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La donna nella valigia

di Frank Gallo
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Pubblicato il 05/08/2012 12:10:28

LA DONNA NELLA VALIGIA

(Alla signora Anna, un racconto sui sarti)

 

Era da tutto il giorno che il sarto camminava su e giù per rue Bonaparte senza piegare il busto e senza voltare la testa neanche per guardare le vetrine delle altre sartorie. Il sarto aveva incominciato a fare quel mestiere da ragazzo nell’atelier di suo padre; all’inizio era una maniera per passare il tempo, poi era diventato qualcos’altro.

La sera in cui incominciò questa storia della donna nella valigia, il sarto aveva già una quarantina d’anni, era di media statura quando portava le scarpe giuste; in casa sua era un po’ più basso, ma siccome viveva da solo nessuno poteva conoscere la sua vera taglia.

Ogni sarto conserva segreti e magie; ci sono mestieri che esistono perché esiste la loro magia e poco più. Per esempio, chi di noi, dall’inizio alla fine di rue Bonaparte, riuscì mai a scoprire per quale ragione il sarto camminasse così dritto, come un albero maestro su un mare piatto e buono?

Quella sera nessuno lo aveva scoperto, per questo quando si fermò davanti alla nostra vetrina e ci guardò, ci interrogò cercando il nostro perdono, decidemmo di parlare con lui. Dopotutto la nostra esistenza era qualcosa di etereo, vivevamo nei suoi ricordi; eravamo perché lui voleva così. E gli chiedemmo: “Perché cammini da tutto il giorno su e giù per Bonaparte e non ti decidi a sederti e lavorare? Abbiamo bisogno di te; anche noi viviamo perché tu vivi nei nostri ricordi!”

Mie care, adorate,” ci rispose il sarto, “voi sapete che il mio peregrinare, le mie ricerche, sarebbero inutili senza il vostro benevolo sguardo, la vostra quotidiana benedizione. Oh, mie adorate!”

Quando il sarto ebbe parlato con noi, ci rendemmo conto che nei suoi occhi appuntiti regnava il riflesso di un mare senza sale. Lo guardammo con la dovuta devozione; come avremmo potuto negargli quella comprensione per il suo peregrinare! E ascoltammo il seguito di quella confessione. 

“Stamattina stavo confezionando abiti e passioni. Cucivo con la parte più buia della mia testa, era la mia mano che decideva il verso, decideva lei.”

“Ti crediamo, noi ti crediamo. È il nostro dovere, siamo nate per questo!”

I suoi occhi, i suoi occhi, in quanto racconti del genere nostro hanno cercato invano di parlare degli occhi! E in quelli del sarto non c’erano altro che secoli interi di storie finite.

Da un giorno intero, dunque, e senza ragioni troppo normali, il sarto di Bonaparte rimaneva immobile, o camminava immobile; immobile, vale a dire, senza piegare se stesso come chiunque nell’atto di camminare. Non si sedeva da un giorno intero, un’intera giornata trascorsa in una dolorosa immobilità, una condizione che il suo genere sapeva adottare durante ore di concentrazione quando il lavoro richiedeva calcoli e fantasia; all’occorrenza forse, di tanto in tanto, non sempre, e non per un giorno intero.

Restava allora da tutto il giorno in quella condizione, e quando gli chiedemmo il perché ci rispose all’incirca così, ci raccontò: – se un racconto può valere una risposta; per certi mondi sì, per altri più diffusi, no! – “Stavo cucendo degli orli ribelli, ero distrutto di fatica;” pochi capelli aveva sul capo e un’ottima lingua a quanto pare. “Come ogni sera, gli aghi che in bocca tenevo passavano uno per uno nelle mie mani. E a misura che ne prendevo, gli orli di seta e argento prendevano forma. Ogni volta che mi trovavo un ago nella mano, uno spillo con l’anima e il cervello, mi decidevo a continuare il mio lavoro, era sempre così da quando, bambino, dagli occhi del padre lo avevo imparato.

“Mancava l’ultimo spillo; nell’altra mano già non tenevo più la stoffa che, come la sua magia esigeva, era già sulla più fortunata di voi, mie amiche fedeli, mie uniche amanti. Ricordo con precisione l’istante in cui dalla testa il movimento nella mano era passato come voleva, fino alla bocca. Cercava lo spillo.”

A quel punto il buon sarto ci disse, povere noi che conoscemmo così il suo segreto: “Nella mia bocca, tra le labbra e dentro ogni dente, l’ultimo spillo non c’era più!”

Adesso, nella nostra immobilità, capivamo finalmente le ragioni della lunga giornata passata su e giù; era davvero finita così ogni speranza di vivere ancora. Senza il buon sarto che ci modellava, nulla saremmo noi diventate. Quando si accorse che tra le labbra, nei baffi, nei denti o nella più lurida delle sue bocche alcuno spillo giaceva per lui, un terrore improvviso di averlo ingoiato lo immobilizzò. Come il leone davanti al cerbiatto, il sarto non fiatò, non gridò, né pensò a molto se non all’immediata e opportuna soluzione dell’immobilità di ogni parte del suo corpo nella quale si era cacciato lo spillo ribelle. Una recondita possibilità, secondo la logica sua, era che lo spillo fosse finito per terra. Nell’atelier di un sarto quante centinaia, forse migliaia di spilli giacciono sul pavimento? Ma se lui lo avesse rivisto, l’ultimo ago della sua bocca,  quello che all’orlo mancava per sempre, forse lo avrebbe riconosciuto. Forse, chissà, chi può saperlo! Era così che decise il sarto di non abbassarsi a cercare lo spillo. Come poteva cercarlo, se piegando il corpo o la pancia poteva rischiare di farsi un buco nella gola! E se fosse finito giù nello stomaco, dove lo avremmo portato noi altre, pieno di sangue, che goccia a goccia gli avrebbe riempito la pancia e la fantasia? Cosa eravamo noi altre in fondo, se non un prodotto della sua mente? E se così non fosse poi stato, ora che l’ago era sparito, tutto era vero o ancora possibile nella sua testa immobilizzata, nella sua lingua, ovunque si fosse cacciata, e tra le nostre stoffe pregiate.

In rue Bonaparte chiedeva la gente cosa gli fosse mai accaduto. Quando il sarto con gli occhi del mondo passato gli raccontava la storia dell’ago, gli sorridevano con gravità, lo camminavano come una strada, era invisibile per quel che diceva, perché nel loro mondo si camminava e si restava immobili per tante altre ragioni, ma non per quelle che lui raccontava. 

C’erano storie nel mondo degli altri che a volte assomigliavano alla sua, ma soltanto in parte. Purtroppo per lui, non aveva ormai alcuna importanza se quella gente di Bonaparte potesse capire oppure no. Non avevano bisturi o lampade profonde; non potevano certo cercare ciò che era sparito nel corpo del sarto, il quale, di sera, tardi e per sempre, pareva restare ancora da solo e senza ricerca; e l’unica cosa che gli restava da fare era muovere almeno le gambe, che lo allontanavano e lo avvicinavano dalla soluzione del suo problema, ogni volta che saliva verso Garibaldi e ritornava giù nel porto.

A pochi passi dal porto, così, eravamo tutte qui dentro rinchiuse, non ci pareva una storia reale. Com’era possibile ingoiare o perdere qualcosa? Gli esseri umani erano strani; erano oltre ragione disumani.

“Se mi abbasso a cercarlo, potrei trovarlo. Ma se l’ho ingoiato, oh mie adorate!” Erano queste le sue parole, era tornato davanti alle stoffe pregiate, ci sentimmo un po’ nude, davvero, senza i suoi aghi che amavamo tanto. E lui, che per tutta la vita aveva fatto il sarto, adesso si fermava alle vetrine, ci guardava e ci spogliava, ci conosceva a memoria, ognuna di noi, e continuò a raccontarci: “Sotto la tavola ho una valigia…”

A quelle parole, di poca natura, forse sentimmo noi tutte l’immortalità. Era un giorno intero che quella valigia giaceva lì sotto, la fissammo con devota ammirazione e ci chiedemmo cosa vi fosse all’interno. 

Guardare il sarto fissare un immaginario orizzonte, perché non poteva girare il collo, ci inteneriva, ci faceva sentire le sue ragioni, che erano dolci e senza fine. A tratti, per la paura, evitava di parlare. Forse il tremore delle parole avrebbe stimolato lo spillo nella gola; forse lo avrebbe aiutato a trovare il cammino. Anche uno spillo, da solo e senz’osse, aveva un cammino segnato e finito, nel mondo del sarto o in quello degli altri. 

Una bicicletta di antica manifattura viveva sulla vetrina, era da ore immobile anch’essa come quell’uomo disegnato accanto a lei. E le loro anime segnate si fissarono per un attimo; erano le anime delle persone sole e delle biciclette antiche. Poco più in là, come le urla dopo la calma, o come la neve senz’acqua della mattina, passava un treno così vicino che il suo ricordo strideva ancora nelle orecchie azzittite del sarto; e nel delirio dell’immobilità il ricordo si mescolava alla ridicola realtà.

Il ricordo del treno, così vicino da sembrare reale, fu soltanto uno dei suoi pensieri distratti; il sarto usava la testa come la più sottile delle sue forbici, e nulla poteva tagliare se non in quel modo. Impiegò un tempo – per quanto importava a noi il tempo – indefinito e ricco di vuoti significativi per trovare la serratura della sottile porta dell’atelier. Poi tastò la parete con la mano e nient’altro; senza voltarsi accese la luce. L’interruttore è un oggetto per ciechi e sarti con gli aghi nella gola. Allora ci vide, ci osservò per valutare quanto gli saremmo mancate, o soltanto per gioco, e avanzò tentoni verso la tavola. Era tornato; piangevamo di gioia, senza lacrime e senz’occhi. Anche noi eravamo schiave di una lontana e irragionevole immobilità; era il nostro destino da sempre e lui lo sapeva ogni volta. 

In un cassetto chiuso a chiave il sarto conservava una chiave che apriva la credenza della sala. Nella credenza, nascosta nei bicchieri, c’era la chiave della valigia. Con la calma assoluta di chi poteva conoscere la propria morte, il sarto aprì i suoi cassetti, trovò la chiave della valigia nel calice più vecchio e, senza tendere alcun muscolo se non quelli delle mani e delle tempie, tirò fuori la valigia, la quale scivolò senza opporsi alla sua natura, simile alla nostra. Che cosa erano infine le anime nostre, le nostre teste uguali o diverse da quell’oggetto, vive o morenti nell’occhio del sarto?

“Ora, mie care, per la città, troverò ancora risate e fiori. Il mondo degli altri non capirà. L’ago nel collo mi terrorizza, ma nelle mani ho la risposta forse al mio terrore.”

Comprendevamo le sue risposte, erano nate assieme a noi, lo lasciavamo fantasticare, era lo scopo di umani pensieri. E uomini e piante in un atelier, o in qualunque altro vicolo della città, potevano odorare di calde urine o di imperfette verità.

“Perché ci hai creato?” gli domandammo, mentre la commiserevole pietà del caso lo accompagnava verso l’uscita, dritto, sudato, con la valigia. 

“Dalla vetrina,” ci disse il sarto, “tutto vi appare vero e falso, in quanto reale per il reale. Come il mio ago nella gola, o la valigia e i suoi segreti, se fosse falso quello che dico, se fosse falso quello che ho detto?”

“Tu sai bene che non lo è. Noi siamo qui; le tue stoffe aspettano gli aghi, e la valigia è immobile nelle tue mani come il caffè che ascolta il sole.”

I bambini poveri piangevano perché non ne potevano più di camminare; davanti alle vetrine del sarto strisciavano i piedi per terra. E mentre quel suono immortale giaceva tra mura e catene, il sarto un po’ stanco spense la luce dell’atelier.

Di nuovo in strada, dritto e più vecchio, si domandava come fare. Se si fosse chinato per aprirla, avrebbe rischiato di morirvi, trafitto dal suo ago; se avesse chiesto a qualcuno di aprirla per lui, forse rischiava le accuse più gravi. Allora la prese con sé; dalla cinghia di pelle la trascinò sulla salita. Era la strada una volta in discesa e una volta in salita, come la legge sociale di Bonaparte; il sarto se ne fece una ragione.

Muoveva un solo braccio, e le gambe come uno di noi; si confondeva col nostro mondo e ripensava al padre e al nonno. Si rivedeva bambino, ancora nell’atelier, dove noi altre, giovani e belle, luccicavamo dei sogni altrui, come se un codice irreale ci imponesse quel dovere e ci guidasse nel mondo degli altri per portarci l’amore del sarto cucito addosso con gli spilli bagnati della sua saliva. Era come se ci baciasse. 

Lungo la salita, poco prima di Cassini, il sarto si ricordò della sua valigia. La tirò più forte; era pesante, più pesante se non si poteva usare tutto il corpo per trascinarla. Era la valigia a pesare, e la giornata che conteneva, lunga, senza tanto senso comune. 

Sopra di lui un antico palazzo gli fece ombra sulle scarpe; vi entrò, senza guardare. Era caldo, i vapori dei ristoranti penetravano ogni volta nei palazzi più vecchi e saziavano le famiglie povere della città. 

Per essere sicuro che non piegasse alcuna parte del suo corpo se non ginocchia e piedi, posò una mano sulla balaustra e strinse la cinghia della valigia nell’altra. Il buio e l’urina facevano il resto.

Dopo un’ora, a tarda notte, il sarto arrivò alla nostra porta. Era il posto dove noi altre abitavamo prima di compiere le promesse. Quando rivide la porta e i muri, di quel colore ancora sbiadito, una lacrima liberò la sua lunga giornata passata. “Era questo il posto,” si disse il sarto mentre bussava. Il campanello smosse i ricordi. Gli aprirono le nostre madri, erano sagge e commosse. Lo fecero entrare. I pavimenti del ballatoio erano ancora chiari; quelli al di là della soglia divenivano scuri e sporchi di ombre e di dolci misteri. 

“Cosa ci hai portato? Perché resti in piedi e muto?”

“Perché ho un ago nella gola,” rispose il sarto, “e non resterò molto da questa parte assieme a voi.”

“Il tempo che fu, e che hai scordato, è quello che adesso ti spaventerà?”

“No, mie adorate, non ne ho paura,” disse ancora il sarto senza gli occhi, “anche alle altre, nel mio atelier, ho raccontato questa storia, e mi hanno detto che nulla è vero se poi si racconta. Ma che nulla, in fondo, può essere falso se resta nella nostra testa. Se sono qui stanotte, davanti a voi, è per l’amore che cucio addosso, e quello è vero come l’acqua quando brucia.”

“Noi ricordiamo le tue mani, il tuo nome, i tuoi segreti in questa casa li hai lasciati. E cosa porti in quella valigia?”

“Da tutto il giorno, con la paura di aver ingoiato l’ago, l’ennesimo spillo sparito dalla bocca, mi domandavo se prenderla o no, e questa notte in questa casa così buia, mi sono deciso a parlarne con voi.”

Nelle vetrine dell’atelier le luci erano spente; pochi riflessi sulle guance tristi che ci ritroviamo ci illuminavano per darci vita. Sentivamo da quaggiù le sue parole e le risposte delle nostre madri. Comprendevamo nella penombra come il destino di noi altre fosse scritto con quel gesso sulla stoffa. Era la legge delle generazioni, la loro successione nell’Aldilà.

In quella casa, nel buio della notte nizzarda, il sarto che ci aveva amato parlava ancora per un po’: “Era la legge, mie adorate, non me ne vogliate!”

“Come potremmo! Come potremmo!”

“Ora sapete, voi come loro, che questa casa vi accoglie per sempre, per tutta la vostra eternità.”

Noi sapevamo, loro sapevano, che nella valigia c’era la risposta. Ogni volta che si cerca una risposta, è bene sapere che da qualche parte lei si nasconde. Sapevamo, per la natura infinita delle donne, che c’erano paure di aghi e spilli nelle gole dei sarti, e che ogni giorno il dubbio di averne ingoiati li avvicinava al nostro mondo, cucendoci addosso il loro amore. 

Prima di entrare nel vecchio palazzo all’incrocio con Cassini, il sarto aveva compreso che la sua storia di amore e aghi finiva su quella porta. Avrebbe a lungo continuato a girare attorno alla risposta, sottraendosi all’antica legge del tempo e all’usura dei corpi, dei nostri corpi.

Ma, che lui lo volesse o meno, adesso era lì come ogni sera; quella casa nel buio gli apparteneva, come era appartenuta in qualche modo a suo padre e a suo nonno, già morti senz’aghi né amore. E quando quella valigia usciva dall’atelier portando via la più vecchia, ognuna di noi piangeva di rabbia perché non era ancora toccato a lei.


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