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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Katia Colica

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 16/04/2016 16:37:41

 

Intervista ai primi tre classificati, Sezione A e Sezione B, del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, a cura della Redazione de LaRecherche.it

 

 

Continuiamo la pubblicazione delle interviste ai primi tre autori classificati di entrambe le Sezioni (Poesia e Narrativa) del Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, II edizione 2016, allo scopo di farli conoscere, come persone e come autori, un poco oltre i loro testi che è possibile leggere nell’e-book del Premio: www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=200

 

*

 

L’autrice qui intervistata è Katia Colica, seconda classificata nella Sezione A (Poesia) con l'Opera “La carne degli angeli”.

 

 

 

Chi sei? Come ti presenteresti a chi non ti conosce?

 

Sono una che ha la fortuna di fare il mestiere che la rende felice.

 

 

Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, e che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?

 

Ho cominciato presto a leggere le fiabe dei Grimm, Andersen e Perrault, mi sono addentrata bambina nel  mondo oscuro e barcollante degli archetipi e di figure contorte come Barbablù.  Ho continuato l’esplorazione grazie a cantautori come Nick Cave e Dylan. O De Andrè, che mi ha accompagnato per mano dentro Spoon River; Edgar Lee Master ha fatto il resto. Mi ha condizionato molto Dostoevskij nel tratteggio dei personaggi  che si propongono in piani diversi ed eterogenei, mai lineari. Ho imparato molto dal linguaggio esile e allo stesso tempo intenso di Silvia Plath ed Emanuel Carnevali. Ho assorbito le atmosfere sospese e rarefatte di Marguerite Duras e Peter Handke. Mi hanno sempre attirato gli autori che sanno indagare il sottobosco umano dell’imperfezione e della fragilità.

 

 

Quale utilità e quale ruolo ha lo scrittore nella società attuale?

 

La forza della parola scritta resiste al tempo e alla memoria. In una società costruita sull’immagine la parola può inchiodare ancora una volta riflessioni che non trovano spazio nella scivolosa era delle apparenze. Lo scrittore deve assumersi la responsabilità di usare uno strumento che rafforza la conoscenza non certamente per il messaggio, che può esserci come può non esserci. Ma col percorso di crescita che non lascia mai uguali a prima. Così è sempre stato e così sarà.

 

 

Come hai iniziato a scrivere e perché? Ci tratteggi la tua storia di scrittore? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.

 

Ho iniziato soprattutto a leggere prestissimo, in maniera avida e disperata. Fin da piccola avevo la consapevolezza di trovare nei libri un ambiente salvifico. Era lì che volevo stare. Sono stata fortunata e ho cominciato pubblicando il mio primo racconto in una raccolta di Oscar Mondadori e questo risultato mi ha incoraggiata a continuare. Scrivevo soprattutto da giornalista e faticavo a lasciare la dimensione dell’articolo che, in un modo o nell’altro, era rassicurante dal punto di vista lavorativo. Ho iniziato con una via di mezzo prudente: “Il tacco di Dio”, il mio primo libro è un’inchiesta dall’impronta romanzata.  Ho continuato con questo genere in “Ancora una scusa per restare” (tutti e due a cura di Città del Sole Edizioni). Poi ho lavorato su drammaturgie con alcune compagnie teatrali e l’ultima “Un altro metro ancora - Monologo sul bordo della vita,” è diventata un libro. Collaboro per Sdiario di Barbara Garlaschelli con i miei racconti. Così ho trovato la maniera di distanziarmi dal giornalismo e scrivere altro, anche  l’ultimo mio libro è un romanzo: “Lo spazio adesso” (Ottolibri). Ma mantengo una collaborazione improntata alla ricerca sulla rivista di scienze sociali “Helios Magazine”.

 

 

Come avviene per te il processo creativo?

 

Sono molto rigorosa e mi impongo un ritmo quasi impiegatizio: se dovessi aspettare la famosa ispirazione non produrrei molto, pigra per come sono. Allora l’ispirazione me la vado a cercare, mi circondo di bellezza, di arte, cerco di assaporare la genialità che sta dietro un pezzo musicale, respiro l’odore di acrilico in una mostra, leggo autori che non lasciano mai uguale. E se non riesco a creare come pretendo mi concentro sull’editing, sulla parte “arida” che un testo richiede: abbrevio, amplio, segmento frasi, le rifinisco in un lavoro di cesello. Ma non faccio passare quasi mai un giorno senza scrivere.

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

Nessun obiettivo che sia diverso da quello che potrebbe avere qualsiasi altra persona al mondo e che fa qualsiasi altro mestiere al mondo: cerco di lasciare qualcosa di meglio rispetto a ciò che ho trovato già. Ci si riesce a tratti, ma questo è secondario.

 

 

Che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Mio malgrado mi ritrovo sempre ad avere un approccio “sociale”. Mi attraggono le esistenze che prendono strade strane, mi interessano gli antieroi, le vite nascoste agli angoli delle strade, ai semafori, dentro mondi distanti eppure paralleli. 

 

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue? Come si è evoluta la tua scrittura dalle tue prime pubblicazioni?

 

Evidentemente le mie ossessioni tornano in forme identiche anche se cambiano storia e luogo. Mi hanno fatto notare che anche quando parlo di uomini ci sta sempre una figura femminile, che sia essa reale o un archetipo, una suggestione. Tendo a concentrarmi sugli aspetti fragili dell’umanità, mi interessa ciò che ha un percorso di sofferenza non per meccanismi catartici, o di analisi sociale. Solo mi interessa raccontare. Credo nell’importanza della narrazione. E in questo sì, mi sono evoluta non nel significato ma nella forma, per fortuna meno ingenua e più consapevole.

 

 

Quale rapporto hai con la poesia e quale con la narrativa? Hai scritto sia in versi sia in prosa (racconti o romanzi)? Se la risposta è no, pensi che, un giorno, ti accosterai all'altro genere letterario?

 

La poesia è un argomento a parte che ancora mi intimidisce, la trovo fragile e tuttavia con una forza centripeta devastante. Scrivere poesia mi lacera, mi toglie da dosso filtri e difese. La poesia mi pretende selvatica e  primitiva per cui spesso la evito con cura. Poi mi viene a cercare e le cedo arrendevole fino al riparo successivo. Ho pubblicato una silloge: “Parole rubate ai sassi”. La narrativa mi scarnifica molto di meno: ci convivo ogni giorno.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

La mia Reggio Calabria mi nutre e mi respinge. La scrittura è nata assieme alle mie origini, ho steso inchieste sul territorio, sulla mia difficoltà a staccarmene, sui suoi figli più nascosti e meno fortunati. Da un po’ la mia scrittura cerca di affrancarsi dalla Calabria, come è giusto che sia. Succede così in ogni rapporto madre-figlia.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Lo avverto come un equilibrio fugace  e precario. Che tuttavia perdura da sempre: evidentemente è un connubio imprescindibile.

 

 

Quali difficoltà hai incontrato nel pubblicare i tuoi testi?

 

Sono stata fortunata e ho trovato subito rispondenza alle mie proposte. Ho incontrato senza troppa fatica persone importanti che hanno creduto in me e così della scrittura sono riuscita a farne un lavoro, anche grazie alle attività indirette rispetto alla pubblicazione in sé: tengo corsi di scrittura, scrivo per il teatro, faccio reading musicati nelle scuole, in associazioni e locali, ho un’agenzia di comunicazione e ufficio stampa, collaboro con case editrici per consulenze esterne di lettura, editing, ghost writer. Il mio lavoro ruota attorno alla parola scritta.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

Sono variegati e diversi: i libri inchiesta e gli articoli di approfondimento sono letti più dagli uomini e dai professionisti. La narrativa e il teatro sono seguiti perlopiù da fasce d’età cha vanno sopra i 35/40 anni. Le donne in più preferiscono anche leggere i miei racconti brevi pubblicati sulle riviste. Forse il target che non sono riuscita ad attrarre in maniera sostanziale sono i giovanissimi  ma ho avuto diverse esperienze di reading nelle scuole e ho trovato ragazzi che mi hanno restituito fiducia: appassionati e coinvolti soprattutto per i miei scritti improntati sul sociale. Servirebbe un percorso di formazione rispetto all’approccio con i libri: questi ragazzi sono sopraffatti dall’immagine e dalla velocità del click.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Ho sempre trovato questa frase concreta: il cammino che si intraprende leggendo un libro è spesso una sorpresa anche dolorosa. Chi è che non ha sanguinato assieme al “sognatore” che si innamora di Nasten'ka ne “Le notti bianche” di Dostoevkij?  Chi non ha soffocato con Desdemona ancora prima che Otello la uccidesse, mentre già non era creduta? Questi percorsi emozionali sono di certo lo specchio di alcuni passi che anche noi abbiamo tentato, in un modo o nell’altro.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori? Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo? Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

In genere recensisco solo ciò che mi piace, non sono adatta a stroncare, e non mi interessa. Invece presto attenzione a ciò che travolge i sensi, alla scrittura fatta di carne. Un testo che leggo deve lasciarmi diversa,  in qualche maniera strana che non saprei dire.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Un signore mi ha scritto che dopo aver visto uno spettacolo teatrale  da me scritto, “Un altro metro ancora”,  non si è dato pace fino a quando non è riuscito a scrivere il proseguo della storia di quel personaggio. Ha inventato una vita oltre la vita che io volevo raccontare perché non riusciva a lasciarlo andare, lo voleva ancora con sé a fargli compagnia. Lo ha sentito come una specie di compagno di viaggio da non abbandonare, gli ha proposto di continuare l’esistenza solo per lui e per me è stato molto gratificante.

 

 

A cosa stai lavorando? A quando la tua prossima pubblicazione?

 

Il mio agente ha un manoscritto inedito in attesa di pubblicazione. È una storia d’amore e di precarietà, il protagonista è un carcerato che fa i conti con errori e con possibilità inaspettate che però non è abituato a cogliere. In più ho appena iniziato a scrivere un altro romanzo ma è solo una bozza. Parla di una donna ferita dalle scelte altrui. 

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Non saprei immaginare la mia vita senza l’arte. Ho bisogno di nutrirmi quotidianamente di bellezza: letture, suoni, visioni, teatro.

 

 

Sei tra i vincitori del Premio “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, perché hai partecipato? Che valore hanno per te i premi letterari? Che ruolo hanno nella comunità culturale italiana?

 

Con i premi ho un rapporto raro,  prudente e ponderato. Forse dal tono snobistico a pensarci un po’, ma tant’è. Mi interessano come peso culturale, li reputo ambiti vitali e preziosi per gli autori. Ma non trovo rispondenze nella maggior parte dei bandi che comunque spulcio. Sarò molto schietta: molti di questi sono specchietti per le allodole, sfruttano impropriamente nomi di grandi poeti per fare cassa in cambio di tristissime targhe e cesti di prodotti tipici. Ma, soprattutto, spesso sono sentieri iniqui per portare gli autori verso quella che ritengo una vera piaga della scrittura: l’editoria a pagamento, in ogni sua forma. Per quanto mi riguarda ho partecipato a pochissimi e selezionati bandi: al Merini (quello organizzato con il benestare della famiglia) e al De Andrè (quello organizzato dalla Fondazione De André di Dori Ghezzi) arrivando seconda. Ho partecipato a “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie” e sono arrivata seconda. A parte la sindrome del secondo posto alla Toto Cutugno, mi ritengo soddisfatta di aver scelto poco e bene: de “Il Giardino di Babuk” mi ha convinto il bando snello che non complica la vita all’autore, la qualità delle sue pubblicazioni e, non ultimo, il premio in denaro a fronte di nessuna tassa d’iscrizione. Un’attenzione importante verso chi fa un mestiere non semplicissimo da farsi retribuire. E come dico spesso: anche i poeti ogni tanto mangiano. Poco ma mangiano.

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono convinta che LaRecherche.it stia andando nella giusta direzione: la libera scrittura spesso confonde il lettore con un’offerta al ribasso. L’editore informatico, quindi, ha un compito molto più gravoso e impegnativo nel selezionare la qualità.

 

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?

 

La mia immaginazione non è così ricca. Non so immaginare una domanda che ancora non mi hanno fatto e soprattutto preferisco aspettare le domande che gli altri mi sanno fare. Poi se saprò rispondere risponderò, certo non lo garantisco. Però posso sempre farmi aiutare.

 

 

Grazie Katia

 


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