Caraibi, con l’acqua azzurra, quasi bianca in certi punti, con le ragazze che muovono le loro curve sinuose sulla battigia e quei seni sporgenti, racchiusi in un piccolissimo ed esile costumino, che facevano su e giù. Lui era sdraiato a prendere il sole, e la sua testa faceva su e giù, adeguandosi a quel movimento. Si risvegliò baciando il cuscino, e con la voce del dottore che diceva: “Secondo me sta bene!”.
Quel rifugio paradisiaco era il posto dove voleva tornare nei giorni seguenti, nei quali era stato messo in punizione dalla mamma, la quale ripensava sempre a che figura suo figlio gli aveva fatto fare in città, essendo, la voce, circolata. La mamma si rivolgeva anche alla bimba più piccola implorandola di non fare quelle stesse scelte, tra una litigata e l’atra con il marito, il quale accusa la donna di avere pagato un dottore per nulla e anche incompetente, i risultati erano sotto i suoi occiùhi. La sorella di Stefano, invece, gli fece l’occhiolino come per dire che aveva la sua solidarietà. Dopo pochi giorni di riposo, riprese i contatti con gli amici e con Luca, il quale non aveva il coraggio di farsi ancora vedere dalla sua mamma adottiva.
“Come stai?”, chiese Luca con sms.
“Abbastanza bene, ormai ci sono abituato a queste scenate”.
Luca scrisse di nuovo:”Quando ci rivedremo?”
“Per adesso a scuola”, rispose digitalmente, il malinconico Stefano.
Non ci volle molto a essere ancora più popolare a scuola, dopo quella bravata. Chissà perché i ragazzi tendono a preferire come propri leader questo genere di ragazzi. Stefano non amava molto la popolarità, rimpiangeva quel banchetto in classe, che non veniva considerato da nessuno. Senza volerlo ci era caduto in mezzo, e ora aveva l’opzione di evitare tutto il clamore o cavalcarlo. Scelse questa seconda possibilità, spinto da Luca che gli proponeva di fare: “alcuni macelli”. Luca e Stefano, Stefano e Luca ormai le ragazze facevano a gara per averli. La prima ad andare con Stefano, fu quella che si dà ai più in vista, quella che si propone e che sa quello che piace al ragazzo. Per Stefano fu la prima volta, e in quella prima volta, dovette mostrare quell’imbarazzo che, nel pubblico, non si vedeva e questo a lui non piaceva. D’altro canto, quelle labbra così provocanti, quel seno accennato, diverso da quello visto nei suoi sogni, erano di suo gusto, perché i maschi amano la carne, bianca, nera, rossa, e non hanno problemi se loro si danno liberamente. La ragazza si stancò ben presto di Stefano, perché si era stancata del suo corpo, e quindi il ragazzo passò a quella che veniva dalla buona famiglia, che si vestiva bene, che amava i Gemelli Diversi e le canzoni d’amore. In effetti Stefano, sebbene insieme al compagno di venture, sembrasse un giovane amante delle sfide, nell’ambito privato era tutt’altro e quindi con lei ci stava bene. Luca, era invece il tipico ragazzo che non si innamorava, il ragazzo che fa ridere le donne e lui aveva l’intenzione di farne ridere un bel po’, non credeva, forse anche per la sua esperienza familiare, al rapporto di coppia. Era ancora immaturo, ma questa lezione l’aveva imparata benissimo. Aveva imparato che la stabilità e l’abitudine erano la morte dell’uomo e dell’amore. L’uomo, come suo padre Virgilio, cercava di insegnargli, doveva andare sempre alla ricerca di nuovi stimoli e non abitare sempre sotto lo stesso tetto, con le stesse facce intorno, gli stessi alberi che si vedevano rifiorire ad ogni primavera ed accompagnavano le varie fasi della vita, fino a che quegli alberi che ti hanno visto piccolo, poi grande e poi vecchio non ti vedevano morire nell’anonimato e con un misero annuncio attaccato sul muro di fronte casa. Ogni tanto Luca si fermava a vedere quei manifesti: “E’ morto Giovanni a 94 anni, è morta Stefania a 87 anni, è morto Tizio e ne da triste annuncio la famiglia”. Lui si chiedevano chi erano quelle persone, si domandava quale fosse stato il loro pensiero, l’ultimo, prima di morire. Sono morti contenti, sono morti con il dispiacere nel cuore? Nessuno lo potrà sapere se non qualche confidente, ove ce ne sia stata la possibilità e la voglia. Lui sarebbe stato contento di poter assistere al proprio funerale, poter morire e vedere chi ci sarebbe stato a piangere davanti alla sua tomba. Il padre sicuramente. Stefano e la sua famiglia, anche. Gli amici di scuola? Forse. Le tante ragazze che già a 17 anni poteva enumerare su due mani.

Con la neve non era difficile guidare il camion, perché era così pesante che un po’ di nevischio al nord non lo avrebbe spostato più di tanto; il fatto era che le macchine davano fastidio a lui e al suo camion. Vedeva quelle macchine impreparate al mal tempo, un po’ come i suoi ex compagni, che volevano spaccare il mondo, ma che un po’ di neve li ha impauriti, opprimendoli in una vita grigia, senza storia, né capo e né coda. Alla ricerca di un contratto e un posto fisso, oppure con l’illusione che bastasse una partita Iva a renderli liberi e padroni della loro vita. Le mistificazioni di uno stato dopano la mente dell’uomo, e lo rendono debole. Studiando la storia e la filosofia, poteva ammirare quel gran pensatori che hanno movimentato la storia del pensiero umano: Socrate, Platone e Aristotele, Kant, Niche, Napoleone, Ottaviano, Mazzini, Marconi, Fermi. C’erano gran pensatori negli anni della sua giovinezza degni di essere chiamati con quell’appellativo? Il mondo piatto come una soiola risultava essere mediocre ai suoi occhi. La tv con la sua mania generalista aveva aiutato l’appiattimento e l’uniformità de i cervelli, aveva imposto un pensiero-non pensiero per essere accessibile a più gente possibile. Le università aperte a tutti avevano contributo a creare una pletora di architetti, medici e ingegneri, giornalisti senza creatività, senza professionalità e mediocri nel curare il malato, nel costruire con palazzo e nel fare una struttura che potesse rappresentare la fierezza del genio umano. Anche la musica era intaccata dal virus della mediocrità: erano passati i tempi dei Franz Ferdinand e dei Nirvana, ora tutto veniva inglobato dalle grandi case discografiche che non accettano i diversi, ma solo cantanti griffati che intonano solo “Oh my Baby”. Forse aveva ragione Kurt quando decise di prendere la pistola e farsi in buco, grosso così in bocca. In questo momento della storia nella quale il pensiero uniforme aveva portato ad una sorta di Matrix reale, l’unica via era staccare la spina, non nel senso del suicidio, ma nel senso dell’isolamento del pensiero, far sì che l’individuo poteva rinascere come individuo, riportare l’io al soggetto principale di un discorso. Lui con il camion poteva essere più forte di quelle macchine impazzite che non avevano una meta bene precisa. Lui sapeva l’inizio e la fine del viaggio, poteva nei momenti di pausa, aprire di nuovo quel libro di filosofia, e cercare di capire e soprattutto prepararsi al prossimo esame.
Un aspetto fondamentale dell’essere camionista stava soprattutto nel sapere dove si mangiava meglio, e l’aspetto culinario era un elemento su cui Stefano non transigeva, anche se il suo dottore gli aveva consigliato di mangiare leggero, di farsi l’esame della prostata e stare attento alla pressione. Stefano si ricordava, quando dove scegliere un posto per sostare di quello che gli diceva in padre: “ Vuoi sapere dove si mangia bene, in un posto che non conosci? Trova i camion!”. Se a Stefano avessero tolto anche la tavola e le sigarette, ci sarebbe stato un buon motivo per girare di scatto il volante e buttarsi dal ponte. Quell’oretta seduto a mangiare in tranquillità le specialità delle varie regioni tra carne, verdure e produzioni vinicole lo portava a avere un orgasmo culinario non da poco. Tra i tanti i ristoranti vi era un agriturismo immerso nel verde, dove la pace imperava. La ragazza proprietaria aveva 27 anni. I suoi lunghi capelli biondi sembravano i raggi di sole che scaldano tutto ciò che vi intorno, sciogliendo la neve e i cuori freddi come quello di Stefano. Quei raggi avevano come epicentro due occhi celesti come il mare; lei era l’estate fatta persona, e lui lì ci andava per riscaldarsi da un freddo boia, e dalla gelida vita che lo accompagnava da quell’accidente. Lei era la vita, lei era l’amore, lei era tutto ciò che uomo può desiderare e avere. Quella bellezza fisica era accompagnata dal suo amore per la terra, il suo profumo assomigliava a quello dell’erba umida di prima mattina, le sue mani erano mani di una lavoratrice alla quale piace stare a contatto con il mondo agricolo, fatto di natura, di fatica e semplicità. Fabiana lavorava sola;il padre era un contadino di prima maniera cioè quello che conosce solo il suo lavoro e basta, con pochi rudimenti culturali ma con tanta generosità nel cuore. Quando ai suoi genitori smise di battere il cuore, dopo una lunga storia di amore, lei decise di prendere in mano l’azienda di famiglia anche perché di lavoro, in quelle zone, non mancava. Riuscì a rinnovare il posto, a ristrutturare la vecchia casa e adibirla a ristorante, colse l’opportunità di acquisire dei finanziamenti europei. In poco tempo quel posto divenne un ritrovo per chi voleva fermasi un week end, per chi voleva solo assaggiare la bontà di un’arte culinaria genuina facendo riassaporare dei gusti che si erano persi nel tempo. La piacevolezza del bere del buon vino portava Stefano a equiparare quell’arte di far nascere l’uva buona alla famiglia; ogni chicco d’uva doveva essere trattato come fosse un figlio per determinarne il giusto sapore zuccherino, quell’acidità necessaria che solletica il palato. Una cura maniacale determinata dalla volontà della proprietaria di ergersi rispetto agli altri, rispetto a chi rimaneva per pigrizia o per ignoranza a coltivare, è il proprio il caso di dirlo, il proprio orticello. Quel posto era fantastico: si trattava di un posto in altura, con una casetta di legno con pochi posti a sedere. L’aria era fresca e l’escursione termica era alta. Le prime volte Stefano dimenticava questo fatto e quindi doveva farsi prestare sempre una maglia di lana, che quella ragazza aveva imparato a mettergli sempre da parte. Con prezzo modico Stefano poteva ricordarsi gusti antichi come la pasta che sembrava fatta dalla mamma, poteva rivedere davanti ai suoi occhi, l’anziano padre che curava la carne da fare al forno. Era la cura del gusto e della mente. Fuori dal casale, vi erano ampi spazi verdi, rovinati solo dalle macchine degli ospiti dell’agriturismo. Vi erano i cavalli liberi che correvano, senza briglie, sul tappeto verde, dove la natura faceva il corso. Parlare a voce alta era un sacrilegio, non si voleva rovinare quella pace, e la gente si muoveva con circospezione, come se si aveva la paura di disturbare qualcuno. Stefano erano lontano da quei ricordi dolorosi, da quei momenti bui, dai clacson, dalle corna fatte a chi sorpassava in maniera errata. Sarebbe rimasto lì a vita, ma si conosceva e sapeva che la sua vita era piena di contraddizioni, che lui stesso era contraddittorio e complesso. Sapeva che un giorno si sarebbe alzato da quella sedia dalla quale ammirava l’orizzonte e avrebbe dato addio a tutti e a tutte. Non voleva spezzare il cuore anche a quella donna. Fabiana, con i suoi boccoli, i suoi occhi verdi, che qualcuno aveva ribattezzato gli occhi dell’amore, era sempre lì con il suo sorriso. Forse è stata l’unica donna alla quale Stefano raccontò la sua scelta, il perché, le modalità e quali erano le sue sofferenze. La lasciò di nuovo lì, a far sorrisi ai clienti, a controllare la vigna, aspettando un nuovo ritorno di Stefano, con il suo camion, seppur per pochi giorni.

Stare dietro a Luca cominciava ad essere sempre più difficile. Luca aveva proprio lo spirito dell’artista, di chi con le parole riesce a giocare ed estrarre qualcosa di unico e raro. Erano uno che con le note riusciva ed essere mai banale, uno che ha vissuto immerso nell’arte e che sapeva dare un significato particolare ad ogni colore. Stefano si sentiva umiliato da tutto ciò, perché lui era semplicemente un tecnico, uno che riusciva solo ad ottimizzare un’idea, ma non riusciva mai ad essere originale. Si sentiva inferiore all’amico, e questo senso di inferiorità portava ad una mancanza di comunicazione tra i due, più che mancanza, un difetto di comunicazione perché le loro categorie di pensiero erano nettamente diverse. Stefano forse si sentiva come il maestro di Mozart, o di altri geni, i quali insegnano, ma poi, pur contenti della dimensione acquistata dall’allievo, si sentono mortificati dal superamento stesso. Non riusciva a capire, allora il valore di quell’amicizia, si chiedeva cosa poteva dare di più all’amico, mentre lui avrebbe ricevuto ancora tantissimo. Si chiedeva anche come poteva essere possibile che lui, a 18 anni si facesse quelle domande idiote, mentre c’era una festa alla quale presenziare, mentre c’erano ragazzine calde, calde, da usare e mentre c’era un mondo ancora da vivere. La festa era di tre ragazzi, i quali decisero di festeggiare il compleanno insieme, facendo una festa aperta a chiunque volesse parteciparvi. A quella festa non potevano mancare i maestri delle bevute e delle scopate. Alle volte però Stefano sbagliava, sbagliava come tutti i suoi coetanei. Lui era consapevole che ciò che scriveva, ciò che diceva era errato e che poteva far male, ma lui era un dionisiaco, uno che non rifletteva sui suoi comportamenti, se non pentirsi di quello che aveva fatto e detto, dopo un po’ di tempo. Sapeva di avere bisogno di un grillo parlante, e quello non poteva essere di certo Luca, il re degli eccessi, il re del prova tutto, che domani è un altro giorno e non si sa che fine si fa. Se vogliamo l’ideologia punk era solo questo, una chitarra, un amplificatore e un modo di essere diretto, poche storie, si urla contro il sistema. Lui non sapeva come poteva essere un amico con un approccio più soft e ragionato. Sicuramente non ci avrebbe pensato in quella serata della quale il giorno dopo non rimaneva nient’altro che un gran mal di testa. La stanza dove si festeggiava era composta di pareti bianche e con specchi immensi per farla sembrare più grande. In piccolo palco in legno con annesso mixer, batteria, chitarre e amplificatori posti alla buona per farla suonare il gruppo di Stefano e Luca, prima che un dj aprisse le danze all’interno del locale. Il concerto era pieno di rumore, sudore, salti, urla, teste che si muovevano a tempo e ragazzi che pogavano come nei più grandi concerti. Anche le ragazze che amavano tutt’altro tipo di musica erano lì davanti ad ascoltare, ma soprattutto erano lì per farsi vedere, con una sigaretta stretta tra labbra infuocate, dai profeti nostrani del rock. Fu un successo, come era nelle previsioni, come si sperava dopo tante prove nella stanzetta adibita a sala prove.

Immerso nelle montagne Stefano trascorse un periodo tranquillo e di quiete, libero da vincoli e scadenze. Da piccolo la mamma gli leggeva la favola di Peter Pan, colui il quale decise di rimanere un bambino. Molte volte, nella sua giovinezza, ha sognato un posto del genere, senza dolore, solo puro divertimento. Vedendo le immagini alla tv di giovani torturati, di morti e sangue, di guerre e ambizione, il suo simbolo era un ragazzo che si era messo davanti ad un carro armato; quel ragazzo da solo riuscì solo a catturare l’immaginario collettivo, senza però cambiare il corso degli eventi. si sentiva, lui, come una goccia nel deserto, legato ad una esistenza che poco importa se gli dava un certo piacere e soddisfazione personale, ma che sicuramente non gli dava la possibilità di cambiare la società. Qualcuno ha detto che all’uomo bisogna dargli come obiettivo concreto quello di poter cambiare il mondo, se non è possibile dargli la possibilità, dagli la speranza o l’illusione di poterlo fare. E se il mondo non dà neanche l’ illusione? Da ragazzo ricorda che non era così cinico e pessimista, perché lui ci aveva provato, eccome se ci aveva provato. Gli ultimi anni di liceo furono infatti gli anni del suo fervore politico. A fronte di un amico che non ne voleva sapere, sempre pronto a pensare ad altro, lui elettore, si ritrovò nella possibilità di fare politica nella scuola. Erano gli anni dell’autogestione e della sua carica di rappresentante di istituto. Sempre pronto a combattere con i professori per qualunque manchevolezza, sempre pronto a dichiarare l’autogestione per alcuni mesi contro i provvedimenti normativi del governo centrale. I ragazzi lo seguivano e lui si sentiva, ora leader, senza l’ombra del suo alter ego Luca, sempre più lontano dalla realtà dei fatti. Ma chi era quella gente che lo seguiva? Ci volle poco a capire che quelle persone erano solo parassiti; i più coinvolti erano solo quelli senza prospettive a scuola, quelli che fanno di tutto, tranne che studiare. Si sentiva usato e cominciò a credere che anche fuori delle mura del Liceo Classico Ovidio, la storia sarebbe stata la stessa. Quante persone frequentando il partito vedeva umiliarsi dietro al politico di turno che comandava. Quanti professionisti, al posto di credere nelle proprie capacità, Stefano aveva visto cercare la pista più facile, quella del favore personale e non fare la cosa contraria: diventare più forti da soli ed aspettare che fosse il politico in auge a rivolgersi a lui. Era difficile credere in questo? Forse era l’esame su Nice che doveva dare all’università che lo rendeva così pessimista nei confronti della realtà: si doveva credere nel potere umano? Si deve credere nel genio, nell’intelletto e nelle capacità dell’uomo? Ricordava ancora le scritte sulla libertà e sulla pace sul suo banco e quelli inneggianti al Che e ora, quando vedeva la tv, cominciava a credere che quelle erano frasi da idealista, utopie poco applicabili alla realtà la quale si scontra ogni giorno con elementi diversi. Con la guerra per il petrolio, con la stabilità internazionale, con i musulmani fondamentalisti, con le ricerche sull’uranio impoverito. La televisione era piena di morti, di gente affamata che ha avuto solo la sfortuna di nascere in posti dove la prevalenza dell’uno sull’altro è la cosa più importante da fare, di gran lunga meglio della convivenza civile. Lì la pace non può essere difesa da parole ma solo da armi. Vedeva vuote quelle marce con le bandiere dell’arcobaleno, un arcobaleno che poi era una contraddizione in termini. L’arcobaleno arriva dopo una tempesta, come la pace arriva dopo la guerra. Per non pensarci su Stefano metteva una bella cassetta dei Pearl Jam per cantare a squarciagola canzoni come “Alive”.

Proprio quella canzone gli ricordava una litigata con Luca in una delle prove. La stanzetta dove si provava era una bettola. Era un locale di una donna anziana leggermente dura di orecchio, madre di una amica della mamma di Stefano. Infatti la mamma era stufa di sentire sotto casa sua quel rumore assordante e si decise a trovare un posto per quei ragazzi. Con l’entusiasmo che anima una persona che è preso da una nuova avventura, i ragazzi cominciarono a ristrutturare il locale. Furono recuperati poster di cantanti famosi per nascondere le macchie fatte dall’umidità, furono isolate le pareti con i contenitori per le uova. Un amico di Stefano regalò al gruppo un divano che era da buttare e la mamma di Stefano contribuì con un frigorifero. Il padre di Luca invece pittò una parete, disegnandoci su un gruppo preso dal Dio della musica. Il locale era in aperta campagna e ci volle poco, per renderlo fruibile al pubblico. Per pubblico ovviamente non si intendeva una folla di gente seduta e pagante, ma soprattutto gente di cazzoni ambulanti, cioè di ragazzi nullafacenti che prendevano quella scusa per potersi scolare una birretta, farsi uno spinello, tutto in assoluta tranquillità. Anche le ragazze erano presenti, tutte a seguire Luca, i suoi movimenti e le sue parole: ormai Stefano era diventato un ragazzo serio, aveva detto basta a quelle bevute al limite del collasso, aveva detto basta a quell’atteggiamento messo in atto solo per impressionare una scolaresca. Era diventato un imitazione di se stesso, e come lo era diventato lui, lo era diventato Luca, sempre più lontano dalla realtà e da quelli che potevano essere ideali comuni. Le ragazze erano solo per lui e non per altri, Luca faceva strage di cuori, sempre e comunque e le ragazze si fermavano a sentirlo suonare, raggiungendo il posto con i motorini. La litigata nacque per “esigenze artistiche”. Il punk di Luca mal si sposava con il grunge di Stefano. Al rifiuto di Luca di fare Alive, Stefano buttò giù il microfono: “ basta, mi sono rotto il cazzo a sentire le tue stronzate”. L’aria si fece pesante e il casino che c’era divenne un allucinante silenzio pieno di timore. “ Tu la devi finire di dire quello che si fa e quello che non si fa. Ma guarda dove stiamo, girati intorno, si vedono solo gente che non sa dove è di casa e ragazze che, di solito ascoltano quel pop di merda da radio, e vengono solo per te”. Luca non ci mise molto a rispondere: “ sai che c’è? È che sei geloso di quello che rappresento; ma ti ricordi come eri tu quando ci siamo incontrati? Solo uno comune che si mette nella sua stanzetta a farsi le pippe mentali su ogni cosa e invece ora ti conoscono tutti, tutti ti vogliono, ma tu non sei me, rimani sempre uno sfigato”. Stefano aveva una rabbia in corpo che non poteva trattenere, però non voleva passare dalla parte del torto: “Ecco bravo, io non sono te”. Prese il suo basso nero, lo mise nella custodia e se lo portò via con il suo motorino. Luca come se nulla fosse, chiese se c’era qualcuno che sapesse suonare il basso.

Per non sentirsi solo, spesso, Stefano dava dei passaggi a degli sconosciuti con il suo camion. Sul suo tir in effetti, nel corso degli anni, salirono persone diverse, dal marocchino, al ragazzo in cerca di avventure. Fare un bilancio di tutte quelle personalità gli era impossibile, ma in effetti si poteva concludere che, anche andare in giro per l’Italia e per l’Europa, tutto era microcosmo. Un piccolo universo che prevedeva sempre le stesse persone, caratterialmente parlando. In un pomeriggio umido, quando l’estate è calda e la pioggia non fa altro che aumentare la temperatura con l’umidità, in una strada provinciale, Stefano notò un triangolo sulla strada e subito dopo una macchina color rosso fiammante, che dava nell’occhio, con le quattro frecce di emergenza inserite. Stefano spense la radio che in quel momento passava una stupida canzoncina estiva, una di quelle che viene dimenticata dopo poco tempo, insieme al cantante stesso. A cercare di capire cosa aveva fatto il motore, era un signore attempato, poco mobile nel movimento, e che si disperava per il guasto o per il fatto che non poteva ripararlo. Stefano fermò il motore, e, sceso dal mezzo, si accostò al tizio che lo guardò con aria stupita ed esordì:” Ma guarda, tra tanta gente che c’è, chi mi doveva dare un passaggio!”. Il fisico era cambiato, ma la voce era la stessa di quando, tra i banchi di scuola, faceva il suo nome per essere interrogato in filosofia e storia. Il professor Rupolo era un abile pensatore più che un insegnante ordinario. Il suo sguardo era sempre riflessivo, il suo guardare al cielo senza un obiettivo ben preciso, era come se riflettesse sulla vita, tutto il tempo di questo mondo, senza curarsi di quello che succedeva intorno a sé. Uomo da grandi sogni e dalle grandi idee. Il volere a tutti i costi studiare filosofia da parte di Stefano si fondava proprio sulla convinzione che quell’uomo, grazie allo studio di Platone, aveva tutte le risposte alle domande che la sua vita gli poneva davanti. I due presero un caffé prima di partire con il camion. Nonostante fossero passati alcuni anni, lo sguardo da pensatore, il professore, non l’aveva smarrito per strada. “ Ti ricordi, quando ti chiamavo sempre alla cattedra?”, Stefano nel ridere di quegli episodi, stava quasi per strozzarsi con il caffé bollente: “ Professò, come faccio a dimenticarlo? A causa sua dovevo sempre studiare, anche quando sapevo di essere già stato interrogato da lei. Mica ci si comporta così!”. Un sorriso compiaciuto si stampò sul visto del suo ex insegnate: “ E sai perché ti interrogavo sempre? Perché non solo eri bravo, ma eri intelligente. Anche quando ti beccavo non preparatissimo, sapevi come cavartela nel discorso con me. Non tutti ci riescono a quell’età. Ho pensato che potevi essere un politico da grande, era difficile metterti in difficoltà”. Ci fu un attimo di riflessione, poi il vecchio disse ancora: “ Ora ti trovo così; ma che ci fai qui a guidare un camion? Io sono vecchio e ho visto tanti amici intorno a me scomparire senza aver potuto dire ciao e senza aver potuto esprimere il mio sentimento. Prendi esempio da chi è più grande di te”. Stefano finì la sua bevanda e ci pensò su. “ Dopo quelle che è successo, ho pensato che avere una vita stabile, il classico cartellino timbrato, non faceva per me. La mia fede sta a zero e pensare che esista un Dio da qualche parte che ti ascolta, ti aiuti e ti sostenga nei momenti bui, non fa per me. Cosa ha fato Lui per me? Cosa ha fatto per evitare quello che tutti chiamano incidente? Glielo dico io, nulla! E quindi pensare a come comportarmi qui, per un fine paradisiaco, rimanere bloccato dietro una scrivania, per 40 o 50 anni se tutto va bene, non so è cosa buona e giusta, usando due parole in voga in chiesa”. Il professore aveva sentito tante volte sfoghi di questo genere, e ogni volta non sapeva cosa dire: “ hai ragione, vorrei provarti il contrario, ma come si fa? Sarà credo la tua esperienza a farti porre giudizi e punti di vista, ovviamente diversi da quelli di altri, e potrai dire, alla fine della tua vita, quello che c’è stato di buono e di cattivo nei tuoi comportamenti.”. il professore si alzò dalla sedia: “ credo che a quest’ora il danno sia stato riparato ed è arrivata l’ora di ripartire. Stefano, caro alunno mio, vedrai che un giorno ti sveglierai, e capirai che il tuo senso di colpa svanirà.”

Era una serata calda di molti anni fa; ormai Stefano e Luca non si parlavano da tanto. Troppe le differenze che erano emerse e i personalismi dei due. L’uno godereccio e l’altro intellettuale, essere pensante. Non si parlavano da molto tempo, da quando il gruppo era finito sotto le macerie dell’invidia e del protagonismo di chi crede, a quell’ età, di essere immortale. Lo stesso Luca non riusciva a portare avanti i suoi progetti musicali, perché i testi delle canzoni, a sua firma, non erano nulla, se non supportati dagli arrangiamenti dell’ex amico. Era una serata calda, tanto calda da vedere Stefano, in canottiera, a vedere Mtv, nella sua camera. Una colonna sonora supportata dal piano di una band semisconosciuta accompagnò le tristi parole di una telefonata. Una telefonata che iniziò con il solito squillo, con il solito drin, che però, in quell’istante di sonnolenza, svegliò disperatamente, la mente del povero Stefano. Il suo amico, infatti, era scomparso, ritrovato esanime, per strada. Neanche un arrivederci prima di andarsene, neanche un ritrovarsi su quei pochi anni passati insieme. Stefano rivide tutta la loro vita insieme, nel momento in cui sentì le prime parole, e abbassò repentinamente e freddamente il telefono. Il piano suonava ancora, e le sue lacrime cominciarono a scendere sulle sue gote, bagnando la poltrona dove egli era seduto. Si trovava lì, solo, e quella solitudine si era amplificata, dal momento in cui capì che lui non c’era più, che non avrebbe potuto più litigare con quella persona, che non avrebbe potuto più cantare con quella persona, farsi osannare dalle ragazzine, prendersi una sbronza insieme. Non gliene importava nulla della causa della morte. Sarebbe stato indispensabile? Sarebbe stato salvifico per la sua anima, sapere che non era stata colpa sua e che forse la sua morte era dipesa da assunzione di troppa polvere, oppure perché, in maniera tragicomica, un automobilista aveva stroncato, solo per la causalità della vita, l’esistenza di un attore? Sì, un attore. La sua vita in pubblico era quella di un pagliaccio che faceva finta di sapere tutto e di sapersi divertire. Era quella di un ragazzo che sembrava avere tutto sotto controllo, di avere obiettivi ben precisi nella sua vita, di essere uno che conta. Ma Stefano, in quella notte insonne, tesa a ascoltare i primi dischi, che il povero Luca, gli aveva portato in quella specie di cantina, aveva capito di aver sottovalutato, per la sua profonda immaturità, i silenzi dell’amico, la sua inquietudine, la sua furia nel volere a tutti costi non stare mai fermo, per non pensare, alla mancanza della mamma, alla mancanza di radici vere in una terra, lui che da Firenze, aveva giurato l’Europa e poi finì la sua giovane vita a Milano, in una strada poco illuminata. Davanti a lui una foto quella di lui e Luca insieme ai suoi genitori. Alla fine, pensando alla sua fine, senza un vero perché, spese una riflessione anche sui suoi genitori. In quella foto, Luca guardava sorridente la mamma di Stefano, e nonostante tutto, pensò che nonostante tutto, i suoi genitori, erano buoni genitori e anche Luca lo sapeva. Prese il basso, si asciugò le lacrime e dedicò una canzone all’amico che non vedrà mai se non in una fredda foto, vicino a fiori freschi. Il liceo finì senza un sorriso, sapendo che quella morte aveva spezzato qualcosa dentro di sé, il legame non si era sciolto con Luca, era rimasto sempre sospeso, perché senza un addio, senza un naturale distaccamento, ma invece con un terribile e traumatico distacco, non ci si poteva lasciare.

Dopo aver fatto la visita al suo amico, passò da casa, a salutare i suoi genitori. Li ricordava più giovani dall’ultima volta: i capelli si erano fatti più bianchi, le rughe intorno agli occhi aumentavano e i dolori cominciavano a farsi sentire in maniera non indifferente. Stefano questa volta li vide e sorrise. Non sorrideva da tempo, quel sorriso indicava una riappacificazione tra lui e la sua famiglia. Forse quando si è giovani non si nota che difficoltà c’è a governare un nucleo familiare, ma bastava vedere il suo ormai defunto amico Stefano quanto era attaccato ai suoi genitori, per capire che, nonostante gli sbagli, erano stati per lui, buoni educatori. Luca e il papà non erano persone che parlavano ma erano persone che capivano i gesti dell’altro e i loro significati. Un abbraccio cancellò un periodo fatto di silenzi. Dopo una cena, Stefano ripartì, nella notte; a lui piaceva muoversi “quando il mondo dorme”. All’imboccare della strada, un ragazzo chiese un passaggio. Non sapeva chi era, ma come sempre si fermò e aprì la grossa porta del camion. Entrò.
“Dove ti porto”, chiese Luca.
“Mi faccio gusto una chiacchierata con te, poi ti lascio e stavolta per sempre”, rispose il misterioso giovane.
“Che vuoi da me?”, chiese il camionista, impaurito ed esterrefatto dall’averlo riconosciuto.
“Sei venuto a trovarmi di nuovo. Ti ringrazio, ma voglio dirti che non c’è bisogno. Tu mi ricordi sempre e mi pensi sempre. Non è colpa tua per quello che mi è successo. L’ho voluto io, anzi tu, insieme con la tua famiglia, mi hai fatto passare il periodo più bello della mia vita piccola esistenza.”.
Rispose Luca: “Sì, ma io, avrei potuto non so, non lo so neanche io, starci vicino”.
“Niente ma, vai per la tua strada, vivi e ricordati che ti ho voluto bene”, quest’ultima frase la si disse, mentre la sua canzone preferita passava in radio e Luca tornò a quando suonavano insieme alla prima festa dei 18 anni di una amica. Ora aveva detto addio al suo amico.

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