Pubblicato il 29/01/2016 20:47:58
Flaminia Cruciani, Sorso di notte potabile, Faloppio, LietoColle, 2008 LETTURA DI MAURIZIO SOLDINI Il primo sorso dal bicchiere delle scienze naturali rende atei; ma in fondo al bicchiere ci attende Dio. Werner Heisenberg Ho letto per la terza volta “Sorso di notte potabile” di Flaminia Cruciani. Alla fine sono uscito dalla lettura, fatta d’un fiato, più che ammirato. Certamente il libro non è di facile lettura, ed è per questo che ho voluto tornare e ritornare in un confronto ermeneutico reiterato col testo; ma si badi bene, la difficoltà non è tale perché difetti la scrittura, quanto, invece, perché siamo noi che difettiamo nel modo in cui ci poniamo davanti ad un’opera d’arte, in questo caso davanti ad un’opera letteraria. Ad iniziare dal fatto che in questo caso difficilmente riuscivo ad inquadrare l’opera: prosa, poesia, racconto, fiaba, romanzo breve, memoria, psico-auto-analisi? Certamente ho avuto ed ho difficoltà a chiudere lo scritto di Flaminia Cruciani nelle strettoie di un preciso genere, come mi è difficile intravedere nel passato e nel presente letterario qualche faro che abbia dato punti di repere alla Cruciani. È vero che si citano alla fine come fonti di riferimento Dalla, Dante, Gould, Nezāmī , Novalis, Proust, Rilke, Yeats, ma a me sembra che alla fine la faccia da padrone su tutti Orfeo e tutta la tradizione orfica, fino ad arrivare al poeta Dino Campana, al quale secondo me molto si avvicina la poesia di Flaminia Cruciani. E con questo sciolgo ogni indugio: l’apparente difficoltà iniziale di inquadrare l’opera della poeta romana alla fine non lascia dubbi al fatto che siamo davanti ad un’opera di poesia e di alta poesia. Il filo rosso del poema lirico è la morte e in particolare la morte del padre. Lo stupor mortis abita da subito nel flusso di coscienza e l'affabulazione caratterizza un andirivieni dei moti di anima e psiche. La morte, l'occhio vitreo, la nausea davanti alla morte, il padre, l'occhio vitreo fisso inanimato morto sono l’adito nella notte, nel buio pesto dell’esistenza. La notte che spezza la luce, che calpesta d’ombra la verità, che simula il nulla e impietrisce immobilizza toglie senso. Senza più musica. Affascinante gli “occhi che per un solo attimo hanno visto il trapasso per non vedere più occhi che hanno smesso di guardare” come “la vita è un continuo guardare vigilare dire” e ancora “l'eterno non trasmesso da un occhio che rimane vuoto d'anima”. “L'abisso della materia e la sua inutilità il non senso”. La notte. La follia della notte. Quella notte nella quale la poeta si chiede se potrà mai avere “il perdono per non essere stata capace di abbracciare la sua (del padre) anima e fermarla per non farla volare via”. “… e ora rimangono i giochi di luce la presenza dell’occhio che vede nella luce in controluce e al buio e aspetta il padre nella sua apparizione padre che ha fermato l’istante nella fissità dell’ultimo sguardo”. Notte e vuoto. Sguardo fisso. Impossibilità di sguardi. Ma siamo proprio sicuri che non ci sia scampo al nero pesto della notte? Siamo così convinti che la notte non sia potabile? Che non si possa abbeverare l’essere anche in assenza di luce? Ecco allora che dall’abisso della materialità del non senso emerge la possibilità di quel volto paterno che si illumina. Ma dove? In quell’altrove della metafisica che da sempre è stata la sua dimensione. E nel luogo della reminiscenza, “schermo della mia memoria”. Lì dove il mondo è tremendo perché lì si può guardare lo stesso anche con occhi senza testa, là dove gli occhi sono collegati col nervo ottico non alle regioni occipitali del cervello, ma alle regioni più invisibili del cuore. Ed è lì che nasce l’anamnesi dell’infanzia, dei luoghi del genio come Venezia, o come quelli della città della poeta: l’Aventino, il Tevere, Villa Torlonia. E reminescenze d’Oriente, Aleppo, la città bianca, imperlata di polvere, che si lascia prendere in un pugno insieme ai suoi simboli onirici. La poesia di Flaminia Cruciani è “allegoria dell’ignoto lavorata di sostanza divina”. Se il dolore per la morte, e nella fattispecie per la morte del padre, getta la poeta nello sconforto e nella catatonia della melanconia, nel buio più pesto della notte, nella follia, non tutto è perduto, c’è sempre una possibilità di sopravvivenza che ostacoli la disperazione: l’amore. L’amore che consente comunque di comunicare di dialogare di donarsi. Lo stesso dono che ci fa Hermes. Il logos la parola il messaggio la poesia il senso. L’apertura all’altro da noi. Ecco allora risbocciare la vita. Si fa avanti un uomo. Porta con sé amore. Non sostituisce l’altro uomo, il padre. Ma dà possibilità di vita alla poeta, che a sua volta dà vita, concepisce, diventa madre e nello stesso tempo trova la forza per elaborare il suo lutto e portare fuori dalla notte anche il padre. Attraverso la poesia. L’oscurità, la notte, è luogo del mistero e del sacro, come la morte. E nella notte abitano il nettare degli aneddoti infiniti, le sfumature delle ispirazioni estreme… Sembrerà paradossale, ma talora qualcuno vuole convincerci del giorno, ma la poeta sa che è una menzogna perché la luce è un’allucinazione. Ecco allora che il matto di turno gli “porge un sorso di notte, come viatico in franchigia di follia” e la poeta viene traghettata con un salto nell’oscurità, in quell’oscurità dove è possibile udire la musicalità fiorita dell’amore, là dove la notte finalmente si rivela nutrirsi di luce. Come a dire, citando Hölderlin, che “là dove c'è il pericolo lì c'è la salvezza”. Roma, 25 marzo 2011
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