Penelope
di Enzo Caputo- Officina Teatro LMC, Trapani.
Testo di Alma Passerelli Pula.
Interpreti: Alma Passerelli Pula, Rosalba Santoro, Lucia Poma
In questa affascinante Penelope l’aurora del mito perfora la notte dei tempi e ci raggiunge, proprio come la città in cui ne viene rappresentata la “prima” perfora il Mediterraneo e tutto ciò che i suoi flutti hanno visto, trasportato e sommerso, per tempi immemorabili e ancora oggi.
L’ineludibile ripetersi del mito è espresso con efficacia dall’immagine del carillon, che viene offerta allo spettatore all’inizio e alla fine della rappresentazione: diventa per un attimo una bambola meccanica quella stessa Penelope che pochi secondi prima, entrando in scena, aveva incarnato con sguardo fisso e intenso le ieratiche statuette cretesi – e lo spettatore si chiede quale dea sia questa che ha davanti: dea dei serpenti, dea dei papaveri o dea sconfitta, aggiogata alla presenza/assenza del suo uomo.
Qui, non siamo più all’epoca della “gigantessa di pietra”, ma poco oltre, ed è ancora forte l’eco della sua grandezza e del suo lento declinare.
Il padre Icario aveva cercato addirittura di annegarla questa figlia femmina, che per buona sorte era stata salvata, neonata, dalle “sorelle anatre” (retaggio di antiche epifanie della dea nelle acque basse e nelle paludi) e poi, giovane donna, da un uomo “fermo come la fermezza” che in lei rispettava l’antica fiera, l’incatenata belva. E aveva partorito Telemaco, “figlio figliato nella notte maga”.
Ma in quest’epoca aurorale, fissata dal mito di Penelope, gli uomini come il suo Ulisse vanno “a perigliare storia” e non tornano, e quelli che non “perigliano” “gemono finti orgasmi” nelle dimore senza sovrano, tra fiumi di vino e bestie macellate. E le donne sono regine abbandonate, insidiate, oppure ancelle traditrici.
Nell’attesa Penelope tesse/disfa la tela e forgia parole, per abitare il corpo abbandonato e per congelare il tempo di Itaca fino al mitico nóstos, il ritorno dell’eroe: non più dea e matriarca, abitata dalla mancanza, non le resta che farsi signora del moto delle grandi sfere, e con purezza divina le domina. Ma le ancelle esigono nuovi re e nuovi favori, e con danze oscene le rubano le matasse del tempo.
L’attesa, “come sordo istante d’infinito”, è disperata e lunga, “quanto lungo l’estremo corso del filo”. E nell’attesa “il pensiero si infolla” e “il vino bacco sbacca spacca il violento stare dei desideri muti”. Neologismi emersi dal corpo che danza tracciando figure che paiono impresse su antiche ceramiche disseppellite intatte.
Il canone di Pachelbel, con le sue variazioni che si rincorrono senza mutare ritmo, trascina Penelope indietro e avanti, avanti e indietro, ed evoca l’eterno ripetersi del destino di regine, dame e madonne abbandonate in regge, castelli e palazzi; tessono tele e filano lana, illudendosi del ritorno di un eroe non solo amato, ma divenuto indispensabile per esistere.
Nella leggenda Ulisse ritorna. Qui non lo vediamo sulla scena; ne sentiamo la voce (Coraggio, figlia del glorioso Icario...), ma è Penelope che sta sognando, e proprio lei ci avverte:
Due son le porte dei sogni inconsistenti:
una ha battenti di corno, l’altra d’avorio:
quelli che vengon fuori dal candido avorio,
avvolgon d’inganni la mente, parole vane portando;
quelli invece che escon fuori dal lucido corno,
verità li incorona, se un mortale li vede.
La voce narrante di Omero ci narra poi il lieto fine della storia. Resta il dubbio se si tratti di verità o finzione.
In ogni caso è Penelope, sagace, a ordire la gara e a rispolverare il vecchio arco, appartenuto all’uomo probabilmente inghiottito dal mare o dalla guerra. Il suo trionfo risolve la mancanza e il tempo si scongela per un attimo, prima che il carillon la trasformi di nuovo in una bambola meccanica.
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