Cinquant’anni or sono la notizia del suicidio di una giovanissima e graziosa poetessa americana deflagrò su riviste e quotidiani americani ed europei. Molti particolari inerenti il fatto furono riportati dalle cronache insieme ad episodi, fino ad allora ignoti, riguardanti l’origine del suo disagio personale e il suo ricorrente e malcompreso “male di vivere”. Ben poca attenzione riservò il gran pubblico alle sue opere, mentre il pubblico colto e letterato, specialmente anglofono, cominciò ad avvertire la dirompente “libertà” e “perentorietà” della sua poesia. Forse, più che il “male di vivere”, è stato il “disperato amore di vivere”, secondo Giovanni Giudici, a determinare il corto circuito della sua fine. Quello stesso disperato amore di vivere legò al medesimo destino la poetessa italiana Amelia Rosselli, che della Plath tradusse le opere poetiche e che morì suicida 33 anni dopo alla stessa data. Così altre artiste contemporanee
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Mi chiedo: perché i radi ingressi delle donne nel mondo dell’arte e delle professioni artistiche destinate al pubblico si connotano come passaggi pericolosi, al limite della tragedia e del lutto? C’è chi ha colto l’insistenza di tali accadimenti nel mondo contemporaneo evoluto. Ci sarà più di una ragione sottostante?
Credo di sì, e penso che quanto accennato ha a che fare con il disegno sociale globale che, da un lato prefigura una cornice giuridica su cui fondare e sostenere la progressiva emancipazione delle diverse figure sociali dall’assoggettamento al patriarca e al territorio, dall’altro lato, e contradditoriamente, ripropone in forme elusive e ambivalenti la ghetizzazione delle minoranze e a una sorte molto problematica la componente maggioritaria femminile, il controllo (denegato) della quale appare strutturalmente necessario all’economico prodursi e riprodursi della società in generale, secondo equilibri il cui bilanciamento deve garantire ai poteri in essere, marcatamente maschili, la centrale continuità.
E allora mi viene spontanea un’ulteriore domanda: esiste una relazione tra gli effetti sociali pervasivi e ghettizzanti esperiti e trasposti nei suoi versi dalla Plath e le strozzature, le distorsioni affaticanti che punteggiano l’ingresso malsicuro e il periglioso percorso femminile nel mondo del lavoro, in generale, e la relativa sottovalutazione del suo valore economico rispetto a quello maschile? Secondo me, sì. E sullo sfondo della parola poetica emerge una scoperta che raramente ha conosciuto onori letterari: una stessa logica elusiva e avida presiede a che l’uguaglianza giuridica formale non possa divenire effettuale, per ragioni dette misteriose, ma che in molti sappiamo inerenti la salvaguardia della preminenza politica e ideologica del gruppo ali potere.
La scrittura poetica e narrativa di Sylvia Plath, infatti, pur senza mai cadere nel sociologismo, riversa in una tensione linguisticamente algida, e senza dispersioni di autocompatimento o consolazione, gli effetti paradossali dei modelli sociali, di cui non ci si può disfare come “un di fuori” assurdo. I modelli dominanti formano corpo con la vita personale, animano drammaticamente la sensibilità, il senso etico e la stessa razionalità, che dentro noi donne sono motivo di interni obblighi, di bisogni emergenti e irrisolvibili conflitti .
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Il suicidio, il suo modo e le circostanze, il livello intellettuale e sociale della persona portarono alla ribalta quelle contraddizioni e resero inevitabile inscrivere Sylvia Plath, post mortem, a simbolo del risveglio critico femminile nel mondo e poi del femminismo militante degli anni ’70-80 in Occidente. Il femminismo infatti nasce colto e con difficoltà coinvolge il proletariato femminile. Anzi, com’è noto, i rappresentanti della cultura operaia hanno considerato il movimento femminista come portato dell’’ideologia di certi settori della borghesia femminile, più interessata a pareggiare i conti con l’omologo settore maschile sotto il profilo economico, professionale, culturale, nell’ambito della sostanziale persistenza dei modelli operanti, piuttosto che movimento politico ideologico votato a sovvertire l’ordine sociale esistente .
Il femminismo del secolo scorso ha trovato forse riferimenti immediati e “politicamente” più efficaci nella rievocazione delle vicende personali della poetessa (e di altre figure), desunte dai diari e dalle opere di narrativa, cioè dal vissuto, più che dalla considerazione delle sue opere poetiche.
Lei, intelligente, ambiziosa perché colta e dotata di talento, sensibilissima e determinata, capace di forte rigore autocritico, riferì il senso acre della fatica solitaria a comprovare il possesso di speciali idoneità per iniziare un percorso intellettuale allora non comune per le donne; certamente parlò della sua solitudine umana e sociale in una metropoli organizzata secondo un orologio competitivo attivato in condizioni impari mascherate. Non hai supporti economici? Acquisisci meriti incontestabili: devi provare che hai talento, magari genio!Devi abbattere gli imbattibili primati semplicemente per esistere agli occhi altrui e specialmente agli occhi del maschio competitore.
Il mito della società americana, apparentemente la più aperta, la più giovane e costitutivamente libera dagli schemi medievali, vacilla di fronte alle rivelazioni degli impatti personali al pubblico: qualche “femme savante” non ci sta a rafforzare la tesi secondo cui il Q. I. femminile è, come quello dei neri, per natura più basso. Sì, anche là, negli States, “l’intellighentzia”,organizzata in casematte e rituali maschili e maschilisti, è protesa a selezionare gli ingressi alla riserva, a sorvegliare che l’avida corsa dei suoi prescritti sacerdoti occupi le tribune più elette; anche là si persuadono le donne a farsi piuttosto accolite e oggetto di deprimenti venerazioni, così da poterle confinare in ruoli sociali recessivi ed eterodiretti.
Sylvia Plath, ma non solo lei, si fa specchio della sua esistenza difficile e ci restituisce queste immagini discriminanti del suo mondo. Noi, con qualche anno di ritardo, scopriamo che quel suo specchio parla anche di noi, della nostra granitica subalternità rispetto a un patrircato ottuso e feroce, ma presto (e purtroppo per un solo breve tratto di tempo) ridotto alla difensiva.
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Sylvia Plath dà spessore simbolico e dimensione pubblica alla concreta condizione restrittiva data e al suo limitante orizzonte: il privato, in cui riposa tanta parte del senso della vita femminile, ma che diventa carcere quando la società intera pretende di confinarvi tutto l’universo personale di ogni donna. Con altrettanta potenza espressiva S. Plath contesta la riduzione della persona a una sola dimensione, prefigura altre possibili e autentiche declinazioni della vita: niente o/o, piuttosto forse questo e forse anche quello. In Verticalesembra dirci così “Ciò che difficilmente accetterò è di corrispondere perfettamente al modello imposto: cioè essere un curioso vegetale: vivente e verticale come un albero che assorbendo minerali li trasformasse in amore materno.”
La metafora botanica si presta a connotare gli individui verticali, quelli che corrispondono per longevità e audace bellezza al dettato esistenziale richiesto.
E continua:”Passare in mezzo a loro (enti rampanti e praticamente immortali o di imponente e breve visibilità, come sono i fiori) è accettare di essere irrilevante, pessoché inesistente. E però ci si aspetta che io, riconoscendo la mia inadeguatezza sostanziale, sottoscriva la mia incondizionata oblazione all’utile ruolo di vegetale responsivo. E allora penso che il modo più perfetto di assomigliare loro, a quelli per i quali non conto, sia di giacere supina e dormire coi miei pensieri divenuti nebbia, anticipando il momento in cui, supina per sempre, alberi e fiori «avranno tempo» per (=tramite) me, loro alimento”. (Buona come concime, si direbbe oggi!)
…………
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
Oggi il valore poetico e letterario di Silvia Plath risulta forse più evidente, non parendo riducibile alle sue, pur drammatiche, vicende personali. La forza dei suoi versi, invece di esaurirsi in quelle, acquista più profonda risonanza, non solo perché diventa rappresentativa di una problematica mondiale - fil rouge che ha principiato a collegare ogni donna a tutte le altre nel mondo - ma perché inequivocabilmente il suo discorso sembra scavalcare il conflitto grettamente competitivo tra uomo e donna, interno a un settore sociale di un determinato paese. Lei scopre o riscopre poeticamente la dimensione universale della così detta questione femminile, indicando nelle categorie logiche e storico-culturali i luoghi in cui si annidano, incomprese nella loro levigatezza statuaria, le ragioni delle segregazioni e del “perfetto” compimento finale….
Limite
La donna ora è perfetta/Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,/l'illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,…
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Tuttavia, ancora oggi nelle attuali note di stampa si avverte ancora il prevalere di un’attenzione fissata con forza sull’elemento cronachistico: la sua malattia nervosa come dato e non come risultato, la sua difficoltà a reggere i ritmi frenetici del modello sociale americano e londinese, il suo disagio a dover sostenere con assoluta prelazione l’incombenza dei sopraggiunti compiti materni e maritali così da stringere in mora ogni altra sua esigenza realizzativa…
Ancora una volta, nel 2016, lei è volta a simbolo, ma di un femminismo italiano sfibrato, privo di incisività e ancora gravemente diviso sulle questioni dei diritti civili, incapace di concepire i nessi generali del problema.
E a proposito della lotta durissima sostenuta e poeticamente significata da S. Plath, diversi commentatori odierni delle sue opere fanno espresso riferimento all’incalzare “demoniaco” della poesia nella vita della poetessa. Con ciò stesso sembra essere riproposta la connotazione “maledetta” del poetare e dell’arte in genere. Ripescaggio di una visione rétro, che pencola verso una concezione vaticinante, più prossima a un’idea romantica e sciamanica dell’arte, mediante la quale il poeta assumerebbe su di sé la negatività del mondo e la sua propria, in virtù di una sensibilità non dominabile e in effetti aliena rispetto ai denotati materiali, alla loro conoscibilità e alla loro incidenza nella dimensione interumana concreta.
E allora ancora domando: da dove scaturisce, come nasce l’accezione demoniaca che connota e accompagna un comportamento o una pratica? O meglio, quand’è che una pratica diventa “demoniaca” per un gruppo sociale e persino distruttiva per chi la espleta?
Mi sembra che ciò accada allorché una certa pratica, non essendo inscritta nei modelli comportamentali generalmente consentiti dal quadro socio-culturale, viene recepita dalla generalità delle persone come trasgressiva, come pericolosa per il potenziale disgregante a carico del tessuto sociale e dell’individuo. In forza di tale pre-giudizio essa e le persone che ne usano, divengono suscettibili di censura più o meno subdola o conclamata, emessa dal gruppo. Alla censura segue generalmente la sanzione che pesca nella struttura sociale per entità, modalità ed eventuale durata, e che spesso trova nel soggetto stesso i meccanismi autopunitivi.
Sotto questo profilo, la parabola vitale di Sylvia Plath sarebbe la perfetta esemplificazione del demonismo artistico e della sua ovvia conclusione. Ciò che manderebbe a gambe all’aria la pretesa delle femministe a elevarla a simbolo di un problema sociale reale.
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Pensare in termini di demonismo la determinazione della Plath a seguire il suo percorso intellettuale e compositivo mi pare quanto mai fuorviante. La sua poesia invece esige una concezione moderna, critica, non mitologica, mediante la quale la parola “libera e perentoria” s’inarca verso le latebre più inquietanti e ambigue dei rapporti umani e le chiama in causa col loro nome, quale non sapevamo poterle designare e richiamare nel proscenio più impietosamente illuminato del nostro giorno.
All’opposto il ruolo pressoché faustiano attribuitole in tali notazioni, la collocherebbe in una sfera insondabile per ogni altro essere umano, le attribuirebbe una funzione solitaria, titanica, misteriosa e in fin dei conti irrazionale, autonoma rispetto alle vicende del suo e altrui quotidiano. La forza coercitiva che la indurrebbe a esplorare, come suo proprio, l’ abisso di tutti, apparirebbe come un destino immotivato che travolgendola la collocherebbe fuori da ogni punto dell’elicoide comunicativa, che lei invece attivò e percorse. Proprio tutto ciò la parola poetica della Plath respinge con forza, evitando i paludamenti e ogni appello alla patina consolatoria dei buoni sentimenti.
All’opposto, oggi sembra desiderabile una rilettura, che ricuperi alla luce l’intera vitalità poetica di Sylvia Plath, che la veda libera dall’attribuzione di demonismo, che liberi noi del cronachismo interpretativo, che prenda le distanze, diversamente da come da più parti si fa, dalla riduzione della sua dirompente verità poetica a un‘esuberanza psicologica o a un ripiegamento intimistico.
18/01/2016
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