«Ascolta, oh demone, il mio sogno in vita.»
«Per la ragione che ancora ti consola?»
«No! Per la gioia, che non è finita
e per la parola, perché ho questa sola…
Accade che di notte sono nudo e vestito
e il mattino dopo non ci sono stelle,
scendo dalla culla che mi ha partorito
nelle tombe nomadi, fra le mille ancelle.
Non si vede nulla, come il tuo mattino
non si sente ancora il suono dell’addio
e accarezzo il corvo, demone, e il puttino
mentre sento il fiume chiuso nell’oblio.
Scendo carponi senza suoni o bava
solo con le mani tese all’infinito
in un lungo e immobile mare di lava
che mi ghiaccia il cuore e ti ferma il dito.
Attorno a me alberi pieni di teschi
siepi con occhi e pozze d’oro nero
in alto volte con i migliori affreschi
in una mano la penna, nell’altra un cero
per fare luce o per commiserare
l’anima dei vivi e il volto dei morti
sul fiume di questo lento andare
fra gli amori inutili e quelli risorti,
in un tempo di ricordi e sogni
in un’epoca di cari abbandoni
della mia nuova ferita e d’ogni
attimo cattivo nei tuoi giorni buoni…»
«Mettiti a sedere e taci se vuoi dire.»
«No! Son vivo e attonito e voglio parlare.»
«Taci, e godi tu che puoi morire.»
E continua lento ad andare il mare…
«Resta zitto, immobile nel fiume
e la gioia e l’alba non saranno tue.»
«Io piuttosto brucio col mio stesso nume,
se non sono tre, beh saranno due
le pietà del mondo e del mio creato
le tue odi immemori e le tue manie
tutte nella vita che tu mi hai negato
ora sono scritte, ora sono mie…»