Era la strada che portava alla cava, collegava una via del paese direttamente al fiume. Sagoma serpeggiante e stretta, a doppio senso di marcia, ma stretta, che se tu in auto scendevi o salivi, l’altro, o tu, dovevate arretrare sino ad uno dei pochi lievissimi larghi, per poi passare schivandovi.
Ma più che stretta, era ripida, molto ripida, di una pendenza esagerata.
In meno di un chilometro compensava un dislivello di ….., non lo so, so solo che era esagerata.
Era anche la strada che usavano i camion che risalivano dalla cava di ghiaia. Quasi tutti i giorni quelle bestie meccaniche, impassibili e monotone, risalivano quella loro mulattiera impadronendosene per l’intera larghezza sino alla cima. Implacabili. Non v’era scampo.
Ragazzini, alcuni giorni d’estate ci riunivamo alle prime ore del pomeriggio, ciascuno con il suo bolide a pedali, spesso privato di freni per renderlo più brutale (ricordo che si stava a gambe piegate premendo con entrambe i piedi, i più audaci con uno solo, sul cerchione posteriore, per rallentare la corsa, o almeno tentare di farlo) e si decideva se scendere in gruppo “a chi arriva primo” o se fare la gara a tempo, ossia il più veloce.
La pista era la strada della cava.
Il più scaltro tra gli scaltri, dopo pochi minuti di folle discesa, nemmeno se avesse avuto cento piedi, avrebbe potuto fermarsi incolume. Di solito, a molto meno della metà del percorso, ci si buttava dalla bici, lasciando che, nel suo breve equilibrio precario, terminasse contro una delle pareti di roccia laterali. In realtà, vinceva chi durava di più in sella. E comunque eri contento quando, rialzato da terra, non vedevi molto sangue su braccia e ginocchia. E poi al dolore nemmeno ci pensavi tanto.
Ancora oggi, io mi chiedo come, i quei giorni, in nessuno di quei giorni, alcun camion abbia mai risalito quella strada.
Forse, l’impavida gioventù intimorisce le regole della sorte.
O forse, dall’alto, c’era chi dirigeva il traffico.
E io ora, con sorriso amaro e troppi freni, sono qui a scriverlo.
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