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Raccolta di articoli di Bianca Mannu
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Osservazioni relative a “Cecità” di Josè Saramago,

Premetto che il testo in oggetto è stato fruito come audiolibro tramite la voce di Sergio Rubini  e  scelto come tema di riflessione e discussione in un gruppo di lettura.

 

"Non ho potuto né ho voluto ritornare sulla lettura per dire ciò che voi avete espresso in modo eccellente. Anche perché non ho avuto nell’immediato l’opportunità di accedere al testo stampato, che certo consente un’analisi più puntuale. Essendomi limitata ai miei appunti e alla discussione collettiva online, non ho ritenuto indispensabile riscrivere in forma di testo ciò che avevamo considerato e ribadito in molti. Avendo ieri avuto tra mano, con la posta, inviata tutti i vostri testi scritti in bella forma e stile, mi sono concessa il lusso di imparare da voi lo scioglimento dell’arcano di certi passaggi, nei quali non vi siete smarriti, ma avete illuminato anche per me  il filo della logica su cui si sviluppa la vicenda. Munita delle vostre lenti, credo di aver colto un tratto importante che forse mi era sfuggito, sciolto nella concitata sequela degli eventi finali, tesi a ricuperare quella linearità temporale e narrativa (lo scioglimento si profila rapido e quasi troppo facile) che invece la gran parte del racconto non aveva contemplato, insistendo senza sconti, invece, nella banalità orribile della prigionia e sulla più terribile rassegnazione dei prigionieri alla perdita dei più elementari comportamenti civili umani (ad esempio il mancato tentativo di gestire in modo meno ferino le deiezioni del gruppo, avendo gestito invece, sia pure in modo passivo, la sepoltura dei loro morti secondo ordini e minacce ricevute dall’esterno).

In sintesi si avverte lo sguardo impietosamente nichilista dell’Autore: fin dal principio impera un’ottusità assoluta e specularmente ripartita:  la reazione immediata ed escludente del sistema politico-amministrativo, la furia di liberarsi del problema e anzi, per indizi, la negazione stessa di ogni problema, e come corrispettivo, le mancate reazioni del gruppo, come se il  potere costituito e  le  pur incolpevoli vittime del morbo avessero rinunciato per lo stesso partito preso a interrogarsi sul perché  accadeva quel che accadeva dentro il reclusorio e, per indizi, anche fuori.

Poste così le cose, rientra nell’ordine del disordine regressivo l’ingresso dei ciechi aggressivi e il loro tentativo di trascinare a lungo l’esistenza espropriando e sodomizzando gli imbelli disgraziati della prima ora. Ma ci troviamo davanti al marciume residuale di una società capace solo di prolungare la sua agonia. Dunque degna di perire tutta o quasi. Ecco il piglio nichilista, secondo me.

Ma l’uomo e la sua storia dimostrano risorse inedite, se non altro l’ eventuale reazione di sopravvivenza, ma suffragata da un ripescaggio di razionalità che non si tira indietro neppure di fronte alla prospettiva di potere e volere rispondere con la violenza alla violenza. Ecco la piccola rivoluzione all’interno del reclusorio! Essa un po’ fa ripensare alla rivolta del ghetto di Varsavia, ma anche induce ad aspettarsi il proseguimento del conflitto col e nel fuori, di cui non è possibile valutare lo stato delle forze.

Qui Saramago allenta il suo sguardo pessimista, non solo in  omaggio al dovere narrativo di tirare le fila di una vicenda inventata, condotta tra l’intento di metaforizzare qualche aspetto della realtà storica e il desiderio di condurla all’indispensabile conclusione, magari verso l’anticipazione catartica di un nuovo inizio, il che è sempre pedagogicamente salutare, perché induce il lettore a spostarsi dall’osservazione del piano sistemico che schiaccia - nel quale e a causa del quale inizia il morbo[1] - al livello di una emergenza marginale eppure importante che prevede e valorizza l'iniziativa individuale in forme magari coraggiose , impreviste e imprevedibili.

 Quando nel reclusorio arriva il contingente degli aggressivi (il loro comportamento denuncia un peggioramento delle condizione esterne) e si sviluppa la lotta per la minimale sopravvivenza, il gruppo primario,avendo già compiuto un certo tragitto di ri-socializzazione, abbozza una leaderships femminile che trova in sé la forza di tentare il salvataggio e l’uscita del gruppo dal reclusorio seguendo l’intuizione, suffragata dall’esperienza della vedente, che il mondo da cui si era stati separati non ha più il potere di fermarli e respingerli nel reclusorio.

La sguardo nichilista dell’Autore sembra trovare conferma nella descrizione dell’assoluta decadenza fisica e  dello stato di anomia del mondo che nella memoria dei reclusi avrebbe conservato  lo stato pre-epidemico. Invece nulla di ciò che  costituiva la condizione civile è salvo. Neppure la sepoltura dei morti, indizio ancestrale dell’ingresso umano nel civile, trova cittadinanza. Persino le icone religiose sono state uguagliate con aggiunte posticce alla condizione della cecità generale. E ciò è vissuto come massimo orrore dalla moglie del medico e poi dal pubblico che affolla la chiesa e che reagisce al diffondersi dell’informazione sullo stato delle immagini sacre.  L’orrore e la paura superstiziosa provocano la corsa cieca e vertiginosa della folla  verso l’uscita: è la totale sanzione dell’orrore e della totale abiezione. E’ evidente la perdita generalizzata del senso religioso, mentre resta evidente lo spirito superstizioso. Il gruppo primario sembra accettare “la morte di Dio”, cioè il Suo silenzio e l’aver rinunciato alla possibilità di vedere il mondo ferito. Per contro il mondo ferito fugge da quello stesso Dio.

A questo punto ti aspetteresti di assistere alla depressione del gruppo primario a petto di   quella più ampia della città e dei sopravvissuti sbandati. Invece il gruppo rinsalda la coesione, soffre la fame, ma la tacita con il nutrimento mentale offerto dalla lettura condivisa. Qualcosa di elevato del mondo di prima trapassa nella pratica di vita del gruppo che riesce a sperare e a progettare un ritorno all’agricoltura naturale. Ed è in un contesto di pacifica condivisone che la vista viene riguadagnata non solo dal gruppo, ma dai sopravvissuti dell’intera città.

Qui il procedimento favolistico e magico si prende la scena e risulta a mio modo di vedere razionalmente meno giustificato rispetto alla crudezza con cui tutta la situazione è rappresentata: in modo così particolareggiato e truce da risultare specchio fedele di certe nostre crude realtà, vissute e  presenti nel nostro quotidiano  senza che riusciamo a vederle, cioè ad avere cognizione e immaginazione dei loro addentellati e rinforzi perversi.

Certo, Saramago rinuncia sul piano narrativo all’idea di una rivoluzione olistica di massa che, come la storia insegna, reintroduce i germi di ciò che vuole contestare. La rinascita, dubbia e faticosa, non è da romanzo ed è fra le disponibilità difficili e sempre ambigue di una parte di umanità che si prende il tempo per maturare e confrontarsi raccogliendo il fiore del pensiero umano e delle pratiche bianche di cura e sostegno, nelle forme discorsive e a-dogmatiche dello scambio sociale."

Bianca Mannu



[1] (Nello sviluppo della storia il morbo si rivela come incapacità degli individui a prendere adeguata consapevolezza di sé e del mondo, al punto da perdere persino il senso dell’orientamento fisico, tranne che per la vedente moglie dell’oculista che fa da trait-d’union tra le due incommensurabili condizioni fisiche e relazionali di vedenti civilmente socializzati e non vedenti reclusi, del gruppo affiatato.)  


Id: 2738 Data: 10/01/2021 20:50:22

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- Letteratura

Su Guido Gozzano

Quando un uomo nasce alla poesia, non sceglie il suo contesto di riferimento, cioè quel bagno culturale che gli snob della lingua inglese chiamano background.

Guido Gozzano articola i suoi primi versi in un contesto, appunto, in cui il poeta ideale è condensatore e amplificatore di atteggiamenti e valori che l’alta cultura di quel certo spazio/tempo ha fatto suoi e indica come modelli da inverare. La cultura imperante tra fine ‘800 e inizio ‘900 è quella del nazionalismo italico che vorrebbe celebrare i suoi fasti nel mondo. Ma l’Italia reale del dopo Risorgimento (crisi economica, pauperismo, analfabetismo, banditismo, tensioni e rivolte sociali, anche per il modo con cui l’unificazione era avvenuta e si stava confermando), non somiglia all’Italia ideale che i sacerdoti dell’Olimpo intellettuale italiano continuano a  sognare e a pretendere di indicare come un “dover essere” cui le masse dei cittadini sudditi devono corrispondere. L’alta cultura ha assunto un atteggiamento autoritario e paternalistico oltre che repressivo e si smarca rispetto al compito storico di elaborare corretti canali di raccordo tra governanti e governati, tra colti e incolti, tra ricchi e poveri. Sul piano letterario s’è imposto il superomismo dannunziano che concepisce il poeta come vessillifero e sacerdote dei valori dominanti, in quanto incarna, nella parola come nel gesto (poeta-vate; poeta-soldato), il presagio di superlativi, ma fumosi ed ambigui destini nazionali. Inseguendo questa e altre meno innocenti chimere, ciecamente, le classi di potere (economico, politico e culturale) avviano l’Europa e il mondo  alla Prima Guerra Mondiale

Gozzano sottrae la propria attività letteraria a tale compito, non in virtù di un’ideologia alternativa che rappresenti le istanze dei subordinati e degli oppressi. Ciò che sarebbe ancora un accettare il modello dannunziano di segno rovesciato, posto al servizio di classi e categorie sociali antagoniste, per le quali, peraltro, il pensiero letterario gozzaniano non prevede alcuna cittadinanza.

L’ideale del poeta Gozzano era il supremo godimento estetico e intellettuale dell’uomo di lettere, sottratto al meretricio ideale e/o reale della propria parola. Oggi noi chiameremmo “disimpegno dell’intellettuale” il suo ritrarsi nella sfera della propria individualità, tuttavia socialmente privilegiata. Nella poesia L’altro egli sostiene di essere, costituzionalmente e per casuale sorte, inadeguato a un “servizio” sia pure ideale. Col tono scanzonato di colui che si professa ateo e nihilista, sostiene  che, se un dio l’ avesse voluto, Guido avrebbe pure cantato la fede, posto che l’avversione per l’odore dell’incenso gliel’avesse consentito. Ma se lo stesso dio l’avesse fatto dannunziano, invece che un beota genuino e innocuo, avrebbe prodotto un vero mostro pericoloso. E ancora il poeta  Guido insiste più o meno così: dato che sono pieno di guai e malanni, che il dio conservi per la mia gioia, almeno questo mio stile un po’ plebeo (rispetto a quello di D’Annunzio) e conservi l’altro Guido, il mio me fanciullo che mi dà dolcezza e letizia. Per continuare  ad averlo faccio tranquillamente a meno dell’immensa  gloria che mi deriverebbe dalla scrittura delle più eccelse opere di D’Annunzio. Io, per mia condizione psico-fisica e sociale, sono uno che guarda e prende gusto a significare al mio me fanciullo ciò che si dice mondo e ciò che si dice vita. E sono convinto che questo sia già tanto.

Così in molte sue composizioni, peraltro tecnicamente innovative e perfette nell’eleganza dello stile, sviluppa giocosamente il concetto che il morir giovani senza subire l’oltraggio della vecchiaia è una vera fortuna; e in altri componimenti si effonde in lodi per la “Signora vestita di nulla” che “Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma”.

Il così detto disimpegno gozzaniano ci porta, per sua lirica interposizione  e guida, a scoprire nel chiuso delle case signorili e borghesi il sentore pretenzioso e stantio di una umanità molle e sazia del suo destino mediocre, creduto intramontabile. Nel suo limbo curato, tra piccinerie  spirituali e agi che sembrano e sono spacciati per spontaneo frutto di natura (e non lo sono),  circola una beneducata ipocrisia dei sentimenti, un’inerzia che sconfina nell’indifferenza, nel non voler sapere ciò che si è dietro o sotto questa curata superficie. O comunque, Gozzano riserva a sé questa consapevolezza, questo guardare e guardarsi con elegante distacco, anche impegnato a ricavare gioie estetiche e sessuali dalla frequentazione di avvenenti cameriere che non si aspettano proposte e legami di sentimento.

Nell’universo gozzaniano ci s’imbeve quietamente di una raffinazione della bellezza, già redenta  o distante da ogni sua commistione con la rozzezza e il sudore della fatica. Si sta distanti da ogni pericoloso coinvolgimento coscienziale col mondo di fuori – quello invisibile delle baraccopoli periferiche, degli opifici, delle miniere, delle campagne infeudate. Di tutto ciò si percepisce l’elisione solo per una ben dissimulata tensione a evitarne, ancor prima che il contatto, il richiamo nominale. Semplicemente assente. Anche l’amore, o meglio l’erotismo praticato nel terso perimetro della lindura ottenuta per procura (cameriere, fantesche, già in qualche modo avvezzate ai gusti padronali e perciò fruibili come donne di piacere)  sembra tuttavia avere lo stesso calore e colore innaturale della febbricola  da batterio.

Il batterio! Ecco l’incrocio inquietante col mondo altro e con la morte. La morte, invece che astrattamente costitutiva, diviene elemento immanente e incombente nella poetica e nella quotidianità del poeta Gozzano. Le piccole terse e squisite inezie, di cui è intessuta anche la sua vita, peraltro  esente da ogni degradante fatica e agiata, si rivelano però non apotropaiche. Non si dà differimento al morire sia pure fra arabeschi di tendaggi e baluginante eleganza di versi. Dunque è della stessa vita il fluire precario, il mancare di scopo, l’essere priva di un senso che sopravanzi e sopravviva all’inarrestabile degrado dei corpi. Allora tanto vale che ci si dedichi a ricavare la maggior dolcezza possibile all’assenza di preoccupazioni  e quelle attività gratuite e raffinate che danno godimento allo spirito (letteratura e poesia), senza altro scopo che non sia il viverle e vedersi momentaneamente rispecchiati e moltiplicati nel loro prezioso decoro. Esse sono il solo dolce estraibile dal suo (di Guido) e nostro inarrestabile andare  incontro alla dissoluzione.

 Bianca Mannu


Id: 2086 Data: 23/02/2018 12:40:25

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- Letteratura

Sylvia Plath: disperato amore di vivere

Cinquant’anni or sono la notizia del suicidio di una giovanissima e graziosa poetessa americana deflagrò su riviste e quotidiani americani ed europei. Molti particolari inerenti il fatto furono riportati dalle cronache insieme ad episodi, fino ad allora ignoti, riguardanti l’origine del suo disagio personale e il suo ricorrente e malcompreso “male di vivere”. Ben poca attenzione riservò il gran pubblico alle sue opere, mentre il pubblico colto e letterato, specialmente anglofono, cominciò ad avvertire la dirompente “libertà” e “perentorietà” della sua poesia. Forse, più che il “male di vivere”, è stato il “disperato amore di vivere”, secondo Giovanni Giudici, a determinare il corto circuito della sua fine. Quello stesso disperato amore di vivere legò al medesimo destino la poetessa italiana Amelia Rosselli, che della Plath  tradusse le opere poetiche e che morì suicida 33 anni dopo alla stessa data. Così altre artiste contemporanee

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Mi chiedo: perché i radi ingressi delle donne nel mondo dell’arte e delle professioni artistiche destinate al pubblico si connotano come passaggi pericolosi, al limite della tragedia e del lutto? C’è chi ha colto l’insistenza di tali accadimenti nel mondo contemporaneo evoluto. Ci sarà più di una ragione sottostante?  

Credo di sì, e penso che quanto accennato ha a che fare con il disegno sociale globale che, da un lato prefigura una cornice giuridica su cui fondare e sostenere la progressiva emancipazione delle diverse figure sociali dall’assoggettamento al patriarca e al territorio, dall’altro lato, e contradditoriamente, ripropone in forme elusive e ambivalenti la ghetizzazione delle minoranze e a una sorte molto problematica la componente maggioritaria  femminile, il controllo (denegato) della quale appare strutturalmente necessario all’economico prodursi e riprodursi della società in generale, secondo equilibri il cui bilanciamento deve garantire ai poteri in essere, marcatamente maschili, la centrale continuità.

E allora mi viene spontanea un’ulteriore domanda: esiste una relazione tra gli effetti sociali pervasivi e ghettizzanti esperiti e trasposti nei suoi versi dalla Plath e le strozzature, le distorsioni affaticanti che punteggiano l’ingresso malsicuro e il periglioso percorso femminile nel mondo del lavoro, in generale, e la relativa sottovalutazione del suo valore economico rispetto a quello maschile?  Secondo me, sì. E sullo sfondo della parola poetica emerge una scoperta che raramente ha conosciuto onori letterari:  una stessa logica elusiva e avida presiede a che l’uguaglianza giuridica formale non possa divenire effettuale, per ragioni dette misteriose, ma che in molti sappiamo inerenti la salvaguardia della preminenza politica e ideologica del gruppo ali potere.

La scrittura poetica e narrativa di Sylvia Plath, infatti, pur senza mai cadere nel sociologismo, riversa in una tensione linguisticamente algida, e senza dispersioni di autocompatimento o consolazione, gli effetti paradossali dei modelli sociali, di cui non ci si può disfare come “un di fuori” assurdo. I modelli dominanti formano corpo con la vita personale,  animano drammaticamente la sensibilità, il senso etico e la stessa razionalità, che dentro noi donne sono motivo di interni obblighi, di bisogni emergenti e irrisolvibili conflitti .

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Il suicidio, il suo modo e le circostanze, il livello intellettuale e sociale della persona portarono alla ribalta quelle contraddizioni e resero  inevitabile inscrivere Sylvia Plath, post mortem, a simbolo del risveglio critico femminile nel mondo e poi del femminismo militante degli anni ’70-80 in Occidente. Il femminismo infatti nasce colto e con difficoltà coinvolge il proletariato femminile. Anzi, com’è noto, i rappresentanti della cultura operaia hanno considerato il movimento femminista come portato dell’’ideologia di certi settori della borghesia femminile, più interessata a pareggiare i conti con l’omologo settore maschile sotto il profilo economico, professionale, culturale, nell’ambito della sostanziale persistenza dei modelli operanti, piuttosto che movimento politico ideologico votato a  sovvertire l’ordine sociale esistente .

 Il femminismo del secolo scorso ha trovato forse riferimenti immediati e “politicamente” più efficaci nella rievocazione delle  vicende personali della poetessa (e di altre figure), desunte dai diari e dalle opere di narrativa, cioè dal vissuto, più che dalla considerazione delle sue opere poetiche.

Lei, intelligente, ambiziosa perché colta e dotata di talento, sensibilissima e determinata, capace di forte rigore autocritico, riferì il senso acre della fatica solitaria a comprovare il possesso di speciali idoneità per iniziare un percorso intellettuale allora non comune per le donne; certamente parlò della sua solitudine umana e sociale in una metropoli organizzata secondo un orologio competitivo attivato in condizioni impari mascherate. Non hai supporti economici? Acquisisci meriti incontestabili: devi provare che hai talento, magari genio!Devi abbattere gli imbattibili primati semplicemente per esistere agli occhi altrui e specialmente agli occhi del maschio competitore.

Il mito della società americana, apparentemente la più aperta, la più giovane e costitutivamente libera dagli schemi medievali, vacilla di fronte alle rivelazioni degli impatti personali al pubblico: qualche “femme savante” non ci sta a rafforzare la tesi secondo cui il Q. I. femminile è, come quello dei neri, per natura più basso. Sì, anche là, negli States, “l’intellighentzia”,organizzata in casematte e rituali maschili e maschilisti, è protesa  a selezionare gli ingressi alla riserva, a sorvegliare che l’avida corsa dei suoi prescritti sacerdoti occupi le tribune più elette; anche là si persuadono le donne a farsi piuttosto accolite e oggetto di deprimenti venerazioni, così da poterle confinare in ruoli  sociali recessivi ed eterodiretti.

 Sylvia Plath, ma non solo lei, si fa specchio della sua esistenza difficile e ci restituisce queste immagini discriminanti del suo mondo. Noi,  con qualche anno di ritardo, scopriamo che quel suo specchio parla anche di noi, della nostra granitica subalternità rispetto a un patrircato ottuso e feroce, ma presto (e purtroppo per un solo breve tratto di tempo) ridotto alla difensiva.

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Sylvia Plath dà spessore simbolico e dimensione pubblica alla concreta condizione restrittiva data e al suo limitante orizzonte: il privato, in cui riposa tanta parte del senso della vita femminile, ma che diventa carcere quando la società intera pretende di confinarvi tutto l’universo personale di ogni donna. Con altrettanta potenza espressiva S. Plath contesta la riduzione della persona a una sola dimensione, prefigura altre possibili e autentiche declinazioni della vita: niente o/o, piuttosto forse questo e forse anche quello. In Verticalesembra dirci così “Ciò che difficilmente accetterò è di corrispondere perfettamente al modello imposto: cioè essere un curioso vegetale: vivente e verticale come un albero che assorbendo minerali li trasformasse in amore materno.”

La metafora botanica si presta a connotare gli individui verticali, quelli che corrispondono per longevità e audace bellezza al dettato esistenziale richiesto.

E continua:”Passare in mezzo a loro (enti rampanti e praticamente immortali o di imponente e breve visibilità, come sono i fiori) è accettare di essere irrilevante, pessoché inesistente. E però ci si aspetta che io, riconoscendo la mia inadeguatezza sostanziale, sottoscriva la mia incondizionata oblazione all’utile ruolo di vegetale responsivo. E allora penso che il modo più perfetto di assomigliare loro, a quelli per i quali non conto, sia di giacere supina e dormire coi miei pensieri divenuti nebbia, anticipando il momento in cui, supina per sempre, alberi e fiori «avranno tempo» per (=tramite) me, loro alimento”. (Buona come concime, si direbbe oggi!)

…………

Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me. 

Oggi il valore poetico e letterario di Silvia Plath risulta forse più evidente, non parendo riducibile alle sue, pur  drammatiche, vicende personali. La forza dei suoi versi, invece di esaurirsi in quelle, acquista più profonda risonanza, non solo perché diventa rappresentativa di una problematica mondiale -  fil rouge che ha principiato a collegare ogni donna a tutte le altre nel mondo - ma perché inequivocabilmente il suo discorso sembra scavalcare il conflitto  grettamente competitivo tra uomo e donna, interno a un settore sociale di un determinato paese. Lei   scopre o riscopre poeticamente la dimensione universale  della così detta questione femminile, indicando nelle categorie  logiche e storico-culturali i luoghi in cui si annidano, incomprese nella loro levigatezza statuaria,  le ragioni delle segregazioni  e del “perfetto” compimento finale….  

 Limite

La donna ora è perfetta/Il suo corpo

morto ha il sorriso della compiutezza,/l'illusione di una necessità greca

fluisce nei volumi della sua toga,…

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Tuttavia, ancora oggi nelle attuali note di stampa si avverte ancora il prevalere di un’attenzione fissata con forza sull’elemento cronachistico: la sua malattia nervosa come dato e non come risultato, la sua difficoltà a reggere i ritmi frenetici del modello sociale americano e londinese, il suo disagio a dover sostenere con assoluta prelazione l’incombenza dei sopraggiunti compiti materni e maritali così da stringere in mora ogni altra sua esigenza realizzativa…

Ancora una volta, nel 2016,  lei è volta a simbolo, ma di un femminismo italiano sfibrato, privo di incisività e ancora gravemente diviso sulle questioni dei diritti civili, incapace di concepire i nessi generali del problema.

E a proposito della lotta durissima sostenuta e poeticamente significata da S. Plath, diversi commentatori odierni delle sue opere fanno espresso riferimento all’incalzare “demoniaco” della poesia nella vita della poetessa. Con ciò stesso sembra essere riproposta  la connotazione “maledetta” del poetare e dell’arte in genere. Ripescaggio di una visione  rétro, che pencola verso una concezione vaticinante, più prossima a un’idea romantica e  sciamanica dell’arte, mediante la quale il poeta assumerebbe su di sé la negatività del mondo e la sua propria, in virtù di una sensibilità non dominabile e in effetti aliena rispetto ai denotati materiali, alla loro conoscibilità e alla loro incidenza nella dimensione interumana concreta.

E allora ancora domando: da dove scaturisce, come nasce l’accezione demoniaca che connota e accompagna un comportamento o una pratica? O meglio, quand’è che una pratica diventa “demoniaca” per un gruppo sociale e persino distruttiva per chi la espleta?

Mi sembra che ciò accada allorché una certa pratica, non essendo inscritta nei modelli comportamentali generalmente consentiti dal quadro socio-culturale, viene recepita dalla generalità delle persone come trasgressiva, come pericolosa per il potenziale disgregante a carico del tessuto sociale e dell’individuo. In forza di tale pre-giudizio essa e  le persone che ne usano, divengono  suscettibili di censura più o meno subdola o conclamata, emessa dal gruppo. Alla censura segue generalmente la sanzione che pesca nella struttura sociale per entità, modalità ed eventuale durata, e che spesso trova nel soggetto stesso i meccanismi autopunitivi.

Sotto questo profilo, la parabola vitale di Sylvia Plath sarebbe la perfetta esemplificazione del demonismo artistico e della sua ovvia conclusione.  Ciò che manderebbe a gambe all’aria la pretesa delle femministe a elevarla a simbolo di un problema sociale reale.

OOO

Pensare in termini di demonismo la determinazione della Plath a seguire il suo percorso intellettuale e compositivo mi pare quanto mai fuorviante. La sua poesia invece esige una concezione moderna, critica, non mitologica, mediante la quale la parola “libera e perentoria” s’inarca verso le latebre più  inquietanti e ambigue dei rapporti umani e le chiama in causa col loro nome, quale non sapevamo poterle designare e richiamare nel proscenio più impietosamente illuminato del nostro giorno.

All’opposto il ruolo pressoché faustiano attribuitole in tali notazioni, la collocherebbe in una sfera  insondabile per ogni altro essere umano, le attribuirebbe una funzione  solitaria, titanica, misteriosa e in fin dei conti irrazionale, autonoma rispetto alle vicende del suo e altrui quotidiano. La forza coercitiva che la indurrebbe a esplorare, come suo proprio, l’ abisso di tutti, apparirebbe  come un destino immotivato che travolgendola la collocherebbe fuori da ogni punto dell’elicoide comunicativa, che lei invece attivò e percorse.  Proprio tutto ciò la parola poetica della  Plath respinge con forza, evitando i paludamenti e ogni appello alla patina consolatoria dei buoni sentimenti.

All’opposto, oggi sembra desiderabile una rilettura, che ricuperi alla luce l’intera vitalità poetica di Sylvia Plath, che la veda libera dall’attribuzione di demonismo, che liberi noi del cronachismo interpretativo, che prenda le distanze,  diversamente da come da più parti si fa, dalla  riduzione della sua dirompente verità poetica a un‘esuberanza psicologica o a un ripiegamento intimistico.

 

 

18/01/2016


Id: 1626 Data: 19/01/2016 21:01:50

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- Letteratura

Scrittura al femminile?

Scrittura al femminile?

La scrittura, poetica o no,  così come altre pratiche di espressione comunicazione, sono luoghi di rappresentazione dialettica delle istanze del sé, quelle autentiche e quelle spurie, palestre del confronto e dell’ autoconoscenza, luoghi di libertà.

Perciò  fu impedito alle donne di accedervi, indicando l’incapacità presunta come costitutiva.

Sono convinta che il poeta anche quando scrive sotto l’ispirazione di un tema molto sentito e vissuto, sia in qualche modo “parlato” dalla sua cultura fondamentale, dalla semantica profonda, piuttosto inconsapevole, quasi subisca certe concatenazioni verbali, sia controllato, a propria distrazione o insaputa, dai suoi bioritmi, dalle sue predilezioni sonore ancestrali nelle scelte lessicali. Forse questo vale non in assoluto, ma per me, sì.

Il mondo come è stato e così com’è ancora, costruisce il ventaglio di possibilità entro cui si fondano le psicologie individuali, imponendo alle risorse vitali individuali delle vere e proprie torsioni. E’ noto e assodato che il genere femmina ha subito la massima e millenaria pressione e che la casuale eccezione – trasgressione tollerata – ha  a più riprese fatto emergere il disagio.

Insisto sul problema delle torsioni alle psicologie individuali. Sono tali da rendere irrilevante anche la reciprocità delle relazioni amorose, tali da scaldare e rinsaldare il senso del dominio di un individuo sull’altro, spingendo la complementarità reciproca alla condizione di perenne dominio/subordinazione del femminile sotto il maschile,  come prosecuzione di una mitica condizione “di natura”. Quindi un’apparenza fenomenica culturalmente prodotta  è presa come dato assoluto;  ciò che esclude persino la possibilità di concepire dinamismi e trasformazioni , mentre imbriglia tensioni e giustifica repressioni.. 

L’emersione del disagio e la presa di coscienza del femminile sotto la pressione esercitata da tale sistema è iniziata, come si sa, collateralmente ad altre trasformazioni: basti guardare all’Illuminismo e ai temi giuridico/politici e sociali coinvolti e agitati nel clima rivoluzionario del tardo settecento; e ancora continua passando per il corpo femminile vivente, scosso e spesso dilacerato tra ubbidiente sacralità e profanità trasgressiva, tra ritegno e oscenità, come se il vivere la propria intimità fosse un dover corrispondere a istanze concepite in misteriosi altrove viepiù discutibili e discussi. Si fa strada, lunga strada, l’esigenza che ogni donna si pensi criticamente, non solo in relazione a vecchi e nuovi modelli di genere, per i quali le urge mettere del proprio, ma si viva e si concepisca come soggettività in progressiva autonomia, e decida sul campo, tanto in quello delle relazioni pubbliche quanto in quello delle private, i suoi ruoli e le sue opzioni, pagandone i costi e sapendo di farlo.

 

 


Id: 1012 Data: 09/03/2014 12:22:08

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- Politica

Logica del concreto e dell’astratto

Avendo pubblicato recentemente l'ultima mia poesia intitolata Democrazia e avendo felicemente ricevuto, a causa sua, diversi commenti anche sui suoi contenuti e riferimenti ideali, mi sono concessa il piacere e il lusso di scrivere un testo che descriva, dopo e oltre l'emozione linguistico espressiva consegnata a quei versi, una mia attualissima preoccupazione. Ho ritenuto di doverla esplicitare per intero, sia pure con delle semplificazioni obbligate dalla mia poca dottrina e dallo spazio/tempo, debitamente autolimitato, per non risultare troppo noiosa e inopportuna agli eventuali lettori.

La logica delconcreto e dell’astratto

E’ stato Marx sulle vie tracciate da Hegel a porsi teoricamente ilproblema della differenza tra la logica del concreto e quella dell’astratto.

E noi dovremmo far tesoro di quelle lezioni, le quali non sono dogmi o false immagini, ma attrezzi e strumenti concettuali per capire meglio i meccanismi della realtà in cui siamo immersi e che, per ciò stesso, è così difficile da concepire e decodificare. Intanto democrazia significa, com’ènoto, potere del popolo. Il suo nucleo storico originario ebbe come laboratorio la città di Atene tra il V e il IV sec. a.C.

Democrazia è senz’altro un concetto prodotto dalla mente umana (i Sofisti, Socrate …). Ma non era pura invenzione dell’immaginario, pura elucubrazione; era un prodotto del pensiero conoscitivo del tempo, adeguato a indicare e a rendere logicamente esplicabile un fenomeno molto concreto e già in pieno svolgimento: la lotta tra la vecchia classe di potere e la <borghesia> ateniese. Questa, avendo dinamizzato produzione e traffici e avendo preso coscienza del proprio ruolo e peso economico, introduceva forti elementi destabilizzanti (si era intellettualmente preparata a questo fine) nella concezione sacrale e assoluta delle origini e del potere aristocratico, richiedendo una nuova fondazione etico/politica e istituzionale della società, a partire dall’analisi degli elementi costitutivi della condizione umana (egoismo individuale e soggettività) sottoponibili al gioco dialettico delle analisi e delle argomentazioni, da cui poteva sortire il processo di progressivo accostamento al miglior bene per il maggior numero, posto come una finalità che si realizza gradualmente e si chiude asintoticamente all’infinito. Nella realtà dei fatti, il popolo che poteva e ha potuto, in qualche luogo e per breve tempo, contare politicamente, era molto ristretto rispetto alla popolazione dei governati, in quanto il diritto politico era ed è rimasto a lungo legato al censo.

Ma tutto ciò è probabilmente noto a molti, ed è indifferente tantorispetto a coloro che sostengono che la democrazia è un bene assoluto, quantorispetto a coloro che sostengono sia una trappola con cui il potere politico,da chiunque esercitato, si giustifica come proveniente dal popolo e su quest’ultimoscarica le responsabilità più gravi e spiacevoli esercitate in suo nome.

Ci sono voluti duemila anni di autoritarismo, schiavismo e varie condizioni di asservimento prima che il concetto venisse ripreso e rielaborato entro vere e proprie teorie sociologiche e politiche moderne nel Secolo dei Lumi. E si devono alla Rivoluzione Francese del 1789 i primi tentativi, anche molto sanguinosi, di realizzazione pratica, tanto di alcune forme circoscritte di democrazia diretta, quanto di  quelle forme,  estensibili a paesi vasti e popolosi, dette di democrazia rappresentativa.

Ma il valore o l’utilità o il successo storico e sociale dei regimi democratici non risiede tanto nelle forme adottate, quanto nella relazione storicamente concreta tra la forma politica e le altre strutture dinamiche che  compongono e organizzano il meccanismo sociale.

E’ stato K. Marx a liquidare teoricamente le pretese limitazioni di censo rispetto alla sua concezione del diritto sociale e universalmente personale di esercitare il potere politico, nelle forme che si presentano come necessarie e adeguate alla specificità con la quale, sia sotto la pressione dell’emergenza che in situazioni meno drastiche, vengono  ripristinate quelle classiche o elaborate forme nuove.

Il cittadino, poniamo, di Rousseau o di Montesquieu, è il cittadino astratto, giusnaturalistico, ossia ridotto alla scarnificazione giuridica che lo pone come uomo senza qualità economiche rispetto ad altri uomini, quindi lo eguaglia a prescindere, in natura, salvo poi a presentargli il conto dello scotto quando nella prassi sociale sperimenterà che quell’uguaglianza giuridica non avrà gli stessi effetti per altri suoi simili, titolari di risorse di cui egli è inspiegabilmente deprivato.

Il cittadino marxiano è tenuto a sapere che la sua condizione di cittadino dipende in larga misura, non dalla sua natura di uomo, ma dal ruolo che il meccanismo sociale in atto lo chiama a ricoprire, senza che egli possa scegliere. Per lui la condizione sarà quella di chi si scopre possessore dei mezzi per produrre e riprodurre la propria esistenza e quella dei suoi familiari e quindi contare su un potere di contrattazione nel mercato delle merci (nel caso che sia produttore agricolo o artigiano) o in quello delle braccia (qui egli potrebbe acquistare forza di braccia  per far meglio fruttare i suoi mezzi, per esempio, terreni, bestiame, telai, fornaci…) Per molti altri, pure come lui umani, si profila la situazione in cui si prende atto di non possedere se non la propria forza di lavoro e che, rivestiti solo di essa, non solo ciascuno ha vita grama e breve, ma che nel mercato delle braccia o di altra specifica forza di lavoro, il peso individuale è molto vicino allo zero, dato che alla sua stessa condizione appartiene una moltitudine di umani, incalzata come lui dal bisogno di vendere in qualche modo la forza di lavoro, precariamente posseduta,  per poter continuare a mantenersi in piedi.

In queste condizioni, non sarà la forza giuridica, giusnaturalisticamente o contrattualsocilisticamente intesa, a calibrare la sua possibilità di far valere il suo peso nella progettazione delle dinamiche sociopolitiche, ma la sua capacità di associare il suo peso infinitesimo ad altri pesi come il suo, di modo che la bilancia del mercato, fortemente controllata dal peso del capitale, possa subire i controbilanciamenti  del peso unificato delle forze di lavoro. Ciò significa che l’operaio collettivo deve scoprire la sua vocazione democratica, ossia la fondamentale eguaglianza di condizionie dei suoi componenti sotto il capitale. E gli occorre capire bene la dinamica oggettiva che gli soprassiede e intravedere le sue possibilità di trasformare la debolezza individuale in forza di contrattazione collettiva; tale che questa si possa poi tradurre in leggi di distribuzione dei redditi e dei servizi, in regole per la protezione e lo sviluppo storicamente possibile delle sue condizioni di esistenza e di lavoro, in un ambiente possibilmente salvaguardato, in modo tale che si assicuri all’intero gruppo sociale il giusto ricambio nella gestione economica e nell’esercizio del potere politico, nonché si assicuri e si faciliti l’accesso di tutti, in ragione delle difficoltà di base, all’educazione e allo sviluppo intellettuale, specialmente della popolazione in età evolutiva.  Chiaramente in contestidi questo genere non vi è spazio per discriminazioni e pregiudizi per questioni di pelle, di lingue, di origini native. Non c’è posto per una democrazia blindata che pretenda di spostare l’ultimo arrivato un po’ più in là, sotto l’agire persuasivo delle gendarmerie o dei pogrom<spontanei>.

Perciò, attenzione, la formalità giuridica astratta non è però un orpello inutile: è un presupposto, una garanzia formale (la forma è anche un po’ sostanza) è un valore che preforma un clima, un bagno culturale, nel quale si comincia a vivere, a concepire e a distinguere gli aspetti della realtà circostante.  E perché la norma astratta diventi condizione operante di vita, occorre vigilare coloro che hanno poteri e compiti o ruoli delicati; occorre che l’uomo/donna lavoratore non deleghi ciò che è inderogabilmente di propria pertinenza, non si risparmi mai la fatica di pensare e di informarsi, di esercitare il giudizio,  l’autocontrollo e la dialettica  interpersonale e che, sulle base di tali atteggiamenti, disarmi i troppo interessati del momentaneo potere a brandire una malintesa idea di democrazia, come fosse uno strumento di proprietà personale o di classe e un’arma contro, a danno di coloro che più di tutti hanno buone ragioni per difenderla ed emanciparla da ghiotti infeudamenti.

 

 

 



Id: 431 Data: 19/12/2011 01:39:53

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- Letteratura

Un salto da Marcel

Marcel Proust! Niente si può raccontare oggi, senza averlo almeno un po' accolto, insieme con D'Annunzio, Svevo..., dentro la nostra ambita intelligenza e coscienza  letteraria. A molti lettori impazienti, innamorati della velocità cinematografica, Proust risulta noioso e ampolloso, oltre che snob. Snob lo era; anche D'Annunzio. Ma Proust, come nessun altro, è capace di sezionare la presunta compattezza e linearità dell'evento narrativo per rivelarne invece i sottili meccanismi soggettivi, i nodi che il soggetto narrante ha voluto e dovuto intrecciare con le altrettanto sfaccettate soggettività, per renderle, mediante la lente della sua straordinaria sensibilità e finezza linguistica, miracolosamente  vive; e intanto, con gli stessi mezzi, mantenere la tensione dell'ordito e riconsegnarne al lettore l'effetto oggettivo della trama, ma ricca e vibrante delle pulsazioni e tensioni temporali dell'io o degli io narranti proustiani nei diversi segmenti  temporali della ricerca, della loro apparente eclissi, del reperimento e della nuova inclusione nei palinsesti finali. Sempre che si possa dire <finale >per alcunché continui a esibire nell'Opera il suo vitale fremito. 

Id: 377 Data: 10/08/2011 19:11:12

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- Letteratura

Suggerimento

Suggerimento: leggere o rileggere brani del <Mistero buffo>di D. Fo

Scritto per un gruppetto di amici che aveva scelto la non facile strada di proporre e condividere buone letture. Essendo giunti nel bel mezzo del mese di febbraio, non si poteva fare a meno di prestare qualche attenzione al Carnevale, proprio per i molteplici aspetti culturali che esso può richiamare.

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Il Carnevale, dunque.

Avendo perso la sua carica dirompente, il Carnevale sembra oggi risolversi in una “banale”, anche quando voglia satireggiare, e planetaria competizione fra industrie di prodotti di consumo, da quelle che immettono sul mercato materiale cartaceo per maschere addobbi e festeggiamenti, a quelle che realizzano effigi e allegorie semoventi, a quelle che producono costumi e accessori, e ancora a quelle che organizzano pubblici divertimenti o anche soggiorni turistici.

Certo sarebbe molto interessante studiare sotto il profilo economico questo specifico settore del mercato e il suo retroterra lavorativo. E anche su quali propensioni culturali faccia leva, al presente, una così notevole mole di consumi.

Però, assai più modestamente, del Carnevale si può assaporare qualcuno

degli effetti comici del suo antico impeto eversivo. Nessuno, al pari di Fo,

anche amputato della sua straordinaria fisicità interpretativa, poteva regalarci questo piacere.

Si può rendere domestica la mia ricetta difficile, utilizzando – se disponibile e in regime di amicale condivisione – un amico padano, non troppo cattivo lettore, e far le orecchie all’immagine acustica di Fo, gelosamente conservata nella memoria, sorvolando a piè pari lo sciupio delle tante parate “a vendere” e  mobilitando le energie in direzione del senso autentico  della buffonata e del riso custoditi nei brani del “Mistero buffo”.

A questo punto mi sembra lecito pormi il seguente quesito: che relazione intercorreva tra i misteri religiosi ( cioè le rappresentazioni sacre) e gli arditi e un po’ sregolati festeggiamenti popolari che passano, dal Cristianesimo maturo in poi, sotto il nome di Carnevale?

Quest’ultimo si presenta come un’interpunzione profana dentro la liturgia sacra Cristiana. Perché?

E’ ancora Dario Fo a darci risposte chiare e accessibili.

Mistero” è il termine – dice - usato già dai greci dell’epoca arcaica, per definire culti esoterici dai quali prendevano vita le rappresentazioni di eventi sacri: misteri eleusini e dionisiaci. Il termine fu ripreso dai cristiani per indicare i propri riti fin dal III e IV sec. dopo Cristo…(….) Nel Medioevo “mistero” acquista tout court il significato di rappresentazione sacra.”

La rappresentazione sacra – così condenso io - diventa, strada facendo, anche buffa. Perché il popolo minuto trova agio in quelle occasioni di dire la sua, nel modo buffonesco e irriverente che gli è congeniale, anche per la dimensione “basso-corporea" del suo linguaggio sui fatti che lo riguardano e sui comportamenti avidi e arroganti dei potenti, siano laici o religiosi. Il popolo e i suoi giullari mascherati volta a volta da Gesù, Madonne, santi, imperatori, cortigiani, servi e zotici sviluppavano dei canovacci scenici che talora si concludevano nelle chiese “con dei finti ma realistici” processi agli intoccabili del momento.

In molte occasioni la giullarata diveniva una vera e propria contestazione di popolo nei confronti dei potenti e delle autorità esose e truffaldine. Altrettanto spesso seguivano sanzioni per i giullari troppo arditi e interdizioni dell’accesso del popolo recitante nelle chiese.

In non pochi casi, è ancora Fo a raccontare,  seguirono vere e proprie condanne capitali come quella toccata al bravissimo giullare Hans Holden. Costui, ignorando l’editto proibitorio, aveva recitato l’ubriacatura del re Davide. Perciò morì arso vivo.

Sta di fatto che le rappresentazioni popolari religiose, pescando anche in un patrimonio di credenze e tradizioni anteriori al cristianesimo (sincretismo religioso), furono ritenute pericolose per i poteri costituiti, quindi gradualmente espunte dalla liturgia religiosa voluta dai chierici e dal potere temporale. Esse si connettevano, però, con istanze umane troppo vive, tali da non poter essere semplicemente cancellate a colpi di anatemi e decreti punitivi. Si dovette in qualche modo e soltanto parzialmente tollerarne la sopravvivenza, inglobandola nel culto dei santi, ma spegnendone via via i significati più vitali

L’ebbrezza, la follia e altri sconvolgimenti dello spirito sono anche espedienti tecnici intelligenti, inventati o reinventati dalle plebi, mediante i quali l’indicibile poteva essere detto attraversando la soglia troppo difesa della coscienza asservita e dopo aver pescato nel profondo serbatoio del disconoscimento e dell’umiliazione.

Il dizionario di arte e letteratura Zanichelli, da me ancora consultato dice tra l’altro: ”Lo strumento utilizzato per attuare il processo della carnevalizzazione è fondamentalmente il linguaggio popolare e plebeo, la lingua non ufficiale, gioiosa, triviale che trasforma la paura cosmica della morte nel terrore gioioso del carnevale”.

Aggiungo, però, che la riduzione carnevalesca dei ruoli dei potenti e l’uso dei registri plebei e dissacranti del linguaggio, hanno poco o nulla a che fare – mi sembra – con la cattiva qualità degli attuali e invalsi registri della comunicazione, piuttosto miope e appiattita sui temi e  registri di certe emittenze dominanti. Mi sbaglio?

E poi, che importa se siamo già alle Ceneri?
E infine, un'altra osservazione. Quando i potenti e i capi rubano alle plebi linguaggio e senso e li riciclano per l'uso, svuotati di ogni connotazione dirompente, allora non è forse il caso che il "popolo" diventi più raffinato e avveduto e intelligente da  abbandonare nelle loro mani quell'arnese, senza servirsene, e pescarne nella propria storia e  inventiva (magari con fatica) uno migliore?
Che i giullari del popolo siano giullari alla Fo o alla Paolini!  

 



Id: 316 Data: 14/03/2011 18:32:51

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Tra istruzion e politica »
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