Un colore che non somiglia a nessun altro
come lo stendi davanti alla platea innumere?
Il mondo vuole l’immagine del cerchio
la somiglianza del giro a vuoto per gridare ‘dio’
sulla testa dei vicini, per i patti coi lontani.
Un colore che non somiglia a nessun altro
non si può partorire, arroventa l’alfabeto
fino a fonderne le lettere del tutto, in tutto.
Un colore che non somiglia a nessun altro
a niente somiglia.
Perciò si immaginò la morte
come uno sparecchiare la tavola.
Il pranzo o l’ultima cena sono finiti.
In alcuni piatti non è rimasto nulla,
in altri affiorano bocconi frastagliati,
i bicchieri e le bottiglie sono svuotati,
le fette di pane mutile a caso
e un senso di disfatta o di fine delle ostilità
si è impadronito della scena.
Si immaginò la morte come quelle mani
che si infilano tra le teste di chi ha finito,
leste decise e serpentine e, sopra, facce
severe e contegnose da musicanti
che suonano per l’ennesima volta
un pezzo logoro del loro repertorio…
Quelle mani che piombano tra le teste
dei commensali e non badano a nessuno,
solo a liberare la tovaglia che poi sarà scossa
per ripulirla dalle molliche e poi come un sudario
sarà lavata e profumata per il prossimo
pranzo o la cena che non sazierà.
E alla fine si immaginò la malinconia
di chi deve alzarsi per chissà dove e prende
dalla tovaglia prima che sia levata
ancora qualche briciola e la tiene tra i denti
e poi la biascica piano mentre nella sua mente
si affollano i quadri di tutti i pranzi e le cene
che prima di quell’ultima volta non lo hanno
saziato e invece di riempirlo lo hanno svuotato
perché così ci si deve sentire dopo ogni esistenza
dopo la farsa sfinita di ogni sopravvivenza.
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